Editoriale in Contropiano Anno 1 n° 4 – 11 novembre 1993
È un autunno decisamente caldo quello che stiamo vivendo in Italia.
Gli operai rifiutano le soluzioni “di mercato” che vengono loro prospettate e occupano stazioni, aeroporti e strade. I disoccupati napoletani occupano le chiese. A Roma ricomincia l’occupazione massiccia delle case sfitte. Anche quei settori che negli anni ’80 avevano avuto una funzione decisiva nel blocco sociale antioperaio – vedi artigiani e commercianti – scendono in piazza contro la politica fiscale del governo Ciampi che li spreme a favore del grande capitale finanziario. Nella scuola cresce la resistenza di studenti e insegnanti ai tagli previsti dalla Legge Finanziaria: i lavoratori pubblici rifiutano in massa i ruoli di “capri espiatori” del deficit accumulato in questi decenni.
Il dato più interessante non è solo la diffusione della resistenza operaia e sociale, ma i contenuti della stessa. Il progetto teso a piegare definitivamente il lavoro (e il salario) alle esigenze del capitale – incarnato dagli accordi di luglio – ha compiuto grossi passi in avanti, regalando ai padrini un ampio potere di manovra su salari e flessibilità del lavoro. Ma il tentativo di neutralizzare le esigenze operaie e popolari all’insegna della priorità degli “interessi generali del paese” non sta funzionando.
Il lavoro di frammentazione e subordinazione operaia svolto da CGIL, CISL e UIL all’interno del patto neocorporativo messo in opera in questi anni incontra sempre maggiori difficoltà ad essere credibile. Le nuove regole della Rappresentanza Sindacale servono, appunto, a imporre con un criterio di regime un “monopolio della rappresentanza” da parte delle tre centrali confederali.
Ma nel paese come nella società emerge una tendenza che rifiuta di sottostare ai diktat e alle derisioni dei tecnocrati del governo Ciampi e della Confindustria e al collaborazionismo confederale. Cresce invece la consapevolezza che, se la crisi c’è, è una crisi tutta del capitale. La mistificazione sull’alto costo del lavoro dopo gli accordi siglati non regge più. La crisi è determinata dalla scarsità della domanda e non dalla rigidità del lavoro. Il continuo calo degli ordinativi in tutti i settori industriali rende l’accordo del 3 luglio ancora più odioso e mistificante. Si rafforza invece quel capitale finanziario che vede nelle privatizzazioni l’occasione storica per irrobustire la rendita meramente speculativa e arrivare alla resa dei conti con gli altri segmenti di capitale più collegati al settore pubblico.
Ma gli operai e i disoccupati che occupano le stazioni, le chiese o le strade vogliono garanzie sul salario e sul lavoro indipendentemente dalle compatibilità di bilancio del governo o dai piani di ristrutturazione produttiva stabiliti. Questo accade in un Meridione che viaggia verso l’abisso ma anche in un ex triangolo industriale che rischia la deindustrializzazione. Cresce dunque un’autonomia culturale, politica e organizzativa a livello operaio e sociale che non accetta più i ricatti della politica dei due tempi (oggi sacrifici, domani forse lavoro) né si sente responsabile della crisi che investe il capitalismo. Il salario e il lavoro, nonostante le esorcizzazioni degli anni ’80, tornano a essere variabili indipendenti dal capitale. Ciò spiega, almeno in parte, le preoccupazioni dell’esecutivo Ciampi e la tendenza ad accentuare il carattere da “ordine pubblico” dei conflitti sociali da parte del Ministero degli Interni. L’intervento poliziesco contro i disoccupati napoletani che occupavano la Chiesa di S. Gennaro è speculare alle richieste del ministro Costa di sgomberare le stazioni occupate dagli operai.
Emerge allora un serissimo problema relativo alla direzione politica e sindacale di questa resistenza operaia e sociale dentro la crisi degli anni ’90, emerge cioè quello che Gramsci definiva il problema dell’egemonia. La frammentazione o la subalternità all’esistente sul piano organizzativo e politico rischia di privare questo movimento della determinazione e dell’autonomia necessaria, né è possibile trascurare le potenzialità della demagogia della Lega o della destra qualora sia proprio la sinistra a far mancare radicalità e progettualità in questa fase.
La riduzione dell’orario di lavoro, la garanzia del salario per operai e disoccupati, la disobbedienza fiscale, la democrazia sindacale nei posti di lavoro, in sostanza l’autonomia degli interessi di classe nelle soluzioni da trovare alla crisi, sono obiettivi e discriminanti politiche e culturali di grandissima importanza per le prospettive della lotta politica e di classe in Italia.
Ma questo progetto ha la necessità di una direzione e di un’organizzazione adeguate per poter essere incisivo. Il riformismo, in questo conflitto, non è giocabile in modo vincente né sul piano politico né su quello sindacale. Costruire un’alternativa politica e sindacale al panorama esistente diventa dunque una necessità non più rinviabile.