La “Die Linke” e il corteo del 27 settembre
Biagio Borretti
Il genocidio dei palestinesi, da “grande rimosso” del dibattito pubblico, negli ultimi tempi ha conquistato gli onori delle cronache quotidiane, impegnando anche le agende internazionali di numerosi governi. Le grandi mobilitazioni sociali che stanno attraversando le nostre società, la solidarietà che sta arrivando al popolo palestinese dal basso occupano le pagine di giornali, talk show e le bacheche dei social network. Ciò che fino a poco fa si tentava di catalogare come espressione di marginali frange di estremismi politici, oggi strappa l’attenzione dei giornalisti e dei politici anche più restii ad occuparsi del tema.

Lo sciopero del 22 settembre, indetto dall’USB, ha destabilizzato il quadro politico e istituzionale, spiazzando sindacati confederali e partiti dell’opposizione parlamentare, oltre che la maggioranza.
Lo sciopero, capitalizzando una diffusa indignazione tra le masse, da un lato ha “costretto” Landini a fare pubblica ammenda per le ultime iniziative della CGIL, dall’altro ha “costretto” il Governo italiano – anche alla luce degli attacchi israeliani nella notte tra il 23 e il 24 settembre – ad inviare una fregata della Marina militare al seguito delle navi della Global Sumud Flottilla battenti bandiera italiana, col seguente compito «… per un’eventuale attività di soccorso, di assistenza e di protezione alle persone che si sarebbero potute trovare in pericolo» nelle acque internazionali (parola del Ministro della Difesa Crosetto resa al Senato il 25 settembre).
Mentre in Belgio il locale Partito del Lavoro da tempo è impegnato in un campagna per promuovere sanzioni severe contro Israele, denunciando il genocidio con grandi mobilitazioni di piazza; se in Inghilterra milioni di persone negli ultimi anni hanno manifestato su questi temi, tanto da eleggere un gruppo di parlamentari indipendenti proprio sulla base di una piattaforma programmatica che dedicava ampio spazio alla questione genocidiaria e alla solidarietà internazionalista al popolo palestinese; ancora, nel Regno Unito, si pensi alla recente iniziativa sostenuta da Jeremy Corbin con l’istituzione del “Gaza Tribunal”, una inchiesta dal basso sulla complicità del Regno Unito nel genocidio; se in Italia tante mobilitazioni locali, cocciutamente persistenti in questi anni, sono sfociate nella grande mobilitazione del 22 settembre scorso e in Spagna, solo per fare un esempio, la Vuelta è stata letteralmente “tormentata” dal boicottaggio della nazionale israeliana… la grande assente da questo scenario internazionale era la sinistra tedesca.
La “Die Linke”, che ha trovato rinnovato slancio anche elettorale negli ultimi mesi, grazie ad una piattaforma politica che ha messo al centro temi di stringente attualità legati alla questione abitativa, ai salari e all’occupazione, oltre che all’antifascismo, soprattutto contro l’AfD, “brillava” per il prolungato silenzio sulla questione israelo-palestinese.
In Germania il tema dell’antisemitismo condiziona l’intera agenda politica, generando vere e proprie ondate di “panico morale” e conseguenti pratiche repressive. Tale contesto è stato ricostruito con estrema precisione ed efficacia in un libriccino di Donatella Della Porta, “Guerra all’antisemitismo? Il panico morale come strumento di repressione politica”, edito da Altreconomia (2024).
Dopo il 7 ottobre 2023 i margini per la libertà di opinione in Germania si sono ristretti paurosamente, tanto da essere stati vietati slogan come “Palestina libera”, “Dal fiume al mare – Palestina sarà libera” o i simboli palestinesi come le keffiyeh, fino a proibire in via preventiva manifestazioni di solidarietà vero il popolo palestinese (si v. D. Della Porta, op. cit., p. 23).
Della Porta parla di vera e propria “burocratizzazione delle politiche contro l’antisemitismo”, che “istituzionalizzano” come antisemite anche le critiche allo Stato di Israele o, ad es., le pratiche di boicottaggio non violento dei prodotti israeliani promosse dal BDS (ivi, pp. 43-44).
Questa estensione impropria e incontrollata dell’accezione di antisemitismo, che di fatto ingloba ogni declinazione dell’antisionismo, finisce per colpire soprattutto la sinistra diffusa, politica e intellettuale.
In questo clima di caccia alle streghe, nel quale paradossalmente opera con profitto l’AfD, che accusa di “antisemitismo” la sinistra e il mondo arabo, la “Die Linke” ha osservato un prolungato e colpevole silenzio. Navigando nella sua pagina web, si possono notare voci dedicate al lavoro, all’immigrazione, alla questione ambientale, alla lotta contro le destre, alla pace (questione russo-ucraina), agli alloggi, ma nessun riferimento al genocidio in terra palestinese.
La svolta forse è arrivata sabato scorso, 27 settembre. La “Die Linke”, sotto la pressione della base militante ed elettorale, unitamente ai rappresentanti delle comunità palestinesi, ma anche di ebrei tedeschi e israeliani e di numerose realtà associative, si è fatta promotrice di una grossa manifestazione che si è sviluppata lungo le strade di Berlino: oltre 100.000 presenze per chiedere lo stop immediato di tutte le esportazioni di armi verso Israele, sanzioni contro il suo governo e il riconoscimento dello Stato della Palestina.
“Der Spiegel” ricostruisce i momenti concitati nei quali Ines Schwerdtner, leader della “Die Linke”, sale sul palco, contestata da alcuni astanti per il prolungato silenzio osservato sul genocidio a Gaza. «Sono rimasta in silenzio per troppo tempo, è un genocidio». In altra parte del discorso, accusando il Cancelliere Friedrich Merz e il Ministro degli Esteri Johann Wadephul (entrambi delle CDU), proclama: «Loro la chiamano ragione di Stato, noi la chiamiamo complicità» (si v. l’articolo pubblicato dalla “Frankfurter Allgemeine Zeitung”).
Anche la “Die Zeit” sottolinea le difficoltà di Ines ad essere accettata sul palco della manifestazione organizzata dal proprio partito. Il quotidiano tedesco sottolinea come l’aver utilizzato il termine “genocidio” l’abbia posta fuori dalla linea di partito, che rimane in attesa di una sentenza della Corte Internazionale di Giustizia per potersi esprimete ufficialmente in tal senso. Non è un caso che il co-presidente della “Die Linke” Jan van Aken, con un lungo passato in Israele, respinga l’accusa di genocidio. E d’altronde la capogruppo parlamentare della “Die Linke”, Heidi Reichinnek, balzata alle cronache politiche nell’ultimo anno, era assente al corteo. Anch’ella, in più occasioni – osserva la “Die Zeit” – si è rifiutata di fare ricorso al termine “genocidio”.
Nell’articolo vengono anche riportati alcuni recenti sondaggi condotti dalle agenzie Allensbach e Infratest a giugno, stando ai quali la maggioranza dei tedeschi ritiene che le azioni di Israele nella striscia di Gaza vadano “troppo oltre”, mentre il 73% ritiene che nell’accusa di genocidio ci sia “qualche fondamento”.
I Verdi e l’SPD hanno osservato un rigoroso silenzio sulle ragioni della manifestazione.
La “Tageszeitung” sottolinea, invece, l’attivismo di base della comunità palestinese: «i palestinesi che vivono in Germania non sono più rappresentati da avvocati, ma parlano per sé stessi, come hanno fatto alla manifestazione di Berlino. Stanno emergendo come soggetti politici seri e non sono più messi a tacere da un sospetto strumentale e generalizzato di antisemitismo».
Quello che viene fuori dalla manifestazione di Berlino, la più grande in Germania a sostegno del popolo palestinese, è una “eccedenza” delle masse rispetto ai partiti e ai sindacati; una capacità di spinta di cui le organizzazioni più istituzionalizzate, compresa la “Die Linke”, non possono continuare a non tenere conto.
La manifestazione ha rotto numerosi tabù anche terminologici, strappando spazi di libertà di espressione del dissenso e di critica politica contro la asfissiante legislazione teutonica.
Le prossime settimane ci aiuteranno a comprendere se il corteo del 27 settembre ha realmente comportato una svolta interna alla “Die Linke” o sia stata soltanto una manovra momentanea e strumentale per assecondare una piazza insoddisfatta, arrabbiata e indignata, anche contro il silenzio imposto dall’alto nel partito sul tema israelo-palestinese.