Mauro Casadio – Rete dei Comunisti
Messa così sembrerebbe uno slogan scontato, utile solo a darsi coraggio in un momento di difficoltà; in realtà una regressione di quel continente a cortile di casa degli USA non produrrà effetti scontati.
E’ certo che la sconfitta in Argentina ed in Venezuela e le difficoltà politiche del governo Brasiliano non possono non essere addebitate alle ingerenze degli USA; gli esempi sono moltissimi ed una economia dove l’eccesso di liquidità deve essere investito non ha molte difficoltà ad individuare “investimenti” politici in quel meridione. In altre parole comprare i voti con i dollari non rappresenta una enorme difficoltà per gli Yankee.
Inoltre se collochiamo questo “investimento” politico nel contesto della competizione globale non è difficile nemmeno capire come questo si possa trasformare in investimento produttivo. All’inizio degli anni’90 nacque prima il NAFTA, l’area economica che unisce USA, Messico e Canada, e poi si affacciò l’dea dell’ALCA rivolta all’America Latina in funzione dei processi di delocalizzazione che permettevano una riduzione forte del costo del lavoro con l’incremento dello sfruttamento. Questa è stata una trasformazione che è andata avanti con la delocalizzazione delle imprese americane del nord in Messico e nell’America Centrale; un processo anche politico che ha portato lo Stato Messicano in una condizione di disgregazione di fatto, in mano alla malavita organizzata che gestisce potere economico, politico ed anche l’afflusso della forza lavoro verso gli Stati Uniti. In quel paese si è riprodotta nelle specifiche forme locali la condizione dei paesi arabi oggi gestiti per bande e gruppi di potere politico militare e volutamente tribalizzati.
Questo progetto non ha però avuto vita facile soprattutto nella proiezione continentale dell’ALCA, infatti le esperienze Bolivariane hanno bloccato la sua affermazione e, contemporaneamente, si è manifestata la possibilità di investire in Cina dove i costi del lavoro rendevano la produzione molto più profittevole. L’equilibrio raggiunto negli anni ’90 ora, con la crisi sistemica, viene rimesso in discussione e se fino ad oggi la parte meridionale del continente è stato soprattutto un problema politico con la competizione globale in atto diviene anche un ostacolo alle impellenti necessità economiche e produttive degli USA.
Da qui il prevalente impegno politico e finanziario, ma anche militare come in Colombia, a riportare l’ordine nel proprio cortile; obiettivo rispetto al quale una qualche funzione ha avuto anche la modifica delle relazioni politiche e diplomatiche decise dal governo americano nei confronti di Cuba. Certamente pensare che la condizione globale non pesi su quelle vicende significa fare una estrapolazione indebita nell’analisi della realtà.
Ma questo non ci può bastare!
Come ben sappiamo nei processi di transizione e di rivoluzione la soggettività ha un peso non indifferente e su come questa ha agito nei processi latinoamericani è inevitabile soffermarci. Nella esperienza Venezuelana e , via via, in quella Boliviana, Ecuadoregna, Argentina e Brasiliana ha contato molto la quello che è accaduto dagli anni ’70 con i vari golpe e politiche criminali sostenute dagli USA. Chavez, Lula, Morales, Kirchner hanno rappresentato un’idea di riscatto antimperialista anche grazie al loro carisma personale che qui in Europa viene spacciato come populismo di sinistra. Quello che è stato determinante in quella fase per l’esperienza venezuelana e Bolivariana è stato il mercato mondiale dove il prezzo del petrolio e del gas era altissimo e che ha rappresentato la base materiale per portare avanti esperienze statuali che in altre condizioni potevano entrare in crisi molto prima.
Qui c’è il primo errore o la prima difficoltà obiettiva, i giudizi ora sono fuori luogo, del governo venezuelano che non è riuscito a trasformare quelle risorse economiche in sistema produttivo mettendo a frutto le altre risorse quali ad esempio quella alimentare. Affidarsi al mercato mondiale per garantire reddito e servizi alla popolazione può pagare ma fino ad un certo punto anche perché il cosiddetto “mercato” può essere agevolmente manipolato da chi ha oggi risorse finanziarie infinite, basti pensare che le prime dieci banche mondiali hanno capitali che equivalgono al 75% del PIL mondiale.
Dunque la “monocultura” petrolifera non ha pagato, come non pagò a suo tempo la monocultura della canna da zucchero che fu oggetto anche di una forte autocritica negli anni ’70 di Fidel Castro. Dovevano essere certamente fatti investimenti produttivi; ma qui si innesta un’altra questione oggi centrale che è quella della dimensione delle economie. I soggetti che oggi hanno un ruolo internazionale hanno anche una dimensione adeguata, diremmo noi marxisti, al livello raggiunto dallo sviluppo delle forze produttive. L’ALBA è la prospettiva giusta ma una integrazione economica parziale non può sostenere una tenuta politica effettiva e duratura nel tempo; troppe sono le forze economiche e politiche al lavoro per contrastare questa prospettiva. Se è facile individuare il punto debole dell’ALBA si capisce che la risposta a questo limite è molto complessa e non può fare a meno della politica, di una politica rivoluzionaria che oggi forse non è ancora data dal contesto generale.
Certo, ci sono i BRICS che potenzialmente possono essere una mercato alternativo a quello liberista dell’Occidente, ma è proprio così? Effettivamente l’antagonismo politico-militare che segna le relazioni con Russia e Cina è una prospettiva anche di tipo economico e sociale? Su questo probabilmente sarà necessario andare più a fondo per capire dove ci sta portando la crisi in atto. Se questo è un problema drammatico per le esperienze latino americane noi europei non stiamo fuori di questa dimensione, anzi con le vicende belliche e degli attentati ci siamo dentro fino in fondo e pensare di dare giudizi su quello che accade in quei paesi senza prendere posizione sarebbe un ennesimo errore politico.
Abbiamo sempre affermato che quella Bolivariana è una esperienza di transizione sociale e non di rivoluzione sullo stile di quelle del ‘900. Questo però ci rimanda, visti gli esiti, alla questione della democrazia ovvero della democrazia borghese, termine in disuso ma che forse dovrebbe essere recuperato nel dibattito tra comunisti. La democrazia, dopo le esperienze del socialismo reale, è stata vissuta come valore assoluto e non caratterizzato da aggettivi, quali ad esempio “borghese”. E’ insomma un valore immutabile nel tempo. Quello che sta accadendo oggi a livello mondiale dovrebbe però far riflettere in quanto la “democrazia” viene usata come una clava politica negli interventi militari ma, come in Venezuela oggi o in Nicaragua negli anni ’90, viene manipolata con il potere finanziario.
Chavez nel varo della costituzione di quel paese ha tentato di introdurre elementi della “democrazia partecipativa” che va sicuramente verso una prospettiva socialista ma questa viene ora rimessa in discussione dalla permanenza della democrazia formale producendo un corto circuito che ha portato all’esito attuale. E’ infatti incredibile che una sola votazione negativa dopo circa 17 pronunciamenti elettorali positivi per il governo ed il PSUV possa rimettere in discussione l’assetto costituzionale di quel paese. Probabilmente non poteva essere fatto di più dati i rapporti di forza internazionali che già esistevano quindici anni fa, ma dire che questa è la democrazia ed introiettarla politicamente forse è un azzardo per chi vuole cambiare effettivamente la società. E’ necessario perciò recuperare la categoria della “democrazia borghese” che in realtà è la negazione dello stesso concetto di democrazia in una società mondiale governata dalle multinazionali e dai monopoli.
Ma, come abbiamo detto, la lotta continua.
Continua perché questi scontri avvengono in un’epoca dove l’egemonia del capitale è in crisi, dove lo sviluppo attuale mostra solo delle nubi agli orizzonti. E’ infatti difficile prevedere miglioramenti per i popoli latino americani se ritornano i vecchi padroni del vapore, è difficile prevedere che si vada verso un’epoca di pace per gli europei trascinati dal proprio imperialismo verso scenari di guerra e comunque è difficile prevedere magici recuperi della crescita economica mondiale in un epoca di competizione globale e di confronto militare che non esclude quello nucleare, come Putin ogni tanto ricorda ai governi occidentali. Ma continua perché siamo convinti che il Chavismo e la lotta contro l’imperialismo USA non sono fenomeni transitori.