In Contropiano Anno 1 n° 3 – 22 settembre 1993
Per una valutazione obiettiva dell’accordo siglato ufficialmente a Washington il 13 settembre scorso, è necessario rilevare il significato dei dettagli in esso contenuti. Non a caso, infatti, l’accordo firmato venerdì 9 settembre da Arafat e da Rabin (4 giorni prima della cerimonia ufficiale) si presta a tante interpretazioni, per il linguaggio amministrativo ambiguo voluto dagli esperti che lo hanno preparato.
L’accordo contiene sette paragrafi principali e cinque cartelle aggiuntive per i dettagli dei punti principali.
I primi due punti hanno degli aspetti positivi e questi vanno sottolineati. Infatti, gli israeliani hanno ammesso che i territori della Cisgiordania e di Gaza non sono “amministrati” o territori senza definizione; quindi, su di essi sono valide le risoluzioni 242 e 338 delle Nazioni Unite. Sebbene ciò non sia espresso nella forma in modo chiaro, rappresenta, di fatto, il riconoscimento da parte di Israele dell’occupazione dei territori.
Il secondo punto positivo è l’accettazione della presenza di osservatori internazionali nei territori occupati e la cosa più significativa è il riconoscimento dell’OLP.
Detto questo però, occorre vedere come è stato formulato il riconoscimento dell’OLP e quali conseguenze comporterà l’accettazione delle condizioni imposte da Israele all’OLP per tale riconoscimento. Questi dubbi trovano la loro fondatezza nella lettera scritta da Rabin in risposta ad Arafat che recita testualmente “Visto che l’OLP riconosce Israele rinuncia al terrorismo ed alla violenza, si è impegnata a collaborare per sospendere l’Intifada ecc., Israele ha deciso di riconoscere l’OLP come rappresentante del popolo Palestinese”. Ci sono quindi, anche qui, dei lati oscuri, l’OLP non viene riconosciuto quale unico e legittimo rappresentante del popolo Palestinese e non si capisce se l’Intifada sia considerata come violenza terroristica o meno e debba quindi essere fermata o repressa da parte della istituenda polizia palestinese.
Inoltre, l’accordo non parla di ritiro israeliano dai territori occupati ma di un nuovo dispiegamento delle truppe sia a Gaza che in Cisgiordania. D’altro canto, invece, l’accordo parla esplicitamente delle autorità che Israele intende mantenere: la difesa, la politica estera e la sicurezza. Ciò significa, concretamente, che ci sarà una presenza militare israeliana al confine con la Giordania e l’Egitto con i poteri ed il diritto di arrestare chiunque ritenga pericoloso per la sua sicurezza all’interno dei territori occupati.
Proseguendo nell’analisi degli altri articoli dell’accordo vedremo quanto sia squilibrato a favore di Israele.
L’accordo, infatti, non affronta, ad esempio, la questione dei palestinesi della diaspora che sono la maggioranza del popolo palestinese (oltre tre milioni di persone), non è chiaro come vada risolto il problema della città di Gerusalemme. A questo proposito è bene rammentare che Gerusalemme Est si estendeva nel 1967 sull’8% della Cisgiordania, mentre oggi comprende il 30% dei territori della stessa Cisgiordania, perché i confini comunali si sono estesi a molti villaggi vicini. Inoltre, ancora, non è chiaro se gli insediamenti israeliani costruiti nei territori occupati debbano essere evacuati oppure no. Però l’accordo è esplicito nel definire sotto quale autorità saranno posti, quella israeliana. Anche qui questo significa, in concreto, presenza militare israeliana a difesa degli insediamenti.
D’altra parte l’accordo parla di elezioni politiche entro nove mesi per eleggere il Consiglio palestinese, ma quali sono i compiti di questo Consiglio? L’accordo individua alcuni aspetti e compiti quali la gestione della pubblica istruzione, della nettezza urbana, del traffico, della giustizia civile, le tasse, la sanità ecc.
Sono esclusi però tutti gli aspetti relativi alla politica estera, alla sovranità, al controllo territoriale, al controllo sulle risorse idriche. Sono esclusi cioè tutti quegli aspetti che potrebbero significare autorità nazionale, basilari per la costruzione di un’Identità Statale o sovranità nazionale sia sul territorio che sulle persone.
Questa esposizione sommaria del contenuto degli accordi firmati, dà una idea di quale sia il terreno su cui ci si muove. È un terreno minato, quello del Nuovo Ordine Mondiale instauratosi dopo la Guerra del Golfo e dopo la fine del socialismo nei paesi dell’Est.
Sarebbe utile affrontare tutta la complessità di tale accordo, che è il prodotto di questa nuova situazione internazionale, e di certo non mancherà l’occasione per farlo. In questo articolo ci preme far conoscere ai compagni e ai lettori i motivi dell’estesa opposizione palestinese agli accordi sia nei territori occupati che nella diaspora. Un’opposizione che ha l’aspetto più significativo nel Comitato Esecutivo dell’OLP. Cinque ministri su diciotto si sono dimessi, c’è la possibilità che altri lo faranno nei prossimi giorni, mentre altri hanno preferito esprimere la loro opposizione rimanendo all’interno del Comitato.
Con il passare dei giorni, le forme di opposizione si estendono e si organizzano meglio al di fuori dell’OLP attuale. Secondo molti oppositori, la firma degli accordi senza consultazione della base palestinese, la modifica di molti articoli della Carta Costituzionale palestinese, cambiano la natura dell’OLP. L’organizzazione guidata da Arafat non è più quella di ieri, rappresentativa di tutte le tendenze politiche palestinesi; quindi, dopo gli accordi, non c’è più ragione di considerare l’OLP unico legittimo rappresentante del popolo palestinese.
E ormai aperta la strada ad altre forme di rappresentanza palestinese sia attraverso accordi tra le varie organizzazioni che sono uscite dall’OLP che attraverso assemblee popolari regionali sino ad arrivare ad una assemblea popolare nazionale che sancisca la nascita di una nuova OLP.