Giovanni Di Fronzo – Rete dei Comunisti
Questo contributo s’inserisce nel solco dell’iniziativa “Medio Oriente: Una linea di faglia tra imperialismo e nuovo mondo”[1] effettuata dalla Rete dei Comunisti lo scorso febbraio, il cui scopo era fare il punto rispetto ai grandi cambiamenti che stavano e stanno coinvolgendo il quadro della regione mediorientale, sconvolta da lunghi mesi di guerra a partire dal 7 ottobre 2023. In quell’occasione ci si è soffermati sulla situazione palestinese, quella siriana, sulla funzione del sionismo nonché sui rischi di confronti militari corsi dall’Italia. Da allora, la guerra permanente imperialista e sionista è continuata ed occorre tenere aggiornata l’analisi rispetto ai continui mutamenti in atto. L’annuncio della dissoluzione del PKK, indubbiamente, è un argomento su cui soffermarsi, sia perché potrebbe avere conseguenze negli equilibri prossimi venturi, sia perché alla sua lotta è indubbiamente legato un grande patrimonio di solidarietà internazionalista in Occidente.
Cenni storici
La parabola storica del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) è lunga e molto originale.
Fondato nel 1978 da una precedente organizzazione studentesca marxista-leninista, nel 1980 ha dovuto subito fare i conti con il colpo di stato militare, messo in atto per restaurare l’ordine sconquassato dai turbolenti anni ‘70 turchi.
I suoi militanti sono costretti a ridispiegarsi specialmente in Siria ed in Libano, grazie anche ai contatti stabiliti con la Resistenza Palestinese. Ed è proprio nell’ambito della guerra civile libanese, combattuta fianco a fianco con i compagni palestinesi[2], che alcune unità del PKK cominciano ad imparare il combattimento. Sono, infatti, coinvolti nella resistenza contro l’occupazione sionista, che costa 11 morti e 15 prigionieri, ma rende l’organizzazione nota a livello internazionale, nonché il punto di riferimento per la solidarietà internazionalista che tutti conosciamo, anche grazie a all’alleanza con l’allora più nota Resistenza Palestinese.
Il resto della struttura non impiegata in Libano, riceve supporto e addestramento presso il regime baathista, che ospita anche Ocalan ed il resto della leadership.
Così nel 1984, l’organizzazione è pronta a cominciare la lotta armata contro lo stato turco, con l’obiettivo conclamato di fondare uno stato indipendente curdo di tipo socialista su un territorio nazionale individuato come inserito entro i confini di Turchia, Siria, Iran, Iraq.
Tutti i governi turchi, all’epoca negavano rigidamente l’esistenza di un’identità nazionale curda e perseguivano una rigida politica di assimilazione, come da dettami politici kemalisti.
Così, Il periodo che va dal 1984 al 1998 è stato segnato da un sanguinoso conflitto, durante il quale vi è stato solo un breve tentativo di dialogo relativo alla Presidenza della Repubblica di Torgut Orzal (1989 – 1993), segnata dai primi tratti di neo-ottomanesimo e che, quindi, non negava del tutto l’identità curda[3]. A partire da tale periodo, si sono potuti presentare alle elezioni anche partiti politici afferenti alla causa curda, anche se fra repressione ed impedimenti vari.
L’alleanza e l’ospitalità del regime baathista durano fino al 1998, quando la Turchia minaccia un’invasione militare, spalleggiata dagli USA.
La Siria, dunque, rientra nel novero dei paesi canaglia che appoggiano il terrorismo proprio perché ospita Ocalan e le basi di addestramento del Pkk e si ritrova completamente isolata in questo confronto. Decide, pertanto, di capitolare.
Si firmano, così, gli accordi di Adana, che prevedevano l’espulsione di Ocalan dal paese e l’illegalizzazione del Pkk[4].
Da lì cominciò il breve peregrinare del leader curdo, che culminò con il suo arresto in Kenia il 15 febbraio 1999. Nessuno dei paesi europei per i quali transitò, compresa l’Italia, resistettero alle pressioni di USA e Turchia per concedergli asilo politico o farlo processare dai tribunali internazionali, come egli stesso chiedeva in alternativa.
L’arresto di Ocalan, in isolamento sull’isola prigione di Imrali, nonché la perdita dell’appoggio della Siria, diedero luogo di lì a poco a modifiche organizzative e ad una pesante revisione ideologica.
La nuova ideologia confederale
Dopo l’arresto di Ocalan, il Pkk dichiara un cessate il fuoco unilaterale con lo stato turco e lo stesso leader, come detto, ispira, attraverso le sue opere dal carcere[5], una revisione ideologica che si rafforza negli anni con l’ascesa al potere del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) di Erdogan, di ispirazione ancora più apertamente neo-ottomana rispetto a Torgut Ozal, quindi anch’esso lontano da politiche assimilazioniste nei confronti dei Curdi. La speranza di un cambiamento radicale, però, resterà delusa.
Il Pkk abbandona, dunque, il marxismo – leninismo per abbracciare il cosiddetto “Confederalismo Democratico”, ideologia municipalista ispirata dal filosofo anarchico statunitense Murray Bookchin[6].
Ocalan individua nello stato-nazione in quanto tale il problema principale dell’instabilità permanente del Medio-Oriente, pertanto immagina la regione come guidata da una serie di comunità che si autogovernano, sulla base di un paradigma basato su eguaglianza radicale fra uomini e donne[7] e sull’ecologismo radicale[8] nella composizione degli organismi municipali e nell’organizzazione economica. L’uso della violenza è concepito solo come autodifesa delle comunità dall’aggressività degli stati-nazione, fintanto che esisteranno e nel momento in cui aggrediranno le comunità stesse[9], che però, da parte loro, si propongono di convivervi pacificamente.
Sul piano pratico, il Pkk smette di rivendicare uno stato del Kurdistan indipendente per attestarsi su una posizione di fatto federalista, anche se, dal punto di vista strettamente ideologico, come visto si tratta, di un “internazionalismo municipalista”, più che di un federalismo classico che mira esplicitamente a creare regioni autonome.
C’è da rimarcare che quest’avversione ideologica allo stato nazione non concepisce la distinzione fra stati imperialisti, stati antimperialisti o stati coloniali nell’accezione leninista. Quindi viene praticata l’alleanza con qualsiasi tipo di stato indistintamente, fintanto che essa abbia “scopi autodifensivi” contro le aggressioni di altri stati. Vediamo, così, le organizzazioni afferenti al confederalismo democratico allearsi con chiunque nell’ambito dell’area mediorientale, indipendentemente dal fatto che tali alleanze assecondino o meno I disegni imperialisti.
L’avversione allo stato – nazione riguarda anche la visione della questione palestinese, giungendo a conclusioni inaccettabili[10]. Del resto, all’indomani del 7 ottobre, da parte curda si condannava tanto Hamas, quanto il regime sionista[11].
Sono questi caratteri ideologici, inequivocabilmente distanti dalle teorie di Marx sullo stato e riecheggianti teorie super-imperialiste variamente declinate, ad aver determinato, nella gran parte della sinistra occidentale, una lunga fase di identificazione acritica rispetto alla causa del confederalismo democratico in generale e della sua declinazione nel cosiddetto Rojava siriano.
Riorganizzazione
Tutti questi cambiamenti vengono portati avanti negli anni seguenti all’arresto di Ocalan, che sono segnati anche da alcuni provvisori cambi di nome (Kadek, Kongra-gel) con relativi annunci di dissoluzione dell’organizzazione precedente, i quali furono molti simili all’annuncio effettuato di recente[12] [13]. Il nome PKK riemergerà con la ripresa del conflitto in Turchia nel 2004.
Nel 2003, l’organizzazione si ridispiega in forze nel Kurdistan iracheno, approfittando anche dell’intervento statunitense della seconda guerra del Golfo. Le aree specifiche sono due zone montuose nelle province di Dohuk e Suleymaniyah, denominate “aree di difesa di Medya”, da allora sotto costante pressione militare turca[14].
Da notare che queste “aree di difesa di Medya” sono situate sotto il controllo del partito Unione Patriottica del Kurdistan (PUK), più affine ideologicamente e negli obiettivi al PKK rispetto al Partito Democratico del Kurdistan (KDP), che sostanzialmente è un alleato regionale della Turchia, anche per quel che riguarda l’ostilità nei confronti del PKK. Questi due partiti si spartiscono, appunto, il potere ed il controllo dei territori del Governo Regionale Curdo in Iraq in una lotta che dura dal 1991, cioè da quando, dopo la Prima Guerra del Golfo, il Kurdistan iracheno si è di fatto autonomizzato.
Negli anni seguenti emergono altre sigle, ciascuna afferente ad uno specifico paese o ad una specifica lotta entro i confini individuati come quelli del “Kurdistan storico”. Queste sigle hanno come denominatore comune l’ispirarsi al Confederalismo Democratico di Ocalan, ma ciascuna, nel corso degli anni, ha sviluppato specificità proprie, obiettivi, tattiche ed alleanze propri, che a volte sono andati in drammatica contraddizione gli uni con gli altri. Tant’è che spesso, nella comunicazione pubblica, ciascuna organizzazione smentisce di avere legami col PKK proprio per evitare di essere inserita nell’alveo delle organizzazioni terroristiche da parte degli USA e dell’UE, per evitare l’aggressività turca e anche per non essere compresa negli appelli al cessate il fuoco unilaterale o a deporre le armi da parte di Ocalan stesso.
Ecco l’elenco delle principali di tali organizzazioni:
- Partito dell’Unione Democratica (PYD), ovvero l’ala politica delle milizie Ypg/Ypj siriane, che dal 2012 hanno dato vita al cosiddetto Rojava nell’ambito della lunghissima crisi siriana. Dalla sua fondazione ha vissuto in un rapporto conflittuale con il regime baathista a causa dei già citati Accordi di Adana. Delle vicende del Rojava si parlerà diffusamente in seguito.
- Partito della Vita Libera in Kurdistan (PJAK) organizzazione iraniana, in conflitto con la Repubblica Islamica, con la quale, però è in vigore un cessate il fuoco unilaterale dal 2011[15]. Anche i militanti di quest’organizzazione si sono ridispiegati in maggioranza nelle aree di difesa di Medya, tuttavia riemergono nei movimenti di massa antigovernativi, quali quello sorto nel 2022 a seguito della morte in una caserma della ventiduenne curda Mahsa Amini[16], posta in stato di fermo dopo una disputa con la polizia per non aver indossato correttamente l’hijab. Questo movimento ha assunto lo slogan curdo “donna, vita, libertà”.
- Partito della Soluzione Democratica del Kurdistan (PÇDK) organizzazione minore attiva nella regione del Governo Regionale Curdo, schiacciato dal dualismo KDP-PUK.
- Unità di Resistenza del Sinjar (YBŞ/HPE), milizie yazide attive nella lotta contro l’Isis nell’area di Sinjar, Kurdistan iracheno, dove le milizie del califfato hanno messo in atto un tentativo di genocidio particolarmente cruento nei confronti della popolazione locale[17]. Da notare che queste milizie hanno stipulato un’alleanza con le Forze di Mobilitazione Popolare filoiraniane, con cui hanno collaborato nella lotta all’Isis e nell’ambito delle quali sono state in parte assorbite per proteggerle dalla repressione del KDP e della Turchia[18].
Tutte queste organizzazioni, assieme al PKK e alle sue varie articolazioni (le milizie HPG/YJA Star e altre) sono unite nell’organizzazione ombrello Unione delle Comunità del Kurdistan (KCK), ambito molto articolato in cui si dovrebbero riunire periodicamente nelle aree di difesa di Medya i rappresentanti di tutte le sigle. Naturalmente non è chiaro se e come riescano a riunirsi tutti. Il KCK rilascia periodiche interviste e dichiarazioni attraverso i propri esponenti di punta, tutti appartenenti alla vecchia guarda del PKK[19].
Ovviamente i nemici ed i detrattori proclamano che tutte queste sigle sono copertura di un’unica organizzazione, ma le tattiche e le alleanze differenziate sono un fatto.
Per quanto riguarda le articolazioni politico-istituzionali della sinistra filo-curda in Turchia, esse esulano da questo discorso e non incluse nel KCK per evitare loro, invano, pressioni repressive. Dalla fondazione del Partito Democratico dei Popoli (HDP) nel 2012, la sinistra filo-curda comprende uno spettro di forze più ampio.
Gli anni della distensione: fondazione del Rojava e processo di pace
Allo scoppio della crisi siriana, le potenze imperialiste occidentali, le petromonarchie del Golfo e la Turchia procedono unite, senza palesare le contraddizioni che si sarebbero palesate gli anni successivi, nell’obiettivo comune di rovesciare il regime baathista. Per centrare questo scopo, si creano decine e decine di milizie che frazionano il paese. Nel 2012, l’esercito governativo si ritira da molte aree al confine con la Turchia per concentrarsi su altre priorità e le milizie Ypg/Ypj, espressioni del PYD, ne assumono il controllo; vi dichiarano un’area autonoma in cui è stabilito il confederalismo democratico come forma di governo (o autogoverno, come affermano loro). Si tratta, per altro, delle zone con l’agricoltura più fiorente di tutto il paese.
In questa fase, la Turchia non contrasta in nessun modo sostanziale questo processo e non vi erano attriti fra le Ypg e le milizie filo-turche.
Era in atto anche in Turchia, infatti, un processo di distensione fra il PKK ed il governo di tendenze islamiste e neo-ottomane dell’AKP, come detto, più aperto a quelli precedenti nel riconoscere l’identità curda, anche se molto a corrente alternata. Il tutto, chiariamo a scanso di equivoci, pur sempre nell’ambito del militarismo blindato e della forte repressione dei dissidenti di ogni tipo, tipico di tutta la storia della Repubblica Turca.
Dopo i primi contatti fra servizi segreti ed Ocalan sull’isola prigione di Imrali, durante le celebrazioni del Newroz del 2013 venne letta pubblicamente una lettera a firma del leader curdo[20]. I punti salienti erano: la rivendicazione della propria lotta come una lotta di successo, l’invito ai combattenti del PKK a ritirarsi al di fuori dei confini turchi, l’auspicio dell’inizio di una nuova fase nella convivenza fra i popoli della Turchia. Non compare alcuna rivendicazione territoriale di alcun tipo.
In risposta, il Pkk adempì al ritiro dei guerriglieri dal paese[21], pur fra tutte le ovvie difficoltà del caso, mentre l’esecutivo istituì un comitato di saggi[22] composto da personalità politiche, intellettuali, artistiche di tutte le etnie con lo scopo di promuovere il dialogo e sensibilizzare l’opinione pubblica circa la necessità della pacificazione nazionale; incredibilmente, il governo s’impegnò ad innescare un processo di dibattito democratico all’interno della società turca.
In questo periodo emerse fortemente il partito HDP che, come detto, rispetto ai precedenti partiti filo-curdi, accoglieva anche altre componenti della sinistra comunista e socialdemocratica, dei movimenti ecologisti, femministi, a favore dei diritti civili e dei diritti delle altre minoranze (greci, armeni, siriaci).
Successivamente venne approvata la “legge per porre fine al terrorismo e rafforzare l’integrazione sociale”[23] allo scopo di proteggere lo status legale dei miliziani curdi che avrebbero deposto le armi e di tutti i mediatori, i quali erano quasi tutti del HDP.
Questi passaggi intermedi sfociarono nella firma di un documento congiunto fra rappresentati del governo ed HDP, definito Dichiarazione di Dolmabahçe[24]. Si trattava di una dichiarazione d’intenti che prevedeva:
- il disarmo completo del PKK
- l’implementazione di una riforma costituzionale che riconoscesse l’identità curda ed i diritti di tutte le minoranze
- l’implementazione di partecipazione che consentissero la partecipazione delle minoranze alla vita politica
- indagini sulle violazioni dei diritti umani durante i 30 anni di conflitto
- il riconoscimento del ruolo di Ocalan (non espressamente la scarcerazione).
Si era di fronte, come si vede ad un processo composto da una serie di passaggi graduali e tangibili, che però s’interruppe in maniera brusca quando sembrava veramente ad un passo dalla fine[25]. I motivi sono sia di politica interna, che di politica estera.
Per quanto riguarda la politica interna, i successi dell’HDP, cui lo stesso Erdogan stava attribuendo un ruolo centrale, andarono oltre le sue previsioni: alle elezioni politiche del giugno 2015 superò lo sbarramento del 10%, facendo perdere all’AKP la maggioranza assoluta. Ne seguì una fase di stallo, culminata con nuove elezioni.
Per quanto riguarda la politica estera, lo stato dei rapporti con l’Occidente si deteriorava, mentre le Ypg stringevano un’alleanza sempre più forte con gli USA.
L’alleanza USA-YPG “sacrifica” il processo di pace in Turchia
Con il prolungarsi del conflitto siriano le varie potenze regionali cominciarono a perseguire degli obiettivi politici autonomi da quelli degli USA che, ad un certo punto, con l’intervento della Russia in appoggio di Assad, si trovarono quasi esclusi dalla partita.
Emersero, per corresponsabilità di tutti gli aggressori della Siria, milizie salafite ultraradicali, come Al-Nusra e l’Isis, che si espansero a macchia d’olio sui territori di Siria e Iraq macchiandosi di crimini inenarrabili, ma ben narrati da un’ampia documentazione video autoprodotta.
In occidente si scatena una campagna mediatica imponente che punta il dito contro la Turchia e il Presidente Erdogan in persona, che erano sì colpevoli, ma come tutti gli altri paesi aggressori.
Con la motivazione della lotta all’Isis, gli USA ritornano in gioco e mettono “gli scarponi sul terreno” per la prima volta dall’inizio del conflitto. Lo fanno alleandosi con le Ypg e stabilendo piccole basi militari sul territorio del Rojava. Cominciano una serie di battaglie sanguinose fra Isis e Ypg (famosa quella di Kobane), appoggiate dalla copertura aerea della cosiddetta coalizione internazionale anti-Isis a guida USA (cui teoricamente faceva parte anche la Turchia, per altro) che, parallelamente all’avanzata dell’esercito siriano, appoggiato da Iran e Russia, porteranno nel giro di alcuni mesi a ridurre il califfato ad una piccola forza guerrigliera che opera nel deserto.
Durante il corso di questi eventi, lo stesso Stato Islamico, in difficoltà, effettua una serie di attentati suicidi sul territorio turco contro manifestazioni della sinistra filocurda[26], facendo aumentare i sospetti circa le complicità fra apparati statali e Isis[27].
Erdogan, allora, decide di rovesciare il tavolo delle trattative col PKK: in pochi giorni rinnegò la Dichiarazione di Dolmabahçe[28], epurò lo stesso AKP di tutte le componenti fautrici del dialogo[29] ed avviò una campagna politica e giudiziaria tesa ad annichilire l’HDP, i cui sindaci vennero quasi tutti destituiti e perseguiti, così come i vertici del partito. Il golpe fallito del 2016, poi, avrebbe fatto il resto, inasprendo il clima di repressione e spingendo l’AKP a stringere un’alleanza stabile con gli ex-lupi grigi del Partito del Movimento Nazionalista (MHP) di Devlet Bahceli, fascista e laico.
Fra gli altri, è in carcere dal 2016 Selhattin Demirtas, all’epoca copresidente del HDP, la cui vicenda è il simbolo del mutato clima nel paese.
Quali sono i motivi reali di questa svolta? È ragionevole pensare che sarebbe stato inaccettabile per Erdogan ritrovarsi contemporaneamente con un’entità curda autonoma appoggiata militarmente dagli USA al di là e poi, magari, anche al di qua del confine siriano, mentre gli USA stessi lavoravano per screditarlo sul piano internazionale e detronizzarlo attraverso un colpo di stato. In tal caso, infatti, un eventuale compattamento delle aree curde tutte sotto l’ombrello americano avrebbe posto a rischio la coesione della Turchia[30].
Pertanto, l’alleanza con gli USA, sebbene abbia aiutato le Ypg ad espandersi e a reggere nel complicato scenario siriano, è stata in grande misura determinante ad affondare il processo politico del PKK e a dare il via ad anni di repressione durissima, che, nei fatti, dura ancora ora.
Interventismo turco in Siria
Inizia così una lunga fase di interventismo diretto della Turchia in Siria per contenere l’area sotto il controllo delle Ypg. Gli USA provano a mitigare l’ostilità di Ankara facendo unire le Ypg ad una serie di altre milizie tribali di varia appartenenza etnica, in una nuova formazione denominata Forze Democratiche Siriane (SDF); ovviamente questo rebranding non sortisce effetti agli occhi della Turchia.
Nel corso degli anni l’esercito turco interviene direttamente diverse volte a sostegno sempre di milizie sunnite radicali, fra cui spiccava Al-Nusra/ Hayat Tahrir al-Sham (HTS).
Ecco le principali operazioni:
- Scudo dell’Eufrate[31], con cui si rimuove l’Isis da alcune aree e s’ impedisce alle SDF di attestarsi lungo tutto il confine, tenendo divisi i cantoni di Afrin e Kobane/Ain al-Arab.
- Ramo d’Olivo[32] [33], particolarmente disastrosa per le SDF, che perde l’intero Cantone di Afrin e soprattutto per la popolazione locale curda, che viene quasi completamente sfollata a beneficio delle famiglie dei miliziani islamisti alleati della Turchia.
- Primavera di Pace[34], con cui le SDF vengono rimosse dalla fascia fra Tel Abyad e Ras al-Ayn, nel nord-est del paese.
In tutte queste imprese militari la Turchia riesce sempre a crearsi il terreno politico favorevole perché gli USA tradiscono sistematicamente l’alleanza con le SDF. E perché il condizionamento USA interviene anche quando la Russia tenta di volta in volta di mediare accordi politici col governo baatista[35], all’epoca ancora in piedi, per scongiurare le invasioni; le SDF rifiutano sempre ogni forma di riconoscimento dell’autorità centrale sui territori oggetto delle mire turche (se non in maniera sporadica e insufficiente[36]), nonostante il rischio di annientamento e di sostituzione etnica per le popolazioni curde sotto le milizie salafite. Eppure, la Russia aveva la possibilità, nell’ambito dei colloqui del formato di Astana, per far rispettare gli accordi.
Inoltre, gli USA stabiliscono a loro piacimento anche le politiche energetiche e commerciali delle SDF, in particolare per quanto riguarda lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi controllati al confine con l’Iraq, impedendone, anche in questo caso, l’”esportazione” verso i territori dell’allora governo centrale.
Tutti questi fattori di inasprimento inutile dei rapporti col regime baathista non è che abbiano giovato nel confronto con la Turchia.
Un altro aspetto favorevole alla Turchia è il rapporto costantemente conflittuale, all’interno del Rojava, fra Ypg ed i rappresentanti locali del KDP[37], nel solco della torica rivalità regionale, nonché alcune defezioni da parte di altre componenti delle SDF[38].
Nuovo processo di pace e post-caduta di Assad
La situazione prosegue in termini conflittuali, sia in Turchia, sia in Siria, fino a ottobre 2024, quando arrivano i primi segnali di apertura, paradossalmente provenienti proprio dall’ultranazionalista Davlet Bahceli, verso il Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli (DEM), erede del HDP, e verso Ocalan in persona[39]. Erdogan, da parte sua, si dice aperto ad incontrare anche Assad e cominciare un processo distensivo anche le forze governative siriane, subendo il rifiuto del Presidente siriano[40], che si condanna, in questo modo, alla caduta circa due mesi dopo.
A questo punto accadono due fatti contraddittori: mentre ad Ocalan viene concessa la prima visita dopo molti da parte del nipote Omer, durante la quale fa recapitare il messaggio di voler “muovere questo processo da un piano di conflitto e violenza a un piano legale e politico”[41], il PKK rivendica un attentato presso una fabbrica di armi ad Ankara[42]. Ciò ha fatto pensare che l’intero processo fosse a rischio ancora prima di cominciare e che non vi fosse più la predisposizione da parte dei militanti del PKK a seguire le parole del leader.
Con la caduta del regime baathista per mano di milizie qaediste filoturche, la leadership di Ankara pone sotto pressione il Rojava, minacciando un intervento miliare diretto, anche nella speranza che al suo insediamento, Trump abbandoni definitivamente gli alleati in Siria. Le milizie del cosiddetto esercito nazionale siriano (SNA), più direttamente legate ad Ankara, si schierano per l’offensiva definitiva. Per evitarla, la Turchia pone come condizione che le Ypg si sciolgano ed i suoi combattenti si “sparpaglino” all’interno del nuovo esercito centrale qaedista agli ordini di Al-Golani, perdendo la propria autonomia e le proprie linee di comando[43].
I vertici delle Ypg riescono a scongiurare questa eventualità, esercitando il ricatto del controllo dei campi di prigionia dell’Isis e grazie al controllo delle risorse petrolifere del paese, necessarie alle nuove autorità qaediste per sopravvivere; facendo leva su questi due fattori, riescono ad ottenere la permanenza degli USA e ad aprire un’interlocuzione autonoma direttamente con Al-Golani (HTS di per sé è più indipendente dalla Turchia rispetto al SNA).
I vertici turchi ne prendono atto, e deliberatamente si giocano la carta della chiamata al disarmo di Ocalan.
Il 27 febbraio così, viene letta da alcuni parlamentari del Partito DEM, di fronte a migliaia e miglia di persone radunate davanti ai maxischermi, una dichiarazione del leader curdo in cui chiede al PKK di convocare un Congresso di dissolvimento dell’organizzazione[44].
Diciamo che quella di Ankara è una mossa deliberata in quanto è noto il pensiero di Ocalan rispetto al conflitto Turchia-PKK sin dal suo arresto: sin dall’arringa difensiva durante il processo, infatti, ogni volta che gli è stato consentito, egli ha rilasciato dichiarazioni simili, tutte improntate all’ invito di interrompere la lotta armata. Il Governo turco ne ha deciso le tempistiche a seconda delle convenienze del momento.
La dichiarazione di Ocalan: a chi è rivolta?
Le reazioni polari iniziali alla lettura di tale dichiarazione sono state contrastanti, perché, al momento, il governo turco non è chiaro cosa offra in cambio[45].
Andando ad analizzarla, affianco ai consueti richiami alla fratellanza curdo-turca, alla democratizzazione della società e all’affermazione che, con la caduta del socialismo reale e la fine delle politiche di assimilazioniste in Turchia, il PKK abbia completato la propria missione storica, vi sono dei punti aperti a diverse interpretazioni.
Sebbene nel testo i riferimenti sono quasi tutti alla sola Turchia, ci sono due passaggi che si possono interpretare come riferiti anche alle altre sigle, oltre al PKK. Quindi anche alle Ypg:
- “Le conseguenze inevitabili di un nazionalismo estremo – come la creazione di uno Stato-nazione separato, una federazione, un’autonomia amministrativa o soluzioni culturaliste – non rispondono alla sociologia storica della società”.
- “convocate il vostro congresso e prendete una decisione: tutti i gruppi devono deporre le armi e il PKK deve sciogliersi”.
Si declinano, dunque, soluzione autonomiste curde e si chiamano tutti i gruppi affiliati al PKK al disarmo.
Immediatamente il capo militare delle Ypg Mazloum Abdi si è affrettato a specificare che questa dichiarazione fosse indirizzata solo ed esclusivamente il PKK[46] in quanto tale; la parte turca, invece, ne dà un’interpretazione opposta[47], minacciando fuoco e fiamme nel caso in cui qualche sigla dovesse astenersi dall’aderire.
È difficile, però, ipotizzare che altre organizzazioni possano allinearsi al richiamo al disarmo, avendo ciascuna una situazione particolare: oltre alle Ypg, per le quali si tratterebbe di una capitolazione nei confronti di HTS, anche le YBŞ, ad esempio, essendo entrate nelle PMU e quindi, formalmente, nell’esercito iracheno, difficilmente sceglieranno di sciogliersi.
Pertanto, le altre organizzazioni hanno rilasciato commenti positivi rispetto all’annuncio di Ocalan, ma hanno affermato di non essere coinvolte[48].
Solo il PKK ha immediatamente affermato di aderirvi, dichiarando un cessate il fuoco unilaterale con la Turchia e di apprestarsi a convocare un congresso [49].
Come si capisce, finché la questione non viene sciolta in maniera condivisa fra i partecipanti al processo di pace, il dialogo sarà sempre minato dal sospetto/pretesto che militanti ed armi possano transitare dal PKK ad un’altra sigla non aderente al cessate il fuoco e rendere il disarmo solo formale.
Le SDF riconoscono Al-Golani presidente e il PKK dichiara la dissoluzione: si cerca l’accordo generale?
Il 10 marzo, proprio mentre HTS è nell’occhio del ciclone per la rivolta delle minoranze nella costa mediterranea, cui stava rispondendo con un autentico tentativo di genocidio, Mazloum Abdi tende la mano ad Al-Golani, riconoscendolo quale autoproclamato presidente della Siria e firmando con lui un accordo di integrazione del Rojava nel “nuovo” stato centrale[50]. In verità il testo è molto generico e rimanda a delle fasi successivi i principali punti di dissenso fra le parti: l’ordinamento centralizzato o federale dello stato, le modalità d’integrazione delle milizie Ypg nell’esercito, tenendo inalterata la loro attuale struttura o sciogliendo i miliziani nel resto delle unità.
Successivamente, il PKK rilascia una dichiarazione e due video in cui afferma di aver concluso il suo dodicesimo congresso[51] e di aver aderito alla richiesta di Ocalan di rinunciare alla lotta armata e dissolvere l’organizzazione. Non è chiaro se e come lo stesso Ocalan abbia avuto modo di prendere parola durante i lavori.
La risoluzione congressuale riecheggia in tutto e per tutto l’analisi storica del leader sul ruolo del PKK e sostanzialmente affida la continuazione delle battaglie del partito alle forze politiche legali della sinistra turca, auspicando una trasformazione democratica nella società che favorisca la riconciliazione turco-curda e possa evolvere, in futuro, verso forme di “socialismo democratico”. Ovviamente si dice che il Governo ed il Parlamento dovranno garantire una cornice di garanzie legali, che riconosca anche il ruolo di Ocalan quale guida del dialogo nazionale.
Contemporaneamente a questi pronunciamenti storici, è in corso una febbrile attività diplomatica, alla quale partecipano anche USA e Francia, al fine di trovare una quadra definitiva in Siria[52], che culmini con l’accettazione, da parte della Turchia, di un assetto federale dello stato, fornendo le dovute rassicurazioni rispetto al problema della presenza delle Ypg.
La chiave potrebbe risiedere nel coinvolgimento del Governo Regionale Curdo in Iraq[53], che potrebbe sia avere un ruolo nella governance di un’eventuale regione autonoma curda in Siria, sia ospitare capi e militanti delle Ypg sgraditi da Ankara; stessa cosa potrebbe accadere per i capi del PKK cui eventualmente non sarà consentito di rientrare in Turchia.
Il KDP dei Barzani, infatti, possiede grandi leve negoziali essendo in buoni rapporti con tutte le potenze imperialiste e regionali in gioco.
Nelle intenzioni di Ankara, il processo di pace messo in piedi è una manovra atta a limitare quanto più possibile la regione curda in Siria (non escludendo un’azione militare col protesto che le Ypg non hanno seguito le indicazioni di Ocalan) e, sul piano interno, allargare la base di consenso nei confronti del governo, attualmente in grande difficoltà per la crisi economica e per lo stato di guerra permanente che persiste nella regione. Questo a prescindere dalle intenzioni di Erdogan riguardo il suo futuro e dalle possibili modifiche costituzionali: per potersi eventualmente ricandidare, infatti l’attuale Presidente ha bisogno di estendere il limite costituzionale di mandati consentiti, fermo a due, ed avrebbe, quindi, bisogno del consenso del partito DEM e della popolazione curda in generale al momento della ratifica referendaria. Tuttavia, egli continua a negare questa volontà di ricandidatura[54], che il mondo intero gli attribuisce.
A decidere se questo disegno andrà a buon fine, sarà l’evoluzione della situazione in Siria: un consolidamento del regime qaedista potrebbe favorire la ricerca di un equilibro con le SDF accettabile per Ankara. Se, invece, i sionisti o gli USA dovessero mettere in atto la strategia del caos oppure dovessero emergere rivolte ad opera delle minoranze vessate da HTS, tutto verrebbe rimesso in gioco con esiti imprevedibili. Al di qua e al là dei confini.
PKK: un ritorno sulle posizioni dei negoziati del 2015 a condizioni peggiorate
Dal punto di vista strettamente politico, le istanze e gli obiettivi del PKK erano già da tempo sovrapponibili a quelli del HDP prima e delle sue successive riproposizioni poi. Inoltre, la sua operatività all’interno dei confini turchi era da tempo abbastanza limitata. Pertanto, teoricamente il suo autoscioglimento non solo non lascerebbe nessun vuoto politico, ma sarebbe anche funzionale a rimuovere pretesti per esercitare pressioni repressive.
Si era giunti a questa conclusione anche nel 2015. Se, però, allora il processo di pace si svolse, come si è visto, in maniera più strutturata e partecipata, ora il PKK ricomincia, 10 anni dopo, dallo stesso punto, ovvero la dichiarazione unilaterale di depositare le armi, ma con meno garanzie.
A differenza del processo di pace 2013-2015, infatti, nulla si è stabilito in via preliminare sui punti dirimenti di un processo di disarmo: modalità di smantellamento degli arsenali, destino dei militanti (potranno tornare in Turchia? Potranno essere attivi politicamente? O dovranno rimanere in esilio?), destino dei prigionieri.
Non è stata nemmeno avviata alcuna discussione pubblica partecipata.
Abbiamo solo dichiarazioni pubbliche da entrambe le parti che arrivano a freddo nelle case sul grosso della società turca, la quale non percepisce che sia in corso un processo sociopolitico di portata storica[55], come avveniva dieci anni fa. Tutto accade nell’ambito di contatti fra vertici politici e rapporti diplomatici internazionali.
Nel frattempo, sono intercorsi diversi interventi diretti turchi in Siria ed Iraq che hanno fatto migliaia di morti e centinaia di prigionieri nelle fila del HDP che, nel frattempo, ha dovuto cambiare altre due o tre denominazioni per potersi ricandidare alle elezioni. Fortunatamente, la base di consenso popolare è rimasta solida, nonostante tutte queste peripezie e la consistente popolarità del AKP fra la popolazione curda.
In definitiva, per come sono messe ora le cose, sembra possibile finalizzare un accordo con il governo turco limitato ad un allentamento della repressione, alla liberazione di un certo numero di prigionieri e a favorire un accordo in Siria che scongiuri un intervento militare diretto. Ma non sembrano esserci leve per imporre cambiamenti costituzionali più sostanziali, che puntino alla tanto agognata democratizzazione del paese o a forme di decentramento del potere. Del resto, gli accenni di Erdogan rispetto alla necessità di modificare la Costituzione non specificano in che direzione intenda muoversi[56].
Anche per le SDF i rapporti di forza sono cambiati in negativo: oltre ad aver perso territori, più recentemente, hanno anche subito la caduta del regime baathista.
Per quanto si siano vocalmente allineate alla retorica della fantomatica “rivoluzione siriana contro il tiranno”, infatti, è sparito dal terreno un attore con il quale condividevano l’avversione all’espansionismo turco e all’ideologia del sunnismo radicale, accrescendone l’isolamento. L’architettura diplomatica messa in piedi con HTS, come si è visto, è sempre soggetta ai tradimenti da parte degli USA, oltre cha all’imprevedibilità della stessa HTS. Mentre un ipotetico dialogo con il regime baathista avrebbe avuto un corso sicuramente più prevedibile.
In ogni caso, la strategia di fondo, che ha portato anche al sacrificio del primo processo di pace, sembra avere al centro l’idea di preservare l’esistenza del Rojava, facendo leva sui buoni rapporti stabiliti con gli USA e sulle contraddizioni fra questi ultimi e Turchia. Per quanto riguarda la Turchia, si è disposti accettare anche accordi penalizzanti, in attesa che tale contraddizione si risolva, magari con l’ascesa ad Ankara di un Presidente o di un esecutivo più allineato con Washington, quale che sia la sua bandiera ideologica, sperando che si aprano, coì, strade verso riforme dell’ordinamento statale più profonde. È questa la logica, ad esempio, che ha portato il partito DEM ad appoggiare i Repubblicani alle scorse elezioni presidenziali e a quelle comunali nelle grandi città contese. Ma giova ricordare che i Repubblicani, essendo kemalisti, sono storicamente assimilazionisti verso i Curdi, tanto da essere stati contrari al processo di pace 2013-2015. La lunghissima permanenza all’opposizione pare, tuttavia, aver loro fatto cambiare linea.
Ora c’è attesa per capire se il processo di pace in corso porterà la sinistra sotto l’ala governativa e se, con l’Amministrazione Trump, i rapporti USA-Turchia evolveranno in maniera positiva. Dal trasformismo di Erdogan ci si può aspettare di tutto.
Conclusioni
Come si vede, le vicende legate alla deposizione delle armi da parte del PKK è foriera di sviluppi del tutto imprevedibili, in linea con gli sviluppi nell’intero quadrante mediorientale: tanto può rivelarsi un fattore dirompente per gli equilibri nell’area, tanto può rivelarsi assolutamente irrilevante o un’operazione puramente di facciata.
La questione più controversa che si pone ai nostri occhi è sicuramente la politica spregiudicata di alleanze effettuata negli ultimi anni, in particolare per quanto riguarda le Ypg, che continuano il maggiore alleato degli USA sul terreno della Siria. Tale alleanza ha avuto esisti abbastanza contraddittori, a dispetto di chi ne vede solo gli esiti positivi, e sta ispirando una linea di condotta altrettanto contraddittoria: affermatosi inizialmente come un bastione anti-Isis, quindi in contrapposizione all’oscurantismo islamico, il Rojava ha ora riconosciuto l’autoproclamato presidente qaedista Al-Golani, con il quale sta trattando l’integrazione delle proprie strutture in quelle dell’autorità centrale. In precedenza, aveva rifiutato di effettuare passi del genere con il laico regime baathista, al costo di andare incontro a disastri come quello di Afrin, in cui la popolazione curda è finita sfollata[57]. Dietro tutto questo, non è difficile vedere la longa manus statunitense. Ovviamente c’erano rigidità anche da parte di Assad, ma queste erano legate soprattutto, ancora una volta, alla presenza militare USA.
Altre formazioni politiche che, all’inizio delle cosiddette primavere arabe, si erano allineate all’allora alleanza Turchia-Fratelli Musulmani-USA[58] [59], quali Hamas, successivamente hanno potuto/voluto modificare la propria posizione una volta preso atto che il treno su cui erano saltate era quello sbagliato e danneggiava la loro lotta nazionale; ciò senza per questo distaccarsi totalmente dalle alleanze precedenti le quali, però, come si vede nel caso dello stesso Hamas dalla caduta del regime baathista in poi, non stanno portando a nulla.
Fino ad ora, se si eccettua il caso numericamente minore delle milizie Yazide YBŞ, nessuna formazione del KCK è riuscita a rendersi indipendente dai capricci e dalle strumentalizzazioni USA, portando al progressivo logoramento della situazione.
Questo logoramento è dimostrato anche dal calo drastico della visibilità e del prestigio internazionale del Rojava, che durante la lotta all’Isis aveva raggiunto livelli ragguardevoli specialmente in Occidente, portando ad un’intensissima attività di solidarietà e anche a reclutamenti. Attualmente, quel fermento è sparito.
Ora che la presenza militare USA in Siria si sta effettivamente riducendo[60], non paiono esserci piani b rispetto al fatto che tutto vada bene, ovvero che si giunga ad un accordo effettivo in Turchia, perseguito a qualsiasi costo, e che in Siria si trovi una quadra generale accettata da tutte le potenze in gioco; dopo di che si vedrà cosa sarà rimasto del Rojava e come si collocherà il partito DEM.
Se, invece, qualcuno di questi tasselli dovesse venire meno, si schiuderebbero le porte del caos e potrebbe succedere di tutto.
Fino ad ora, il riconoscimento della leadership di Ocalan è stato il collante che ha permesso di mantenere una sostanziale compattezza fra tutte le organizzazioni afferenti alla sua ideologia, pur nella differenza delle situazioni particolari; se le cose andranno male, sarà ancora così? Le tempistiche dell’ultimo attentato del PKK alla fabbrica di armi di Ankara sollevano qualche interrogativo. Così come solleva qualche interrogativo anche la formulazione di Ocalan, effettivamente ambigua, rispetto allo spettro di sigle cui è rivolto il suo appello al disarmo.
La libertà di Ocalan dopo quasi 30 anni di isolamento, assieme alla libertà di tutti i prigionieri politici, oltre ad essere un atto di giustizia, aiuterebbe anche a far chiarezza. Permetterebbe, infatti, al leader curdo di esprimersi liberamente ed in maniera argomentata, anziché solo per brevi comunicati, evitando la continua strumentalizzazione delle sue parole.
Quel che ci sentiamo di dire è che nessuna lotta di liberazione nazionale da parte di un popolo oppresso possa svolgersi e trovare un proprio sbocco all’interno di una regione mediorientale ridisegnata in senso reazionario dalle guerre imperialiste e sioniste, come sta avvenendo da qualche tempo, né tantomeno durante un genocidio in corso, come quello a Gaza.
NOTE
[1] ↑ Medio Oriente: le videoregistrazioni dell’iniziativa di Roma del 23 febbraio 2025
[2] ↑ Una storia di resistenza condivisa: le lotte curdo-palestinesi negli anni ’80
[3] ↑ PROFILE – Turgut Ozal: Leader who transformed Turkey’s economy
[4] ↑ Why is the 1998 Adana pact between Turkey and Syria back in the news?
[5] ↑ Books by Abdullah Öcalan
[6] ↑ Ecologia sociale e pedagogia politica in Murray Bookchin
[7] ↑ Gineologia e confederalismo democratico
[8] ↑ Discussioni e pratiche di ecologia nella lotta di liberazione curda
[9] ↑ La questione curda e il Confederalismo democratico: una prospettiva federalista (Parte 6)
[10] ↑ Nel testo di Ocaln “Confederalismo Democratico”, reperibile in Abdullah Öcalan Confederalismo democratico, si può leggere: “Nessuno crede che gli arabi saranno capaci di trovare una soluzione nazionale araba ai loro problemi interni e transnazionali. Tuttavia, la democratizzazione e un approccio comunalista potrebbero fornire una tale soluzione. La loro debolezza nei confronti di Israele, che gli Stati arabi ritengono un concorrente, non è solo il risultato del sostegno internazionale da parte dei poteri egemonici. È piuttosto il risultato di forti istituzioni democratiche e comunitarie all’interno di Israele”. Altrove si legge:” Il progetto di una “confederazione democratica del Levante” sarebbe un inizio positivo. Identità religiose rigide ed esclusive possono evolversi in identità flessibili e aperte nell’ambito di questo progetto. Israele può anche evolversi in una società democratica aperta più accettabile. Indubbiamente, però, anche i suoi vicini devono attraversare una tale trasformazione.”. La natura intrinsecamente coloniale dello stato sionista è negata.
[11] ↑ Syrian Kurdish commander: ‘We don’t want to become battleground between US, Iran’
[12] ↑ Kurdistan, autoscioglimento del Pkk
[13] ↑ KADEK Disbands to Set Up New Party
[14] ↑ What does Turkey want to capture in claws Eagle and Tiger?
[15] ↑ Fighters of armed group opposed to Iran: PJAK
[16] ↑ The Kurdish Struggle Is at the Heart of the Protests in Iran
[18] ↑ Why Sinjar is a growing focal point for Iraqi, regional competition
[19] ↑ KCK – Kurdistan Democratic Communities Union
[20] ↑ Il saluto di Ocalan per il Newroz
[21] ↑ Kurdish Group to Pull Armed Units from Turkey
[22] ↑ PM Erdoğan, wise men meet for settlement
[23] ↑ The Draft Law on the Termination of Terror and Strengthening of Social Integration
[24] ↑ HDP: Dolmabahçe Agreement is the only solution
[25] ↑ Erdoğan ended resolution process just 10 days before planned PKK disarmament, says Demirtaş
[26] ↑ Suruc massacre: ‘Turkish student’ was suicide bomber
[27] ↑ Demirtas says AKP’s ‘hands are red with blood.’
[28] ↑ Erdoğan’s denial of ‘Dolmabahçe Agreement’ sparks row
[29] ↑ Turchia, scontro con Erdogan si dimette Davutoglu
[30] ↑ Kurdish peace ‘impossible’ – Turkey’s Erdogan
[31] ↑ Operation Euphrates Shield: Aims and Gains
[32] ↑ The Spread of Operation Olive Branch and the Next Phase of War in the Fertile Crescent
[33] ↑ Il massacro di Afrin, nel silenzio dell’Occidente
[34] ↑ ABOUT OPERATION PEACE SPRING
[35] ↑ The Latest: Russia Warned Kurdish Officials of Turkey Attack
[36] ↑ Why Erdogan may accept the Syrian army taking control of Afrin
[37] ↑ Borders Beyond Borders: The Many (Many) Kurdish Political Parties of Syria
[38] ↑ Protests and SDF defections: Discontent simmers in eastern Deir e-Zor
[39] ↑ Turkey: Erdogan’s nationalist ally invites jailed PKK leader Ocalan to address parliament
[40] ↑ Turchia–Curdi: l’espansionismo sionista fa ripartire il dialogo?
[41] ↑ Ocalan, rotto il silenzio. Raid turchi in Kurdistan
[42] ↑ Turchia: il Pkk rivendica l’attacco di Ankara, ma il dialogo non si ferma
[43] ↑ Turkiye threatens military action against Kurdish forces in Syria
[44] ↑ Appello per la pace e una società democratica
[45] ↑ End of an era? PKK leader Ocalan orders militants to end war with Turkey, ‘dissolve’
[46] ↑ SDF says Ocalan’s call for PKK disarmament, dissolution does not apply to them
[47] ↑ YPG not exempt from Ocalan’s message: Bahceli
[48] ↑ Iran-based PKK ally says to continue armed struggle
[49] ↑ PKK Responds to Ocalan’s Call, Announces Ceasefire
[50] ↑ Accordo HTS-SDF. Al-Jolani prende fiato
[51] ↑ PKK Final Declaration: Activities under the name of the PKK have ended
[52] ↑ President Nechirvan Barzani meets with French Minister of Foreign Affairs Jean-Noel Barrot
[53] ↑ Kurdish Unity Efforts Gain Momentum Amid an Uncertain Future in Syria
[54] ↑ I don’t plan to stand for president again – Erdogan
[55] ↑ Why has the PKK chosen to give up the armed struggle?
[56] ↑ Erdogan pushes forward with a new draft constitution that addresses Turkey’s political future
[57] ↑ How Afrin became Syria’s latest humanitarian disaster
[58] ↑ Destabilizzazione e guerra in Medio Oriente
[59] ↑ Obama e la scommessa sbagliata sui Fratelli Musulmani
[60] ↑ US to reduce military presence in Syria, keeping only one base operational
CREDITS
Immagine in evidenza: Abdullah Öcalan
Autore: AmedDestan
Licenza: Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International
Immagine originale ridimensionata e ritagliata