in Contropiano Anno 1 n° 3 – 22 settembre 1993
Contraddizioni, sfide e nuovi progetti politici della sinistra latinoamericana nel 4° Foro de San Paulo tenutosi a Cuba
Dal 21 al 24 luglio, l’Avana ha ospitato i lavori del 4° Foro de Sao Paulo che da quattro anni riunisce gran parte delle organizzazioni della sinistra latinoamericana. I compagni del Partito Comunista Cubano ci avevano invitato a seguire da vicino il dibattito di questa assise che, per dare una idea, ha visto per quattro giorni sulla stessa tribuna Fidel Castro e Daniel Ortega, Lula e Shafik Handal impegnati a seguire ed a partecipare alla discussione e alle decisioni di questa riunione continentale.
La rappresentatività del Foro è estremamente ampia: 112 organizzazioni e partiti sono membri e 25 ammesse ancora con lo status di osservatori. Nella stessa delegazione era possibile trovare dei partiti con decine di migliaia di iscritti, gruppi parlamentari e una lunga storia alle spalle insieme a piccoli partiti o organizzazioni di recente costituzione; vi erano rappresentanti di gruppi guerriglieri e candidati alle elezioni presidenziali. Estremamente visibile la “frammentazione politica” di molta sinistra latinoamericana: dall’Argentina erano arrivati delegati di ben 15 organizzazioni tra membri e osservatori; dall’Uruguay 14, dalla piccolissima Repubblica Dominicana ben 10, 8 dal Venezuela e 6 dal Perù. Inoltre, i lavori di quest’anno sono stati seguiti da 43 organizzazioni e partiti provenienti da Stati Uniti, Asia, Africa ed Europa. È un dato che il documento finale approvato dal Foro non ha mancato di sottolineare.
Il Foro de Sao Paulo si era tenuto per la prima volta nel 1990 nell’omonima città brasiliana (con l’impulso del Partito dos Trabajadores del Brasile e del Partito Comunista Cubano) per affrontare la nuova fase che si era venuta a determinare nel mondo e in America Latina dopo gli avvenimenti del 1989. I due incontri successivi si sono tenuti a Città del Messico (’91) e Managua (’92). Un dibattito difficile, per alcuni aspetti drammatico, che le forze della sinistra latinoamericana, quelle rivoluzionarie e quelle più inclini alla socialdemocrazia, hanno dovuto aprire mentre si sfaldava il bipolarismo e si delineava un mondo unipolare particolarmente pesante per l’America Latina, e dilagava anche in questa regione quel neoliberismo che sta devastando socialmente il continente e gran parte del terzo mondo.
IL NEOLIBERISMO E LA DOTTRINA DEL “10%”
Questo modello economico e politico imposto all’America Latina dal FMI e dalla Banca Mondiale come unica soluzione alla crisi debitoria esplosa nella prima metà degli anni ’80, vede una pesante oggettiva e soggettiva responsabilità degli Stati Uniti.
Il famoso documento “Santa Fè 2” del 1988 (reso noto alla vigilia del cambio tra Reagan e Bush), meno noto del primo ma non meno micidiale, vedeva i consiglieri dell’amministrazione USA per l’America Latina affiancare alla centralità della “minaccia comunista” nel continente l’attenzione sul pericolo rappresentato dallo “statalismo” esistente nell’economia di molti paesi latinoamericani.
Lo smantellamento di questa presenza dello Stato nell’economia era diventato dunque uno degli obiettivi strategici dell’amministrazione USA nell’area latinoamericana. I processi di privatizzazione a cui stiamo assistendo pesantemente, dunque, non corrispondono solo ai diktat dei programmi di aggiustamento strutturale del Fondo Monetario Internazionale.
I dati macroeconomici di questi ultimi anni diffusi dagli organismi finanziari internazionali, cercano di santificare il fatto che queste ricette stanno portando l’America Latina fuori dalla crisi della “decada perdida” degli anni ’80. I dati reali e la realtà sociale offrono una diagnosi completamente opposta – la miseria, la povertà, la fame, la disoccupazione, le malattie, la marginalità sono deflagrate pesantemente in tutto il continente, inclusi quei paesi che avevano vissuto uno sviluppo notevole negli anni ’70 (vedi Brasile, Venezuela ed altri).
L’America Latina è arretrata vertiginosamente nelle condizioni di vita, ma i centri finanziari hanno puntato a realizzare un progetto di intervento che, con buona dose di cinismo, possiamo definire la “teoria dei 10%”. La realtà del continente dimostra infatti che in ogni paese che ha adottato i programmi del FMI, esiste una nicchia sociale più o meno pari al 10% della popolazione che ha un potere d’acquisto e livelli di vita simili a quelli dei paesi sviluppati (su questo vedi l’analisi del compagno messicano che pubblichiamo più avanti).
Su questa ristretta base sociale si concentrano le prospettive di mercato dei gruppi transnazionali. Questa oligarchia sociale non possiede solo le possibilità economiche ma controlla le forme di espressione politica e di potere attraverso il modello “democratico” emerso dalla transizione dalle dittature. È un modello politico/economico su cui oggi si fondano le relazioni tra paesi capitalisti e terzo mondo.
UN DIBATTITO MATURO E QUALCHE ILLUSIONE DI TROPPO
La discussione dei quattro giorni del Foro ha ruotato soprattutto su due questioni: la risposta al neoliberismo e le opportunità per la sinistra latinoamericana di vincere le sfide elettorali del prossimo anno. Su questi due assi centrali pesavano inoltre altre questioni ancora fortemente presenti nello scenario latinoamericano: la difesa dell’esperienza rivoluzionaria cubana; la soluzione ai conflitti nei vari paesi dove la lotta politica ancora coincide con la lotta armata; la politica della nuova amministrazione USA di Clinton; il carattere del modello democratico da adottare come alternativa al neoliberismo e al socialismo reale.
Questo del modello alternativo è stato un dibattito molto spesso speculare alle grandi (forse eccessive) aspettative sulla possibilità delle forze di sinistra di vincere le elezioni in più di un paese dell’America Latina. Ma che i settori popolari non ne possano più delle ricette del Fondo Monetario Internazionale può essere rilevato da un episodio locale ma estremamente importante: in Uruguay le forze popolari hanno vinto il referendum contro la legge che introduce le privatizzazioni. È un risultato molto significativo passato sotto silenzio qui in Europa.
Gli interventi di due dei più prestigiosi dirigenti politici come Lula e Shafik Handal hanno cercato di entrare nel merito di tale questione individuando assai spesso punti di convergenza tra due esperienze così diverse. Il Partito dei Lavoratori del Brasile (PT) è nato dalle lotte sindacali ed operaie contro la dittatura riuscendo a unificare settori diversi come il sindacato, le comunità cristiane di base e una parte degli ex guerriglieri.
Nel 1989 il candidato presidenziale del PT, Luis Ignacio Da Silva più noto come “Lula”, andò al ballottaggio finale contro il candidato del grande capitale speculativo, quel Collor De Mello che una vastissima mobilitazione popolare ha costretto alle dimissioni. Lula non riuscì a vincere ma fu una prova di forza e radicamento nel paese su cui si basa la potenzialità e l’aspettativa di una vittoria elettorale nelle elezioni del prossimo anno.
Shafik Handal è invece il coordinatore di quel FMLN del Salvador che per dieci anni ha animato una lotta armata e popolare di vastissime proporzioni e indubbie capacità politiche oltre che militari.
Il fatto che i dirigenti di queste due realtà ritengano oggi il terreno della lotta legale, sociale ed elettorale quello su cui si gioca la sfida della sinistra per il potere non può che far ragionare molti.
Questa opzione elettorale come terreno di competizione ed affermazione politica della sinistra latinoamericana ha pesato moltissimo sul dibattito del Foro. La presenza di numerosi candidati “presidenziali” come Cardenas (Messico); Navarro Wolf (Colombia); Pizarro (Cile); Seregni (Uruguay) o di partiti e movimenti che già oggi governano grandi città come Caracas, Montevideo o alcuni stati in Brasile, ha forse alimentato qualche illusione di troppo sulle possibilità reali che una alternativa al neoliberismo possa fondarsi su una riuscita competizione elettorale. Un compagno brasiliano ci faceva notare un recente scritto di Kissinger secondo il quale nel terzo mondo esistono tre paesi strategici su cui occorre assolutamente mantenere il controllo: Cina, India e… Brasile.
LE PROSSIME SCADENZE ELETTORALI IN AMERICA LATINA
Argentina : | Ottobre | 1993 |
Cile: | Dicembre | 1993 |
Venezuela : | Dicembre | 1993 |
Costarica : | Febbraio | 1994 |
Colombia : | Marzo | 1994 |
Salvador : | Marzo | 1994 |
Panama : | Maggio | 1994 |
Ecuador : | Maggio | 1994 |
Rep.Dominicana : | Maggio | 1994 |
Messico : | Agosto | 1994 |
Brasile : | Ottobre | 1994 |
Uruguay : | Novembre | 1994 |
LE PROSSIME SCADENZE ELETTORALI IN AMERICA LATINA
L’unica esperienza di governo delle sinistre raggiunta attraverso regolari elezioni in America Latina, resta ancora quella del Cile di Allende con il suo drammatico esito. Il sacerdote progressista Aristide, eletto democraticamente dal popolo come Presidente di Haiti, è stato scalzato da un colpo di stato militare ed ancora oggi attende che l’ONU garantisca il ritorno al suo mandato.
E’ evidente quanto il terreno elettorale possa rivelarsi più congeniale per gli strumenti a disposizione dei van candidati dell’establishment sostenuti dagli USA e dalle società transnazionali che per candidati popolari e di sinistra. E’ anche vero però che una vittoria elettorale della sinistra in questa area del mondo ha, per le stesse ragioni, un valore ben diverso da quanto possa avvenire in Europa. Per molti compagni provenienti dalla tradizione comunista storica o per chi si è integrato nell’opzione socialdemocratica, il terreno elettorale appare oggi quello prioritario, soprattutto in una fase storica in cui le ipotesi rivoluzionarie appaiono seriamente indebolite. Ma non erano poche le organizzazioni presenti nel Foro a mostrare un certo scetticismo verso questa prospettiva.
LA LOTTA ARMATA E’ SUPERATA?
Lo stesso Fidel Castro, nell’intervento conclusivo del Foro, ha sottolineato come “In America Latina non vi siano oggi le condizioni oggettive e soggettive per la lotta armata”. E’ dunque finita una stagione rivoluzionaria in quella America Latina che per decenni è stato un laboratorio politico rivoluzionario, di rivoluzioni tentate, vincenti o sconfitte?
Le organizzazioni che sono costrette ancora alla lotta armata (le FARO o la Coordinadora Simori Bolivar in Colombia, l’UNRG in Guatemala), vi sono costrette dall’impossibilità di giungere ad un vero negoziato politico con i governi o dalla necessità di autodifesa dei propri militanti e dirigenti di fronte agli assassinii ed ai massacri compiuti dai militari o da gruppi di destra piuttosto che da un progetto strategico di presa del potere. Del resto è difficile dargli torto visti gli elenchi di assassinii contro dirigenti sindacali, politici, contadini o il peso che hanno tuttora i militari nelle decisioni di molti governi latinoamericani. E’ stato inoltre singolare rilevare come in ben sei interventi dei compagni di varie organizzazioni peruviane solo uno accennasse, in termini ovviamente negativi, alla attività di Sendero Luminoso nel paese. Gli altri cinque si sono limitati ad una autocritica sulle potenzialità perdute dalla sinistra in Perù, una sinistra che negli anni ’80 godeva di ottima salute e di forti consensi popolari perduti, nella loro valutazione, a causa “dell’immediatismo” con cui la sinistra si è rapportata alla crisi del paese sfociata nella vittoria elettorale prima e nell’autogolpe poi di Fujimori.
E’ stato Daniel Ortega a riferire al Foro quanto era accaduto ad Estelì, una cittadina nicaraguense, dove un gruppo di combattenti e militanti sandinisti avevano occupato la città per difendere le conquiste della rivoluzione del ’79 ed erano stati affrontati dai militari guidati da un “sandinista” come Humberto Ortega, capo delle forze armate di un governo antipopolare ed ostile alle eredità dei dieci anni di potere rivoluzionario. Ortega, di fronte alla possibilità dell’intervento dei caschi blu dell’ONU in Nicaragua, ha affermato esplicitamente di ritenerlo una invasione a cui il Fronte Sandinista avrebbe risposto con la ripresa della lotta armata.
1 recenti sequestri armati da parte dei contras e i controsequestri dei combattenti sandinisti di personalità politiche e giornalisti, confermano quanto la situazione sia estremamente tesa e quanto sia ancora prematuro ritenere liquidata la lotta armata come strumento di lotta politica in America Latina. Il dato che emerge con evidenza è che essa, oggi, può essere, appunto, uno strumento della lotta politica ma non una strategia per la conquista del potere in un continente dove l’egemonia statunitense è ancora troppo forte e resa tale anche dalla dissoluzione di una Unione Sovietica che ha permesso, nel bene e nel male, la vittoria della rivoluzione cubana a novanta miglia dalle coste degli USA.
E’ dunque un dibattito estremamente pragmatico quello con cui si stanno misurando le forze della sinistra latinoamericana nel tentativo di definire in concreto e non in astratto una alternativa al modello neoliberale egemone. E’ stato un compagno messicano a porre, giustamente, la questione del carattere di classe del modello democratico che si andrà a definire come alternativo alla “democrazia” del modello neoliberale (ne riproduciamo più avanti alcuni stralci).
Dai compagni brasiliani del PT è forse venuta l’analisi più interessante sulla composizione di classe sulla quale fondare un blocco sociale per la trasformazione del paese e del continente: l’accresciuto peso dei settori marginali nelle società latinoamericane è stato finalmente rilevato dopo che per anni ogni analisi si limitava al consueto schema operaicontadini che non corrisponde più ad una realtà dove l’economia informale spesso rappresenta i due/terzi del P.I.L.
Ma sulla questione della democrazia, ad esempio, le posizioni del compagno messicano e del compagno brasiliano sono ampiamente divergenti.
I compagni del PT non sembrano impermeabili come sarebbe necessario ad una visione dello Stato e della democrazia decisamente socialdemocratica.
LA NUOVA AMMINISTRAZIONE CLINTON
Un altro elemento di dibattito (che forse necessitava di maggiore approfondimento) è stata la valutazione della nuova amministrazione USA. Il primo giorno del Foro, Daniel Ortega ha fatto un intervento fortemente antistatunitense e antimperialista che ha sorpreso molti. Qualcuno vi ha letto una polemica con Fidel Castro che qualche giorno prima aveva parlato di Clinton in termini prudentemente positivi. Ortega ha poi letto un inatteso messaggio di Gheddafi al Foro anch’esso molto duro verso gli Stati Uniti (creando un certo imbarazzo alla presidenza del Foro colta alla sprovvista da questo messaggio).
Nella prima stesura del documento finale, il Gruppo di Lavoro (che è un po’ la regia del Foro) individuava nella “ambiguità” il segno della politica di Clinton lasciando dunque una porta aperta agli ambienti “progressisti” della nuova amministrazione.
L’intervento di Marina Arismendi del Partito Comunista Uruguayano ha però contestato questa valutazione un po’ troppo ottimistica. Molti altri delegati ne hanno condiviso le critiche e, nonostante un lungo intervento di Shafik Ilandal teso a dimostrare le contraddizioni tra le varie anime dell’establishment USA, il documento finale ha inserito un giudizio molto più duro di quello originale contro la politica statunitense.
I MILITARI: IPOTECA SUL FUTURO E TERRORE DEL PASSATO
È mancata invece nel dibattito una questione che tuttora pesa sulla realtà latinoamericana: il ruolo dei militari. Se ne è accennato raramente nel dibattito pubblico ma se ne è parlato molto nei corridoi e negli incontri bilaterali. Recentemente in Paraguay è stato ritrovato quello che viene definito “L’Archivio del terrore”, cioè i documenti che provano i collegamenti tra le dittature militari dell’America Latina negli anni ’70. Documenti che dimostrano il coordinamento nella repressione, nella persecuzione, nel massacro degli oppositori in gran parte del continente da parte delle varie giunte militari e dei loro apparati di sicurezza. I militari pesano ancora nel continente. Si è potuto dare vita alla transizione dalle dittature ai governi civili solo a patto che nessun militare venisse punito per i crimini commessi e che i privilegi di questa casta non venissero toccati. Sulla questione dei militari le posizioni sono assai diverse nella sinistra in America Latina. Per molte organizzazioni pesa il ricordo della dittatura, la rabbia per l’indulto di cui hanno usufruito molti di questi criminali come “prezzo per la democrazia” e la convinzione che i colpi di stato militari non appartengano solo a un recente o remoto passato. Altri compagni invece tendono a valorizzare il “nazionalismo” antiamericano che è cresciuto in settori dei militari latinoamericani: da quelli argentini che non perdonano agli USA di aver scelto la Gran Bretagna nella guerra delle Malvine ai gruppi di militari progressisti venezuelani che hanno cercato di rovesciare il corrotto governo di Carlos Andrés Perez a settori del potente esercito brasiliano geloso della propria autonomia anche in campo di armi e tecnologie nucleari e che non gradisce le ingerenze USA tese a limitarla.
CUBA: SFIDA PER TUTTA L’AMERICA LATINA
La decisione di tenere il Foro a Cuba è significativa. La resistenza e la difesa della rivoluzione cubana rappresentano ancora per la sinistra latinoamericana un punto fermo. Confortato anche dal documento del vertice dei presidenti latinoamericani (tenutosi sempre a luglio in Brasile) che per la prima volta denuncia il blocco economico USA contro Cuba, il Foro ha evidenziato come la soluzione alla crisi interna che vive Cuba non può in alcun modo essere materia di competenza degli Stati Uniti. In molti interventi e nel documento finale la condanna del blocco economico è una costante. Ma quella di Cuba non è solo una questione di solidarietà rituale.
I quattro giorni del Foro sono stati accompagnati in serata da tre conferenze organizzate dai compagni cubani su tre aspetti decisivi per le prospettive dell’isola onde consentire, attraverso il confronto, una conoscenza più approfondita della realtà e delle scelte attuali di Cuba.
Le conferenze avevano relatori di prima qualità e rappresentativi del nuovo quadro dirigente della rivoluzione cubana: l’economista Carlos Lage che ha parlato sull’economia; il presidente dell’Assemblea del Potere Popolare Ricardo Alarcòn che ha parlato su democrazia e potere popolare a Cuba; il ministro degli esteri Roberto Robaina che ha riferito sulla politica internazionale. Estremamente interessanti – soprattutto quella di Lage mentre è apparsa ancora un po’ incerta quella del “giovane” Robaina – queste conferenze hanno avuto il pregio e la sfortuna di avere un correlatore d’eccezione: Fidel Castro. Un pregio perché le centinaia di delegati, invitati e osservatori hanno avuto la preziosa occasione per poter discutere per tre giorni e direttamente con una delle maggiori personalità politiche e rivoluzionarie della storia; la sfortuna perché i tre relatori Lage, Alarcòn e Robaina sono passati obiettivamente in secondo piano mentre avrebbero avuto la necessità di gestire e misurarsi fino in fondo con il dibattito sulle loro relazioni. Il limite e la forza di Cuba sono anche dentro questa contraddizione.
Ma le tre serate di discussione con Fidel Castro sono un’esperienza e un patrimonio politico senza paragoni. Abbiamo potuto misurare realmente la dialettica tra coerenza dei principi e pragmatismo nelle scelte concrete da operare in campo interno ed internazionale. È un livello di analisi, capacità di direzione politica, conoscenza dei problemi fin nei dettagli decisamente inimmaginabile se confrontato con dirigenti o uomini politici in Europa. Anche i più distratti avrebbero potuto notare la differenza tra un dirigente rivoluzionario e i vari professionisti della politica che abbondano nel nostro paese ed anche nella sinistra italiana.
Cuba resiste perché, probabilmente, esiste Fidel Castro. È sicuramente un limite che lascia tutti un po’ inquieti sul futuro. Ma è anche vero che questa realtà ha costretto i compagni cubani ad uno sforzo maggiore di indagine, di conoscenza, di capacità. Il fatto di avere una direzione politica che cammina a passo più lungo, ha evitato quella stagnazione che ha invece immobilizzato e sgretolato i partiti comunisti nei paesi dell’Est. Fidel Castro ha compreso chiaramente che il futuro di Cuba sta tutto dentro la sfida dell’intera America Latina. In modo particolare, il contraddittorio con un compagno argentino, che chiedeva a Fidel spiegazioni sul sostegno cubano alla richiesta dell’Argentina di entrare nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ha consentito a Fidel Castro di spiegare ampiamente ed in maniera estremamente convincente il significato della politica latinoamericana di Cuba, inclusa la scelta del 1982 di appoggiare l’Argentina nella guerra delle Malvine e di sostenerne oggi la richiesta al CdS delle Nazioni Unite. I richiami alla sovranità e all’indipendenza nazionale, l’appello martellante all’integrazione economica e politica su queste basi dell’intero continente per potere affrontare da posizioni di forza il conflitto economico mondiale e il mondo dominato dall’unipolarismo USA e dallo scambio disuguale, sono stati aspetti più volte sottolineati con forza e urgenza.
Il socialismo cubano, la sua storia ma soprattutto il suo futuro, non stanno solo dietro una inflessibile coerenza sui principi ma anche dentro la capacità di adeguare questa esperienza al contesto politico ed economico concreto in cui la rivoluzione cubana vive. Le aperture agli investimenti stranieri, la depenalizzazione del possesso dei dollari per i cittadini cubani, la estrema attenzione nelle relazioni internazionali non sono una svendita della rivoluzione, ma il tentativo concreto di affrontare la crisi economica e l’egemonia statunitense con le forze necessarie per non rendere velleitaria tale sfida e impedire l’annichilimento della esperienza rivoluzionaria cubana.
Il colloquio che abbiamo avuto al termine dei lavori con il compagno Arrufe dell’Ufficio Internazionale del Partito Comunista Cubano, ci ha fatto capire non soltanto la soddisfazione per la riuscita di questa 4^ edizione del Foro de Sao Paulo, ma l’importanza di questo crescente legame tra Cuba e l’America latina. L’America Latina senza una Cuba che ancora ormai tiene testa all’arroganza degli USA, difende principi come la sovranità e l’indipendenza nazionale, contesta radicalmente il neoliberismo rifiutando di affrontare la crisi economica ricorrendo, come altri paesi, alle terapie shock, sarebbe un continente ancora più frustrato e indebolito. Cuba senza una America Latina più unita, sovrana, indipendente dovrebbe affrontare ancora per troppo tempo da sola un confronto/scontro con la maggiore potenza mondiale e ciò appare obiettivamente sproporzionato. Nonostante l’ottimismo emerso da questo 4° Foro de Sao Paulo, ci sembra che l’America Latina e la sinistra latinoamericana siano attese al varco da tempi estremamente duri su cui, almeno dal nostro punto di vista, ci riesce difficile condividere le aspettative elettorali di molti compagni che abbiamo incontrato e con cui abbiamo discusso.