Il testo discusso nella terza assemblea nazionale
Roma, 2-3 aprile 2011
Formato: 17×24
Pagine: 20
Prima edizione: febbraio 2011
La presunta fine della storia, l’occultamento, cioè, dei fatti e delle laceranti contraddizioni materiali che l’ideologia del post-moderno sembrava presagire come fossero le pieghe stesse della realtà a evocare – ma che invece, surrettiziamente, auspicava – paga adesso il conto: il re è nudo.
L’ideologica polemica contro le ideologie (e non, s’intenda, la marxiana critica dell’ideologia come falsa coscienza e strumento di dominio) è oggi possibile contrastare riannodando i fili della riflessione e promuovendo la riorganizzazione di una soggettività antagonista che dimostri la capacità di formulare risposte all’altezza dei tempi.
1. DALLA FINANZIARIZZAZIONE ALLA CRISI DI SISTEMA
Dentro un’importante e per certi versi inedita fase di trasformazione, le dinamiche interne ai paesi capitalisti, riformulando da una parte le contraddizioni strutturali dello sviluppo capitalista e minando, d’altro canto, la sua attuale capacità di esercitare egemonia politica e culturale, rimettono in discussione gli equilibri mondiali emersi negli anni ’90 dopo la fine dell’URSS.
Il periodo della finanziarizzazione (che ha ridato forza economica al capitalismo) sembra aver esaurito la sua spinta propulsiva aprendo uno scenario carico di pericoli ma anche di potenzialità. L’instabilità economica e finanziaria è ormai la condizione generale dello sviluppo sociale, politico e internazionale; l’irrazionalità capitalista determina, così, il degrado sociale non solo dei paesi subordinati ma anche dei settori di classe che vivono nelle aree imperialiste. La crisi occupazionale, la precarietà generalizzata, il calo dei redditi da lavoro, la devastazione ambientale dei territori e la fine di ogni tutela sociale attraverso il Welfare, fino all’eliminazione dei diritti sociali e di quelli di genere, sono tutti effetti che si producono a livello mondiale.
Questa regressione generalizzata, questa crisi di civiltà è il prodotto di quella contraddizione fondamentale tra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali di produzione che pone le condizioni oggettive per le rivoluzioni sociali. Come il Modo di Produzione Capitalistico è stato il prodotto di quella contraddizione manifestatasi nelle precedenti formazioni sociali, ugualmente questa contraddizione si ripresenta nell’attuale formazione storica. Siamo nuovamente di fronte a un passaggio cruciale che, oggi, con tutto il suo portato di progressiva depauperazione in Occidente e contestuale sviluppo di altre aree, determina modificazioni sostanziali anche nelle figure che concretamente operano dentro i singoli contesti nazionali e continentali, riaprendo in questa fase storica tutti gli interrogativi sulle prospettive stesse del capitalismo.
Questa contraddizione che alimenta, dunque, il conflitto capitale-lavoro nelle sue forme attuali e internazionalizzate, dà corpo materiale a quell’internazionalismo della classe che il movimento comunista ha sempre avuto come riferimento ma che, negli ultimi decenni, ha diluito in una solidarietà internazionalista doverosa ma sempre più generica perché confusa nelle sue finalità di classe.
Contraddizione che porta alla distruzione del futuro per le giovani generazioni, mostrando tutta la sua ferocia nella contrapposizione tra aspettative e realtà e universalizzando, inoltre, i processi di proletarizzazione per quelle società e per quelle funzioni produttive intellettuali da sempre, invece, ritenute privilegiate o parti integranti del blocco sociale egemonizzato dalla borghesia.
La devastazione dell’ambiente e lo sfruttamento illimitato delle risorse del pianeta sono finalizzate, anch’esse, a un modello di sviluppo che testimonia la volontà dei paesi occidentali di dominare il mondo attraverso il mercato, le tecnologie e la scienza. Volontà che è sostenuta dal Modo di Produzione Capitalistico e dalle sue intrinseche contraddizioni e quindi basata, sempre e comunque, sullo sfruttamento operato dal capitale sul lavoro e sulla natura stessa. Devastazione che, permanendo questo stato di cose, sarà, allora, irreversibile. E’ necessario, pertanto, già nell’immediato, legare la questione ambientale alla soluzione politica del conflitto capitale-lavoro, collocandola nelle traiettorie di una trasformazione radicale verso la prospettiva socialista (così come realizzato dai movimenti sociali in molti paesi del sud dell’America).
Tale accumulo di contraddizioni, corrompendone e distruggendone gli istituti, non è più sopportato neanche dalla stessa democrazia borghese. In Italia, infatti, non è solamente la nozione borghese di democrazia a essere annichilita dal dogma della governabilità, ma è la stessa esperienza storica di democrazia rappresentativa imperniata sulla Costituzione antifascista che è stata resa funzionale alle esigenze di stabilità e governance dei poteri forti italiani e internazionali. La battaglia per la difesa e l’estensione degli spazi democratici, dunque, in parte coincide (ma, nel frattempo, diverge) con la difesa tout court della Costituzione. Considerarla come una religione civile immutabile e non, invece, un processo da arricchire progressivamente e criticamente, è un errore che non intendiamo commettere.
La sfera politica, interna e internazionale, dei paesi imperialisti diviene inoltre sempre più impotente. Quello che fu un titanico scontro con il campo socialista nel XX secolo, vinto sostanzialmente sul piano progettuale e politico da quello imperialista, si risolve, oggi, in uno stato permanente di conflitto interimperialista. Questo stato di cose determina l’impossibilità di gestire in modo razionale le società dei paesi sviluppati, con la conseguente crisi verticale dei gruppi dirigenti della politica in un degrado etico e morale, causato da una dimensione parassitaria dell’economia, che, ormai, determina essa stessa i comportamenti politici piuttosto che esserne determinata.
Gli orizzonti dell’umanità appaiono bui di fronte ad una crisi di sovrapproduzione, di merci inizialmente e di capitali poi, causata dalla caduta dei saggi di profitto; crisi che non trova sbocco e che rischia nuovamente di risolversi in una distruzione generalizzata di capitale ovvero in una guerra le cui forme non sono prevedibili ma che ormai è latente a livello mondiale da almeno dieci anni.
Questo pericolo appare in tutta la sua evidenza se si considera che, a fronte di questa profonda crisi dell’imperialismo classico, si afferma una crescita dei paesi della periferia produttiva, dell’Asia e dell’America Latina, che rimette in discussione gli equilibri strategici del pianeta. Le economie emergenti, che hanno permesso ai poli imperialisti la tenuta economica, sociale e politica interna negli ultimi decenni cominciano, adesso, a mostrare una propria capacità indipendente di sviluppo che è solo relativamente condizionato dagli elementi di crisi dei centri imperialisti. Una tendenza di questo tipo rafforza gli squilibri politici internazionali e spinge ancora di più verso una fase di confronto in cui la guerra può diventare uno strumento risolutivo.
2. APPRENDERE DALLA STORIA. UNA QUESTIONE DI METODO
Siamo, dunque, davanti a una crisi sistemica del capitalismo nelle sue forme attuali ma non di fronte a un’effettiva crisi del Modo di Produzione Capitalista. Se è vero, cioè, che un sistema sociale non è superato fino a quando non esaurisce le proprie capacità di sviluppo delle forze produttive, l’errore che i comunisti non devono commettere è quello di farsi guidare da visioni catastrofiste e volgarmente deterministe. Questi elementi politici e culturali sono stati tra i motivi principali della crisi del pensiero e dell’azione comunista; per cui, se la storia ci deve insegnare qualcosa, è chiaro che questa lezione va pienamente compresa.
La crisi che viviamo oggi, dunque, non è per nulla certo che sia la crisi finale, ma può costituire l’emergere della possibilità della trasformazione sociale o della Rivoluzione; parola, quest’ultima, forzatamente chiusa nei cassetti della Storia ma che in qualche modo (e gradualmente) si ripresenta nell’attuale evoluzione dei processi mondiali. Se quella che abbiamo di fronte è, quindi, la possibilità, la potenzialità della transizione, è chiaro per tutti che è nuovamente centrale definire una soggettività adeguata agli sviluppi storici, vale a dire alla realtà articolata e complessa che si presenta a livello mondiale e, per quanto ci riguarda più da vicino, a livello nazionale ed europeo.
Quello della soggettività, inoltre, è stato il vero punto di crisi del Socialismo nell’ultimo quarto del XX secolo, proprio perché, a causa di una visione non dialettica della realtà che non gli ha fatto comprendere pienamente i meccanismi profondi del capitalismo e le sue possibilità di recupero, si è rivelato inadeguato nel prospettare il superamento del capitalismo. Questo, ovviamente, non toglie nulla all’assalto al cielo compiuto nel secolo passato; assalto che ha visto centinaia di milioni di uo-
mini e di donne e popoli interi reagire alla barbarie imperialista di due guerre mondiali, rappresentando, sempre e comunque, uno stimolo formidabile sulla strada del progresso per l’umanità intera. Come toglie ancor meno all’eccezionale capacità teorica e d’azione avuta dai dirigenti del movimento operaio, da Marx a Lenin, fino ai rivoluzionari succedutisi alla metà del secolo.
Su tutto questo c’è ancora un grande lavoro d’analisi e di elaborazione teorica da fare. Lavoro che non ha per nulla una funzione di storicizzazione erudita, ma che attiene strettamente al “Che fare?” di oggi per il superamento del capitalismo. Grande è, da questo punto di vista, la responsabilità, nel nostro paese, di chi si è intestato la Rifondazione Comunista ma ha, nei fatti, lavorato per la rimozione e la nuova demonizzazione di quell’esperienza, ignorando scientificamente un approccio critico (anche radicale) ma che rimanesse dentro il solco del pensiero marxista e del movimento operaio internazionale, il cui tracciato esiste ancora oggi nonostante i duri colpi subiti dai propri avversari come anche da chi avrebbe dovuto difenderlo e dirigerlo.
3. IL SOCIALISMO DEL XXI SECOLO COME PROCESSO REALE
Naturalmente lo sviluppo di un nuovo movimento comunista non può essere esclusivamente un processo nazionale e neanche un lavoro da fare a tavolino; deve riconnettere, invece, la teoria e la pratica dentro un contesto completamente modificato e assolutamente nuovo e, per questo, complesso. A questo stanno contribuendo non solo i dati oggettivi che indicano la possibilità del superamento del capitalismo ma anche esperienze dove la soggettività ritrova una sua funzione politica e un ruolo concreto.
Ci riferiamo alle esperienze dell’America Latina che per prime, anche grazie al ruolo rivoluzionario di Cuba, hanno ripreso il camino verso il Socialismo titolandolo a questo XXI secolo. Non siamo di fronte ad una nuova rivoluzione bolscevica ma a una ripresa della marcia della storia nella giusta direzione. Non siamo, infatti, di fronte al superamento del Modo di Produzione Capitalistico perché quel continente vive dentro una dimensione internazionale dove vigono ancora determinati rapporti di forza, ma in una fase dove questi rapporti di forza sono rimessi in discussione creando le condizioni per nuovi avanzamenti verso un socialismo prodotto dalla nuova situazione di sviluppo complessivo e mondializzato.
L’emersione di questa nuova realtà, dando spazio alla ripresa del movimento di classe in varie parti del mondo, è stata una delle condizioni necessarie per la nascita dei social forum che hanno nell’America Latina un riferimento comune e la loro sede naturale d’incontro e organizzazione. Importante è anche la ripresa del movimento comunista in Asia, dal Nepal alle Filippine, fino al subcontinente indiano, che sta ponendo il socialismo come opzione credibile in grado di coniugare l’antimperialismo e l’anticapitalismo.
Certamente molto più problematica, per noi, è una valutazione su un’altra parte del mondo che si presenta ancora sotto la bandiera rossa: parlando della Cina, infatti, non possiamo dare valutazioni parziali e superficiali o preconcette. La Cina ha utilizzato, in questi ultimi decenni, i meccanismi economici del capitalismo per procedere all’accumulazione primitiva di capitale e questo ha significato uno stravolgimento di quella che era stata la rivoluzione cinese guidata da Mao Tse Dong. Dalla Cina non arriva, ora, un’alternativa sociale universalmente valida, sebbene il ruolo dello Stato e del Partito è decisivo ai fini della prospettiva di quel paese, non costituendo, però, una garanzia assoluta, come dimostrato storicamente dalla vicenda dell’URSS.
Nonostante questa condizione oggettiva, quel paese può costituire un elemento di crisi per i paesi imperialisti, poiché potenzialmente rappresenta il perno di un mercato mondiale esterno autonomo rispetto a quello egemonizzato dall’imperialismo americano, europeo e giapponese. Non vogliamo dare giudizi definitivi sulla natura di un paese come la Cina (la storia ci serva come antidoto per giudizi troppo facili) ma se vogliamo capire i processi in atto non possiamo ignorare alcun elemento o usare schemi precostituiti (in positivo o in negativo) nell’analisi e nel giudizio.
Ecco che, allora, dopo la crisi del movimento comunista e del cosiddetto socialismo reale (o, per noi, del socialismo possibile in quel determinato contesto storico), si ripresentano le condizioni oggettive per una ripresa della nostra azione che riceve, così, un carattere internazionale e anche alcune indicazioni strategiche, da forze, movimenti e Stati esterni ai centri imperialisti. Si tratta, perciò, di capire qual è la nostra posizione e quale ruolo vogliamo e possiamo svolgere.
4. L’UNIONE EUROPEA, UN POLO IMPERIALISTA
Per fare questo non possiamo che partire da un giudizio chiaro sulla natura della Unione Europea, progetto statale ancora incompleto ma che va avanti nonostante i marosi della economia e della politica internazionale. Indubbiamente la nascita dell’Euro ha segnato una svolta importante per la storia del continente. Gli eventi politici internazionali di fine secolo hanno certamente favorito il processo di unificazione economica sebbene non ne siano stati la causa principale.
A nostro avviso le cause del processo di unificazione economica sono profondamente strutturali e attengono alle dinamiche dello sviluppo capitalista: queste risiedono, essenzialmente, nel rapido sviluppo che le forze produttive hanno avuto, nell’ultimo trentennio, nei paesi imperialisti dell’Europa e che ha consentito loro d’imporre una razionalità produttiva che necessariamente richiedeva, per sostenere i livelli di competizione e di ristrutturazione produttiva conseguente, una dimensione economica, quindi politica e statale, più ampia di quella fornita dalla sola dimensione nazionale. Non si è trattato, perciò, di scelte eminentemente politiche, ma della necessità di assecondare le dinamiche del capitalismo moderno. Questo processo di costituzione in aree economiche e monetarie non riguarda, infatti, solo l’Europa ma anche gli altri paesi imperialisti: gli USA, ad esempio, con il NAFTA e il Giappone, sebbene con tentativi falliti. Necessità, inoltre, che si presenta anche per i paesi della periferia produttiva dell’Asia e dell’America Latina.
Nella fase attuale, nel momento in cui l’Euro si è conquistato un ruolo economico internazionale capace di competere con il dollaro, si stanno costituendo, con fusioni e acquisizioni, imprese europee capaci di superare la loro precedente base nazionale, assumendo un ruolo politico e progettuale sempre più presente e pressante nelle istituzioni europee che entrano, così, nelle scelte politiche nazionali con una frequenza crescente. A chi si lamenta dell’inadeguatezza o del lento procedere della costruzione dell’Unione Europea, va fatto rilevare che, spesso, sono proprio gli europeisti più convinti che mostrano la loro insoddisfazione per un processo che avrebbero voluto molto più veloce verso l’unificazione europea da un punto vista istituzionale.
è, infine, in atto una nuova accelerazione dovuta alla crisi finanziaria ed economica internazionale: il salvataggio del sistema finanziario, delle banche europee e del debito sovrano produce, infatti, un enorme trasferimento di ricchezza dalla classe lavoratrice ai detentori di titoli e alla finanza, producendo anche un altro effetto che è legato alla gerarchizzazione delle borghesie continentali e alla costituzione, dentro questo quadro, di una borghesia europea.
Questo processo graduale, ma particolarmente forte, è gestito dalla borghesia nazionale tedesca che si candida, così, a essere il nucleo forte della costituenda borghesia europea unificata. Tale progetto vede alleanze e contraddizioni con le borghesie de gli altri paesi forti dell’Europa, quali la Francia e l’Inghilterra, parallelamente a un’accettazione e a una subordinazione gerarchica di tutta una fascia successiva di Stati, quali la Spagna, la Grecia, il Portogallo e l’Irlanda. Subordinazione che diviene totale per la prima periferia produttiva interna alla UE, vale a dire per i paesi (ex socialisti) dell’est Europa.
Lo sviluppo della produzione, nella dimensione internazionale mondiale e, quindi, anche in quella europea, ha determinato nell’ultimo trentennio (e continua a determinare) profonde modificazioni nella classe lavoratrice dei paesi imperialisti come in quelli della periferia. Nel polo imperialista europeo si è creata, infatti, una gerarchia legata al ruolo produttivo dei diversi paesi, generando condizioni oggettive e percezioni di se stessa (da parte della classe lavoratrice) diverse dal passato e variamente modulate all’interno del proprio assetto attuale.
Al centro della produzione continentale, infatti, ci sono i livelli scientificamente e tecnologicamente più avanzati, la finanza e le grandi banche, lo sviluppo della società dei servizi e le aree dove il commercio e il consumo rappresentano il mercato che, dal punto di vista capitalistico, è maggiormente appetibile. E’ così nata, alla fine del secolo scorso, una prima periferia produttiva continentale dove il costo del lavoro è tale da poter produrre profitti elevati per le imprese del nucleo forte europeo e dove la debolezza degli Stati produce condizioni ottimali per la finanza e le banche dell’Europa occidentale. Ma esiste anche una periferia produttiva esterna all’Unione Europea, dislocata in Asia, America Latina e in Africa, che consente nuovi spazi per la realizzazione dei profitti aumentando lo sfruttamento della Forza Lavoro.
L’Europa imperialista produce, dunque, una diversificazione della classe lavoratrice e delle classi subalterne che è funzionale alla stabilità e al proprio dominio politico. Il riconoscimento della nascita di un’aristocrazia salariata europea, con privilegi economici e sociali che, però, oggi iniziano a essere erosi dalla crisi, è parte integrante dell’analisi marxista e leninista della società e pone problemi politici rilevanti e adeguamenti altrettanto importanti per le organizzazioni comuniste. Non possiamo non tener conto, comunque, che l’assetto prima descritto prodotto dalle precedenti fasi di riorganizzazione internazionale deve, oggi, fare i conti con la crisi di sistema che continuerà a caratterizzare i prossimi anni e che costituirà lo scenario nel quale sarà possibile ricostruire il terreno per la riaffermazione delle forze di classe.
5. ITALIA. UN CAPITALISMO SENZA BORGHESIA
L’Italia è parte integrante di questo processo. Questo passaggio storico ha cambiato le condizioni complessive in cui i comunisti hanno operato nel passato ed ha rimesso in discussione l’impianto politico su cui operano le forze di classe nel nostro paese. La borghesia, classe egemone dentro questa transizione, ha confermato e rafforzato la sua debolezza strutturale: i suoi profitti sono, infatti, derivati dai processi di privatizzazione, dal parassitismo a spese dello Stato, dalla dimensione della piccola impresa e dal basso costo del lavoro (cioè dal pluslavoro assoluto) come anche dal ruolo economico assunto dalle Banche. Questo recupero dei profitti è stato possibile soprattutto a discapito degli investimenti nella ricerca e nello sviluppo e non grazie a una politica industriale forte, com’è avvenuto in Germania e in Francia.
Ancora una volta la nostra borghesia si è, quindi, rivelata incapace di sostenere la stessa competizione capitalista e si è rifugiata in una condizione protetta ma debole, che oggi paga con il manifestarsi delle sue contraddizioni interne. La crisi politica attuale del centrodestra e del centrosinistra è figlia della debolezza economica e progettuale della nostra borghesia.
Una borghesia, dunque, forte con i deboli, che oggi sono tutti i lavoratori dipendenti, e debole con i forti che sono rappresentati dalla costituenda borghesia continentale egemonizzata da quella tedesca. La sua crisi rischia di far pagare un prezzo molto più salato del semplice arretramento economico e competitivo. La posta in gioco è, infatti, il ruolo da svolgere nella costruzione della Europa unita, che rischia di essere subordinato o ininfluente, prefigurando per la nostra borghesia nazionale la medesima fine di quella meridionale durante il processo di unificazione nazionale.
Ancora più critica è la condizione della classe lavoratrice: essa ha subito enormi arretramenti politici per via della lotta di classe dall’alto condotta, nell’ultimo ventennio, con la collaborazione attiva della sinistra di governo e dei sindacati confederali. In questi ultimi anni sono state, infatti, con pazienza e dedizione degna di miglior causa, smantellate tutte quelle strutture organizzate che avevano garantito la forza e la coscienza di classe di quel movimento operaio che tanto aveva inciso nella storia del nostro paese nel secondo dopoguerra.
Coscienza di classe che è stata oggettivamente aggredita dalla mutazione quasi genetica dei partiti e dei sindacati storici dei lavoratori, come anche dalla riorganizzazione produttiva e dalle modificazioni nella composizione di classe. L’Italia, all’interno delle modificazioni produttive che sono intervenute dentro il processo di unificazione europea, ha una posizione divaricante: in parte dentro il nucleo forte dell’Europa attraverso l’apparato produttivo del nord e, in parte, esterno a esso. In questi ultimi due decenni si sono ancor più polarizzate, infatti, due parti del paese: a una storica e irrisolta questione meridionale si è affiancata, cioè, una trasformazione produttiva del settentrione che ha spinto determinate parti sociali ad assumere pericolose posizioni separatiste, fino a oggi mai così radicate o manifeste.
L’aristocrazia salariata, parte consistente della nostra società, ha visto modificarsi la propria condizione economica e anche la stessa coscienza di sé. Cartina di tornasole di questa mutazione è la propensione razzista verso gli immigrati, percepiti come un pericolo per il mantenimento del proprio status sociale nonostante sia ancora radicata la memoria degli Italiani come esso stesso popolo di emigranti. Tutto questo, smontando, tramite la frantumazione in mille identità, quella di classe, ha fatto deperire ulteriormente gli elementi di coscienza politica democratica e ha dato spazio alle forze di una destra irrazionale e in competizione con la stessa grande borghesia, producendo il berlusconismo e la Lega.
Si tratta di un insieme di elementi che ha radicalmente modificato le condizioni e la dimensione dei problemi che i comunisti devono affrontare in Italia e non può che modificarne anche la funzione, rendendo vana quella coazione a ripetere manifestatasi in quest’ultimo decennio, a sinistra, quando la dimensione meramente istituzionale ha prevalso su tutto.
6. COSTRUIRE L’ORGANIZZAZIONE DEI COMUNISTI
Il punto è, allora, che cosa sono i comunisti oggi e che cosa fanno nell’Italia e nell’Europa appena descritte. Certamente la questione del partito, dell’organizzazione, del rapporto di massa sono le questioni concrete cui dare una risposta più adeguata possibile alle condizioni in cui si opera, ma vengono prima alcune questioni di fondo, alla base, cioè, di ogni processo di riorganizzazione dei comunisti, attenendo alla funzione che questi devono svolgere nell’indicare una diversa idea di società e di relazioni sociali.
La prima questione che riteniamo fondamentale è quella del senso del collettivo. Gli ultimi decenni sono stati devastanti dal punto di vista della cultura politica dei comunisti. La crisi politica e la dimensione pervasiva delle relazioni istituzionali, vissute come esclusive e autoreferenziali, ha prodotto un individualismo diffuso, una competizione personale e un arrivismo indecente che ha smontato, pezzo a pezzo, un patrimonio unico nell’occidente capitalistico: quello del movimento operaio, del PCI e dell’intero movimento degli anni ’70. Su questa seconda natura posticcia, acquisita dai comunisti e dalla sinistra in genere, va dato anche un netto giudizio etico: la corruzione intellettuale subita, sebbene non sia il punto centrale, ci obbliga, infatti, ad assumere posizione anche su questo piano.
Il danno principale, per i comunisti italiani, è stato, invece, l’effetto prodotto da questi comportamenti: la distruzione dell’indipendenza delle organizzazioni di classe e il cui metro di valutazione obiettiva, oggi, sono i sempre più disastrosi risultati elettorali e la perdita d’indipendenza che ha avuto conseguenze profonde e devastanti nella battaglia delle idee per una concezione alternativa del mondo. Ricostruire, nella realtà odierna l’identità, la militanza e il senso del collettivo è, dunque, un compito primario da svolgere.
è il ruolo della teoria, l’altro terreno saccheggiato: l’oblio e la mistificazione di un pensiero forte che, lungi dall’essere fuori dal tempo, funziona ancora oggi, e cioè il marxismo. Anche questo è un segno della lotta di classe in atto: la forza del movimento operaio è stata la potenza di un pensiero razionale che sapeva interpretare il mondo e le sue dinamiche. Aver abdicato a questa funzione, aver favorito l’egemonia del pensiero debole, come anche aver sistematicamente anteposto il politicismo all’interpretazione e all’analisi, ha portato alla situazione attuale. La qualità della elaborazione teorica rimane centrale per una ricostruzione che, per quanto non dogmaticamente legata al passato, allo stesso modo non getti, però, il bambino con l’acqua sporca, riprendendo quegli elementi di teoria validi per l’azione, per recuperare, così, capacità d’analisi e d’intervento sul presente che calate compiutamente all’interno delle strutture socio-economiche e politico-culturali del momento, assumono tutta la loro specificità e tutta la loro dirompente forza di trasformazione: altro che ferri vecchi!
Ancora: il rapporto di massa. Non esiste nessuna seria organizzazione comunista che non sia radicata nella classe. Non si forma nessun quadro comunista se non si fanno i conti in prima persona con questa necessità nella militanza quotidiana e nella concezione del mondo. Il rapporto di massa è un terreno di verifica importante e va compreso come possa effettivamente svilupparsi nella società dalle caratteristiche qui analizzate. Alla disgregazione materiale indotta dalla riorganizzazione produttiva e sociale si risponde con un forte ruolo della soggettività nei processi di ricomposizione del conflitto di classe; pensare di avviare questi percorsi, vitali per le forze comuniste, partendo immediatamente dalla politica o da una sua dimensione autonoma e astratta e non, invece, dalla comprensione teorica di come si costruisce il rapporto di massa, qui e ora, significa continuare a seguire una via senza uscita. Far crescere il rapporto di massa organizzato, e di conseguenza la coscienza di classe, fornire ai quadri politici un metodo di lavoro e degli strumenti interpretativi adeguati alle caratteristiche della classe reale è un compito al quale i comunisti non possono sottrarsi.
E’ partendo da questi elementi che vanno intrapresi i processi di ricostruzione. Crediamo di poter affermare, perciò, che oggi l’Organizzazione dei comunisti non può che avere il carattere della militanza dei quadri e anche quello della ricerca di una qualità intesa come capacità edificatrice di un punto di vista organico al mondo moderno. Il carattere militante dei quadri non significa ipotizzare una chiusura settaria ma è, al contrario, la condizione presupposta e necessaria per sviluppare al massimo una funzione di massa, per costruire processi larghi di organizzazione dovunque questo sia possibile, al di là di ogni concezione schematica e ossificata della classe e che coinvolga, invece, tutti i settori sociali, culturali e produttivi che hanno il comune interesse a una trasformazione sociale.
Solo così diviene chiara la funzione dei progetti di costruzione della rappresentanza sociale, sindacale e politica, organizzata e indipendente, di quel blocco sociale che è penalizzato dallo sviluppo del capitalismo e dalle contraddizioni che questo stesso sviluppo genera; ed è su questa chiarezza che è possibile fondare il senso stesso dell’essere comunisti oggi.
UNA PROPOSTA DI RIORGANIZZAZIONE PER LA RETE DEI COMUNISTI
La Rete dei Comunisti dalla data della sua costituzione nel 1998 ha scelto di non formalizzare il modello di organizzazione concretamente funzionante cosciente dei propri limiti soggettivi qualitativi e quantitativi, basando le ragioni della proprie esistenza sui contenuti e sulla funzione generale che si voleva svolgere nel contesto a cavallo del passaggio di secolo.
La tenuta dell’organizzazione è stata garantita dalla costruzione processuale di una identità collettiva ed il collante è stato il “patto politico” tra compagni che condividevano un punto di vista generale a partire dalla riaffermazione della indipendenza politica del movimento di classe e dei comunisti. Questi elementi strategici assieme al continuo consolidamento e crescita del rapporto di massa sociale e politico nelle sue molteplici forme hanno permesso una omogeneità costruita sul continuo confronto interno che ha permesso il mantenimento della prospettiva generale.
Questa “forma informale” di organizzazione ha permesso nell’ultimo decennio di affrontare le varie fasi che hanno caratterizzato il conflitto sociale e politico nel paese ed il confronto con le altre ipotesi politiche, spesso in una nostra condizione di relativa dimensione organizzativa. Oggi di fronte alle possibilità che produce lo sviluppo delle contraddizioni e la richiesta di organizzazione che viene dalla crisi delle formazioni comuniste, riteniamo sia necessario ipotizzare e sperimentare ipotesi organizzative più avanzate di quelle praticate da noi in questi anni.
Non si tratta, da subito, di costituire un nuovo partito da aggiungere ad altri, ma di intraprendere un processo di organizzazione dei comunisti che sappia essere strumento politico effettivo ma che non si chiuda in un modello definitivamente confezionato ed impermeabile alle evoluzioni del rapporto con le altre strutture che si collocano nella nostra stessa prospettiva. Il nostro riferimento è quello che abbiamo cercato di analizzare e costruire in questi anni, cioè l’organizzazione dei quadri con una funzione di massa, sapendo che è una scommessa affatto scontata e che non può fare a meno della verifica sistematica nella realtà del conflitto di classe che concretamente abbiamo di fronte.
Non abbiamo intenzione di proporre uno Statuto compiuto ma una serie di regole che permettano la vita dell’organizzazione, la sua crescita, lo sviluppo del dibattito ed anche un rapporto più organico possibile con le altre strutture comuniste. Di seguito poniamo alcuni elementi di riferimento utili alla stesura definitiva delle regole che verranno collettivamente scelte nella Assemblea Nazionale.
1 La formalizzazione delle adesioni.
Negli anni passati partendo dalla adesione militante dei compagni al progetto politico non abbiamo mai avuto la necessità di formalizzare le adesioni tramite tessere o altre forme di rappresentanza. Tenendo conto delle evoluzioni avute negli ultimi anni si pone la necessità della definizione anche formale della adesione alla Rete dei Comunisti.
Il riferimento principale rimane quello della organizzazione di quadri ed è dunque necessario ipotizzare due tipi di adesione: la prima per chi è impegnato in modo militante nei termini da noi concepiti in questi anni; la seconda per gli “attivisti”, cioè per chi condivide il nostro punto di vista generale, lo sostiene e partecipa alla attività politica ma che non ha un impegno diretto nella organizzazione propriamente detta.
2 L’Assemblea Nazionale.
La proposta è quella di tenere tutti gli anni l’Assemblea Nazionale della RdC con tutti i suoi aderenti per analizzare le scelte fatte, per progettare l’attività dell’organizzazione e per verificare nella pratica il nostro funzionamento, infine per rafforzare il percorso di formazione dei compagni.
3 Il Coordinamento Nazionale.
Il Coordinamento finora è stato un Attivo Nazionale al quale hanno partecipato tutti i compagni più o meno attivi e responsabilizzati. In questa nuova fase bisogna valutare se e come deve divenire una struttura di direzione definendo i criteri da adottare per poter accedere a questo livello di responsabilità.
Il Coordinamento innanzitutto deve garantire le scelte fatte dalla Assemblea Nazionale nella gestione delle strutture nazionali e territoriali. Al Coordinamento partecipa- no coloro i quali hanno la responsabilità nella direzione delle strutture di lavoro e di quelle territoriali. Questo livello di responsabilità individuale è importante e va definito con chiarezza.
4 La Segreteria Nazionale.
Questa è una struttura di direzione che già si è dimostrata funzionale e non ha perciò bisogno di modifiche. La Segreteria deve attuare le scelte politiche e di gestione decise dal Coordinamento e attuarle a tutti i livelli necessari. Per ora non è necessario ipotizzare strutture di gestione più snelle.
5 I livelli locali.
La definizione delle funzioni del Coordinamento Nazionale implica definire meglio anche quelle delle strutture locali che debbono raccogliere la richiesta di dibattito ed iniziativa politica che non è possibile o necessario portare direttamente sul piano nazionale. Ci dobbiamo perciò orientare sulla forma della strutturazione dei livelli provinciali già esistenti e capire la prospettiva di quello regionale. Inoltre vanno riprodotte a livello locale le strutture della Segreteria, Coordinamento e Assemblea locale dei militanti e degli attivisti.
6 Patti Federativi.
Possono essere ipotizzati Patti Federativi con strutture politiche e settoriali, nazionali e locali, che prevedano la partecipazione di queste al Coordinamento Nazionale o nelle strutture di direzione dei livelli locali previsti. Può essere prevista, se necessaria, la reciprocità della partecipazione alle strutture di direzione con le organizzazioni federate.