Max Gazzola – Collettivo 26×1
Questo scritto si propone di delineare gli snodi principali che hanno contraddistinto la formazione della teoria Bolscevica nella stagione che portò alla Rivoluzione d’ottobre.
Il saggio in questione non ha alcuna velleità di andare a fondo a tutte le dinamiche e situazioni concrete che caratterizzarono questo periodo storico , ma riteniamo comunque importante una disamina storica che riesca ad inquadrare il più correttamente possibile le lotte e le riflessioni che formarono questa linea politica , poiché pensiamo sia comunque fondamentale ai fini di una corretta impostazione politica relativa alla lotta che i comunisti occidentali si trovano a dover affrontare nel XXI secolo.
Speriamo quindi di poter portare un utile contributo ad un dibattito importante nonché necessario.
La situazione politica nella Russia zarista ottocentesca: dal decabrismo all’emancipazione dei servi della gleba
1. IL DECABRISMO
È impossibile capire correttamente la stagione che vide la nascita del Partito Operaio Social Democratico Russo (POSDR), e quindi anche di tutte le correnti che si formarono al suo interno, senza conoscere ciò che accadde prima che questo potesse formarsi, senza capire il contesto politico precedente, nel quale buona parte dei primi dirigenti del partito conseguì la sua formazione politica primaria.
Per poter spiegare propriamente questo periodo storico, che grosso modo copre i tre quarti del XIX secolo dobbiamo partire dalla prima ed embrionale forma di protesta allo zarismo: il decabrismo.
Il processo rivoluzionario francese e l’arrivo dell’erede imperfetto di questa stagione, Napoleone Bonaparte, introdussero l’Europa nel periodo delle guerre napoleoniche, che incisero profondamente sugli animi delle popolazioni e dei giovani ufficiali che ne presero parte, indipendentemente dal regno che servivano in questo arco di tempo.
La fine di questa serie di scontri, iniziata con la sconfitta in Russia prima (1812), proseguita con la battaglia delle Nazioni (1813) e chiusasi a Waterloo, dove il ricongiungimento sul campo dei contingenti prussiani a quelli Inglesi comandati dal Duca di Wellington decretarono la vittoria della settima coalizione, portarono al riassetto europeo, deciso dai vincitori nel Congresso di Vienna (1815).
La volontà di restaurazione però si scontrò ben presto con una spinta all’emancipazione dall’assolutismo dell’ancien régime disposto a tutto per invertire le lancette della storia, che ebbe modo di manifestarsi in maniera abbastanza precoce.
Gli anni ’20 dell’Ottocento infatti furono caratterizzati da un’ondata di moti rivoluzionari, che fecero capire ben presto che qualcosa, nella carne viva delle popolazioni europee, era cambiato.
Il decabrismo russo nasce con questi presupposti storici.
Questo “movimento” fu caratterizzato socialmente da figure appartenenti all’aristocrazia zarista, con tendenze riformatrici, presenti nei quadri dell’esercito imperiale che iniziarono appena dopo la sconfitta di Napoleone in Belgio ad unirsi in società segrete.
La prima in ordine di tempo fu l’Unione della salvezza, fondata nel 1816 da un gruppo di ufficiali delle guardie e da qualche principe con tendenze libertarie.
Nello statuto della società si legge:
“lavorare con tutte le sue forze per il bene comune, sostenere tutte le buone misure del governo e le utili imprese private, prevenire tutti i mali e sradicare i vizi sociali, mettendo a nudo l’inerzia e l’ignoranza del popolo, il processo iniquo, gli abusi dei funzionari e le azioni disoneste dei privati, la cupidigia e l’appropriazione indebita, il trattamento crudele dei soldati, la mancanza di rispetto per la dignità umana e l’inosservanza dei diritti personali, predominio degli stranieri”.
In questa prima formulazione è palese la confusione delle idee degli associati, che, almeno in una parte di essi, rimangono ancorati alla concezione di una monarchia costituzionale come già era accaduto per l’ordine dei cavalieri russi, fondato nel ’14.
Proprio da questa prima contraddizione, manifestatasi nel’17, l’unione si sciolse dopo che una proposta di regicidio spaccò gli associati.
Si decise quindi di procedere alla fondazione di una società più grande, in grado di influenzare maggiormente l’opinione pubblica, che venne nominata Unione della prosperità.
L’Unione della prosperità, benché segreta, divenne presto nota nella parte occidentale dell’impero russo, tanto che persino lo zar Alessandro I ne conosceva l’esistenza, che veniva tollerata nel quadro di una sua propensione moderata alle riforme.
Ma quando nel 1820 questa società segreta si propose di instaurare una repubblica, mentre in Spagna scoppiavano i primi moti che caratterizzeranno questo decennio, lo zar inizia ad avere un atteggiamento diverso verso quegli ufficiali che sapeva appartenenti a società segrete come questa, perciò nel 1822 furono promulgate delle leggi che vietavano tassativamente agli ufficiali di fare parte delle società segrete, così in virtù di queste misure e dell’accendersi di continui dissidi all’interno, la società si sciolse ufficialmente nello stesso anno.
Ma era solo il prodromo della fondazione delle società segrete che rappresentano al meglio l’attività decabrista.
Stiamo parlando della Società del Nord e di quella del Sud, con sede rispettivamente a Pietroburgo e Kiev.
La società del Nord, principalmente insediata a Pietroburgo ma avente anche un distaccamento a Mosca, si caratterizzava per una maggioranza più moderata, guidata dal programma stilato da Muravyov e da una minoranza radicale guidata da Kondraty Fëdorovič Ryleev, spiccatamente repubblicana e tendente a forme più pronunciate di appoggio ad una dittatura militare.
Muravyov compose un programma che sintetizzò le sensibilità politiche della maggioranza dei membri della società del nord, un documento che prevedeva la formazione della Federazione Russa composta da 14 potenze e 2 regioni, l’abrogazione della servitù della gleba, la divisione dei poteri dello stato, ma il mantenimento della figura dell’imperatore come “funzionario supremo del governo russo” in quanto garante del potere esecutivo
La società del Sud tendenzialmente più compatta era capitanata dal colonnello Pavel Ivanovich Pestel, che attraverso la Russkaya Pravda espresse più volte un programma repubblicano che si sarebbe appoggiato all’esercito in rivolta per fare abdicare lo zar.
Propria nella Russkaya Pravda, Pestel ebbe modo di chiarire le sue posizioni in merito alla strutturazione possibile futura del potere in Russia che doveva essere una repubblica unita e indivisibile con un forte potere centralizzato, mentre riguardo alla questione contadina il colonnello riteneva che la terra non dovesse essere divisa in famiglie (come prospettato da Muravyov), ma dovesse essere lasciata in proprietà comune.
Oltre a questi due manifesti, se ne produsse un terzo, sempre nell’ambito della società del nord, che avrebbe rappresentato il manifesto principale appena prima della rivolta vera e propria.
Questo scritto programmatico fu redatto principalmente dal principe Sergej Petrovič Trubetskoy e prevedeva che il senato avrebbe dovuto dichiarare una serie di libertà (tra cui l’abolizione della servitù della gleba, mentre la questione dell’assegnazione delle terre ai contadini non era stata sollevata), abolire la Poll Tax, licenziare “tutti i ranghi inferiori senza eccezioni che hanno prestato servizio per 15 anni”, e quindi trasferire il potere supremo a una dittatura temporanea (“consiglio”) composta da 4-5 persone.
Questa la produzione letteraria che preparava le azioni dei decabristi. Ma come era possibile mettere in atto tutti questi elementi programmatici?
L’occasione arrivò grazie alla particolare situazione legale che lo zarismo russo dovette affrontare nella metà degli anni Venti del XIX secolo.
Il 1° dicembre 1825 a Tangarog muore improvvisamente lo Zar Alessandro I. Il candidato principale alla successione, il granduca Konstantin Pavlovich, fratello del defunto zar, aveva però già abdicato attraverso una dichiarazione segreta del 1823, e questo spianava la strada al fratello successivo in linea ereditaria, Nikolai Pavlovich, odiato da buona parte delle Elite militari.
Il 9 dicembre il popolo giurava fedeltà quindi ad un imperatore che però aveva già da tempo rinunciato al trono, un qualcosa che produsse una situazione altamente instabile.
Di fronte al rifiuto del granduca Konstantin, Nikolai prese l’iniziativa e si fece dichiarare successore di Alessandro I in una seduta notturna del senato zarista tenutasi fra il 13 e il 14 dicembre, mentre si organizzava un nuovo giuramento previsto per il 26 dicembre.
La sera del 18 i membri della Società del Nord vengono a conoscenza della nuova successione e del relativo giuramento, e decidono di passare all’azione approfittando della data del 26, forti della presenza di vari ufficiali nella società e del proselitismo che questi avevano condotto fra i ranghi delle truppe imperiali presenti a Pietroburgo. Nonostante il giorno prima della rivolta i membri della Società del Nord vengano raggiunti dalla notizia dell’arresto del colonnello Pestel, capo indiscusso della Società del Sud, decidono comunque di proseguire con il piano.
Trubetskoy viene nominato dittatore dai membri della società, mentre altri due membri in vista (Yakubovich e Bulatov) avrebbero dovuto guidare i reparti insorti alla presa del Palazzo d’Inverno per garantire il controllo sul Senato e sulla famiglia reale, contemporaneamente alla lettura del “discorso di insediamento” che il dittatore avrebbe dovuto pronunciare dalla piazza dove si sarebbe tenuto il giuramento.
Questa, denominata al tempo “Piazza del Senato”, doveva essere raggiunta da reparti di granatieri e di cavalleria che, nel loro percorso, avrebbero dovuto convincere altri reparti dell’esercito ad unirsi alla marcia in virtù dell’illegalità della successione di Nikolaj Pavlovič.
Questo piano però iniziò a presentare varie defezioni nella notte fra il 25 e il 26 dicembre, quando certi ufficiali legati alla società che tentarono di sobillare contro il giuramento il reggimento delle Guardie di Vita Preobrazhensky furono arrestati (caso Čevkin), mentre Nikolaj Pavlovič, qualche giorno prima di diventare ufficialmente Nicola I, fu avvertito da ufficiali della Società del Nord delle intenzioni eversive che dovevano manifestarsi il giorno dopo.
Per queste ragioni il piano prima descritto fallì e con esso il tentativo di cambiare il sistema zarista in russia.
2. DA NICOLA I AD ALESSANDRO II: L’INCUBAZIONE DEL MOVIMENTO POPULISTA
Con queste premesse, la reggenza di Nikolaj Pavlovič — che da ora possiamo chiamare Nicola I — non poteva che essere segnata da una volontà politica spiccatamente conservatrice, volontà che già si era manifestata nella personalità del sovrano, che considerava il fratello Alessandro troppo liberale, ma che dopo i fatti del 26 dicembre si accentua in maniera considerevole.
Nicola, dopo aver sventato la rivolta decabrista, procede con una stretta repressione dei capi della cospirazione, che vengono tutti o confinati in Siberia o impiccati a Pietroburgo.
Il regno è concepito in maniera ancora più assolutista; la stretta sulle associazioni segrete si fa sempre più intensa e le idee occidentali che avevano portato in auge le correnti rivoluzionarie vengono silenziate. Un atteggiamento, questo, che viene portato avanti dal sovrano in maniera indubbiamente coerente anche in ambito internazionale.
Nicola, infatti, dopo essere entrato nella questione legata all’indipendenza greca per contrastare “la Porta” ottomana, rivolge le sue attenzioni alla Polonia, dove si era sviluppato un movimento politico indipendentista che replicava in parte le caratteristiche dell’appena defunto decabrismo. Durante il suo regno ebbe modo di intervenire, su richiesta di Vienna, nella repressione del movimento di indipendenza ungherese, di fronteggiare i primi malumori contadini, dove i proprietari terrieri continuavano a manifestare volontà liberali, mentre entrava nel grande gioco avanzando in Caucaso e centro Asia, rivolgendo continue attenzioni al Mar Nero e allo stretto dei Dardanelli. Non a caso è grazie al suo governo che la Russia acquisì il soprannome di “Gendarme d’Europa”, fedele esecutrice dei voleri della “Santa Alleanza” del ’15.
Una reputazione, però, che non riuscì a impedire un incremento lento ma costante dei disordini legati al contadinato, un movimento disgregato e confuso, come si notava acutamente nei circoli degli uomini di governo presenti a corte durante questo periodo, ma che era destinato ad andare a formare quel movimento che esplose definitivamente alla fine degli anni ’50 dell’Ottocento, a ridosso della decisione dello zar Alessandro II, figlio e successore di Nicola, di concedere l’abolizione della servitù della gleba.
Le discussioni attorno a questa decisione erano iniziate a corte già da decenni, dove l’assolutismo autocratico zarista, che considerava ovviamente come pericolosa una riforma di questo tipo, ne era costretto contemporaneamente a notarne l’inevitabilità, cercando così di trovare un escamotage politico in grado di concedere la riforma ma mantenerla all’interno di uno stato che rimaneva assolutistico. È da questa impellenza, evidenziata dal crescere dei disordini nel mondo contadino, particolarmente dopo la sconfitta nella guerra di Crimea, che viene formulata la riforma che pone fine formalmente alla servitù della gleba in Russia (1861).
La riforma, però, partendo da questi presupposti politici, lascia i contadini in una posizione di sottomissione, non solo perché la legge prevede un periodo di transizione nel quale sono comunque obbligati a prestazioni lavorative semigratuite, espressione dell’ala più conservatrice di corte, ma anche perché il regolamento stilato lascia de facto i proprietari terrieri in controllo della maggior parte della terra, confermando semplicemente la proprietà della maggior parte della terra alla struttura semi-burocratica zarista.
Sedici anni dopo, Ippolit Nikitič Myškin, uno dei principali imputati del “Processo dei 193” — che intendeva punire quegli studenti e rivoluzionari che avevano operato nella cosiddetta “andata al popolo”, di cui avremo modo di parlare successivamente — così descriveva la situazione del contadino dopo le riforme:
“I contadini videro che erano stati dotati di sabbia e paludi e di alcuni appezzamenti di terra sparsi su cui era impossibile coltivare… Quando hanno visto che questo è stato fatto con il permesso delle autorità statali, quando hanno visto che non c’era alcun articolo misterioso della legge che presumevano proteggesse gli interessi del popolo… Poi si convinsero che non avevano nulla su cui contare sul potere statale, che potevano contare solo su se stessi.”
La politica in Russia nella seconda metà dell’ottocento: la stagione populista
1. HERZEN, OGAREV E CHERNYSHEVSKY: LA PRIMA “ZEMLIJA Y VOLYA”
Mentre si consumavano le prime azioni di governo di Nicola I, all’università di Mosca due giovani appartenenti alla nobiltà, ma imbevuti di ideali rivoluzionari, alimentati dalle letture di Saint-Simon e dalla stima verso figure come Ryleev e i capi radicali della rivolta decabrista, discutono di politica, si interessano alla filosofia tedesca — in particolar modo di Hegel e di Schiller — e iniziano a fondare circoli che riuniscono studenti con idee simili.
Questi giovani sono Aleksandr Ivanovič Herzen e Nikolaj Platonovič Ogarev, coloro che fonderanno il primo vero organo di stampa della critica populista al regime assolutistico: il “Kolokol”.
Herzen, l’animatore principale del giornale, dopo aver assistito alla brutale repressione post ’48, rifugiatosi in Francia, sostiene Proudhon, partecipa alle manifestazioni contro la decisione di intervenire contro la Repubblica Romana da parte della Francia, mentre Nicola I ordina il sequestro di tutti i suoi beni in Russia. Verso la fine degli anni ’50 si sposta a Londra, dove fonda la “Stamperia Russa Libera” e quindi, nel ’57, insieme all’amico Ogarev, inizia a stampare il “Kolokol”.
Da questo periodo fino almeno al 1862, la rivista vede una ricezione sempre più ampia, tanto da far decidere lo zar per il divieto di stampa, misura che Pietroburgo riuscì a far passare anche in altri paesi dell’Europa occidentale come Roma, Napoli e la Prussia, ma che non scalfirono la circolazione del giornale, che riuscì a suscitare un dibattito tale da costringere molte volte lo zar a intervenire di persona. Possiamo dire quindi che il “Kolokol” costituisce una delle critiche più importanti riguardo alla questione contadina e al rapporto con il potere autocratico negli anni a cavallo fra il ’58 e il ’61, nelle fasi appena precedenti la proclamazione dell’abolizione della servitù della gleba.
Ma dopo la riforma, dopo che divenne chiaro che la servitù della gleba non sarebbe scomparsa per decreto, le posizioni di Herzen — che pure contribuì alla formazione di un pensiero critico e degli orientamenti fondamentali dell’ideologia populista — rimasero a metà fra la moderazione, che non smetteva di pensare allo zar come figura che potesse garantire una trasformazione, e la radicalità dei gruppi che, di fronte alla truffa della riforma, iniziavano a pensare a metodi per rovesciare il sistema assolutistico e a federarsi di conseguenza.
Mentre Herzen e Ogarev erano impegnati nella pubblicazione del “Kolokol”, Nikolaj Gavrilovič Černyševskij, brillante pensatore rivoluzionario nato a Saratov nel 1828, tentava di trasformare il giornale del quale era diventato direttore, il “Sovremennik”, nella voce più importante della democrazia rivoluzionaria russa.
La formazione di Černyševskij tocca vari ambiti del sapere, ma dopo il 1848 si sviluppa attorno al socialismo fourierista — benché in maniera critica — fino ad arrivare alle riflessioni sui modi di produzione e allo studio del contadinato russo in un sistema capitalista, passando per l’acquisizione dei rudimenti teorici del materialismo di Feuerbach.
In questa parte della vita sviluppa quindi la convinzione — che sarà centrale nello sviluppo del pensiero populista e delle sue varie posizioni interne — che l’“obščina”, la comunità contadina tradizionale russa, fosse una forma di cooperazione sociale in grado di superare il sistema capitalista, acquisendone le peculiarità tecniche ma senza pagare il dazio dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La convinzione, cioè, che fosse la classe contadina la classe modale in grado di arrivare al socialismo direttamente dal feudalesimo dell’assolutismo zarista.
Sulla base di queste teorie, Černyševskij sposta su posizioni più radicali il “Sovremennik” fra il 1857 e il 1860, anni nei quali gli autori meno radicali — fra cui figurava Tolstoj — decisero di abbandonare il giornale. Attraverso il “Sovremennik” iniziano quindi ad addensarsi quelle tesi che fanno parte del dibattito politico più radicale: quella parte di intellighenzia che avversava le riviste liberal-populiste come “Vremja” e, successivamente, “Nedelya”, ed era vicina alle opinioni più intransigenti del “Kolokol”.
Col “Kolokol”, in questo periodo, ci fu una polemica più che indicativa fra Černyševskij ed Herzen, attorno alla questione relativa ai liberali transfughi del regno di Napoli, situazione nella quale Černyševskij scherniva quei liberali che si affidavano al sovrano, a differenza di Herzen, che accusava il direttore del “Sovremennik” di rompere il fronte liberale e quindi di fare il gioco della più bieca reazione conservatrice.
Da questo addensarsi di posizioni radicali nasce, nell’autunno del 1861, “Zemlja i Volja”, la prima società segreta populista che si propone di rovesciare il potere autocratico zarista piuttosto che partecipare a uno scialbo dibattito sui modi per introdurre la riforma in Russia.
Non un’organizzazione — tanto che ancora non possiamo parlare di un partito — ma più un embrionale coordinamento fra pubblicisti e agitatori, era formata da piccole cellule di cinque persone divise per regioni.
L’attività rimase quasi completamente pubblicistica, ma, grazie all’impegno profuso per favorire la rivolta polacca, che secondo i membri avrebbe dato un colpo allo zar indispensabile per rovesciare il potere, attirò in pochissimo tempo l’attenzione delle autorità, che attraverso la famigerata “Terza Sezione”, prendendo a pretesto una serie di incendi scoppiati nella primavera del 1862 a Pietroburgo, ne decisero la soppressione, arrivando all’arresto di Černyševskij, oltre che di personalità che condividevano gli obiettivi della società pur non facendone direttamente parte, come Dmitrij Ivanovič Pisarev, il principale pubblicista della rivista “Russkoe Slovo”, organo di stampa della corrente nichilista russa.
Nel 1864 la prima “Zemlja i Volja” poteva dirsi conclusa. Questa prima esperienza, di brevissima durata, sarà però decisiva nella formazione delle correnti più radicali del panorama rivoluzionario russo della fine del XIX secolo.
2. ISHUTINISTI, MICHAIJLOV E PLECHANOV: LA SECONDA ZEMLIJA Y VOLYA
In Zemlja i Volja avevano avuto modo di prosperare vari gruppi di rivoluzionari.
Fra questi, il gruppo cosiddetto degli Ishutinisti, portatori dell’idea di un’organizzazione preposta alla preparazione della rivoluzione. Quando Zemlja i Volja, nella quale erano confluiti, si sciolse, continuarono a fare attività politica in maniera indipendente.
Nel 1866, uno dei suoi membri, Dmitrij Vladimirovič Karakozov, attenta per la prima volta alla vita di Alessandro II, fallendo però nei suoi propositi e scatenando un’ondata repressiva che coinvolge molti intellettuali rivoluzionari, fra cui anche Herman Aleksandrovič Lopatin (autore, fra le altre cose, della prima traduzione russa de Il Capitale), che nel 1871 tenterà di liberare Černyševskij dal suo esilio in Siberia.
Questo bagaglio di ulteriori esperienze portò questo gruppo a continuare in maniera sotterranea l’attività politica, nel momento in cui lo zarismo pareva aver vinto la partita contro i propagandisti. Le azioni si fanno sempre più rare ed ogni attività è assorbita da un lavoro di strutturazione interna. Questa situazione dura fino alla seconda metà del 1876, quando il gruppo degli Ishutinisti del “Gruppo Rivoluzionario Populista del Nord” prende accordi con vari gruppi populisti e operai meridionali, che solitamente erano più inclini a posizioni politiche radicali.
Come prima dimostrazione dell’accordo raggiunto, decidono di partecipare alla manifestazione di operai e contadini di Kazan’, la prima grande mobilitazione popolare nella Russia ottocentesca.
Nasce così la seconda Zemlja i Volja.
Il programma prevedeva:
- Il “passaggio di tutta la terra nelle mani della classe agricola lavoratrice e la sua distribuzione egualitaria”
- La “separazione in parti dell’Impero russo, a seconda dei desideri locali”
- Il “passaggio di tutte le funzioni sociali nelle mani delle obščine e cioè la loro piena auto-amministrazione”
L’attività, strategicamente impostata verso «il rivolgimento violento» dell’assolutismo zarista, era:
- “L’agitazione — sia con la parola, sia e soprattutto con i fatti — indirizzata all’organizzazione delle forze rivoluzionarie e allo sviluppo dei sentimenti rivoluzionari (rivolte, scioperi)”
- “La disorganizzazione dello Stato”
Se per la prima parte dell’attività i membri si rifecero alla parola d’ordine dell’“andata al popolo” che aveva caratterizzato la prima società del 1861, la parte relativa alla disorganizzazione dello Stato trovava molti punti in comune con il pensiero anarchico di Bakunin e Kropotkin, relativo alla lotta anche armata contro le autorità per una soppressione totale di ogni forma statale.
Sotto questo punto di vista, però, il gruppo del ’76 divergeva in parte da Bakunin, poiché considerava i contadini dell’obščina non ancora pronti completamente per gli ideali della libertà ed ammetteva quindi una fase nella quale lo Stato, mitigato dal pluralismo “naturale” dell’obščina, avrebbe giocato un ruolo fondamentale per la propagazione e l’educazione relativa a queste idee, oltre a differire dai pensatori anarchici riguardo all’importanza della politica nella lotta per rovesciare il sistema.
L’attività relativa all’andata al popolo, che vide impegnati questo gruppo di intellettuali ad installarsi nei villaggi contadini per aiutare nella pratica le comunità, si dimostrò però inconcludente, anche per le difficoltà che la continua repressione poneva di fronte all’attività quotidiana e al raccordo generale. Infatti, per tutto il 1877 si tengono imponenti processi per tentare di decapitare questo movimento che aveva portato la parte più radicale dell’intellighenzia a spostarsi nelle campagne per condurre agitazione politica.
Fra gennaio e febbraio si tiene il “Processo dei Ventuno”, che intendeva punire gli organizzatori della manifestazione di Kazan’; a marzo è la volta del “Processo dei Cinquanta”, che inizia a concentrarsi più propriamente su Zemlja i Volja. Ma è in ottobre che si apre il cosiddetto “Processo dei Centonovantatré”, il più imponente giudizio che l’assolutismo sferra contro la giovane organizzazione populista rivoluzionaria e tutti quei gruppi che le orbitavano attorno.
Per questo, pur mantenendo le proprie peculiarità, i membri della seconda Zemlja i Volja abbandonarono le campagne per fare ritorno nelle città, ma con l’obiettivo di preparare il sommovimento politico attraverso atti di terrorismo individuale.
Ad inaugurare questa fase sarà Vera Zasulič, che il 24 gennaio 1878 esploderà colpi d’arma da fuoco contro il governatore di Pietroburgo Trepov, che si era distinto, nella fase della preparazione del processo di ottobre, per essere particolarmente sadico nei confronti dei futuri imputati. Questa azione viene seguita da una forte risposta repressiva della polizia zarista, che già a febbraio arresta Ivan Kovalskij, membro di Odessa, catturato dopo un intenso scontro a fuoco.
Gli eventi si susseguono velocemente. Fra marzo e giugno la “sezione” di Kiev tenta di colpire la burocrazia poliziesca zarista. In maggio, uno degli esponenti di spicco di quella che poi sarà l’ala terroristica, Aleksandr Michajlov, propone una revisione del programma di Zemlja i Volja, specificando le modalità con cui l’organizzazione avrebbe dovuto interagire con un Paese che, secondo l’estensore della proposta, era destinato a ribellarsi in virtù del suo spirito di libertà incarnato in quella comunità contadina, collettivistica e primitiva, che andava aiutata a svilupparsi attraverso l’organizzazione delle comunità nel territorio, agganciandola con gli studenti e gli operai da conquistare alla causa, non disdegnando di dare uno sguardo più che interessato all’ambiente militare e a quegli ufficiali che avrebbero potuto intervenire al fianco dei rivoluzionari in virtù di questa agitazione politica.
In questa fase, Zemlja i Volja, assillata da queste necessità operative, inizia quindi un processo di centralizzazione del corso decisionale che trasforma l’organizzazione in maniera proto-partitica, benché il rifiuto di costituire un partito alla guida del prossimo corso successivo al momento insurrezionale ne denoti una sensibilità comunque più vicina alle teorizzazioni anarchiche di Bakunin e Kropotkin.
Il 16 agosto, a Pietroburgo, Zemlja i Volja uccide il capo della “Terza Sezione” (quell’organo repressivo che stroncò la vita della prima Zemlja i Volja), il generale Mezencov.
Dopo questa azione, la repressione si fa sempre più stringente.
Il 21 agosto il governo istituisce il tribunale militare e la pena di morte per terrorismo e in ottobre sette dei principali rivoluzionari dell’organizzazione vengono arrestati; solo Michaijlov riesce a sfuggire alla cattura, rimettendo in piedi la Zemlja i Volja pietroburghese, che da lì a poco inizierà a stampare un suo giornale, intitolato con il nome dell’organizzazione.
È con l’avvio di questa pubblicazione, che rimarrà in piedi fino all’aprile del 1879, che fra le pagine di questo organo inizia a farsi notare un giovane rivoluzionario appena ventitreenne, dotato di una grande capacità nello spiegare concetti difficili attraverso forme semplici e dirette.
Il suo nome è Georgij Valentinovič Plechanov.
Plechanov, insieme a Popov, faceva parte di coloro che erano rimasti più legati all’agitazione politica nelle campagne e che non avevano mai condiviso a fondo la scelta che, alla fine del 1877, porterà buona parte dell’organizzazione al ritorno nelle città.
Una parte, quest’ultima, che aveva continuato con azioni terroristiche fra cui vanno menzionati il tentativo di uccidere Alessandro II in febbraio e, nello stesso mese, l’uccisione del governatore di Charkov Kropotkin (cugino del celebre anarchico).
A marzo viene fondato un secondo giornale dell’organizzazione, Listok Zemli i Voli, che enfatizzava sempre più la tattica terrorista. La repressione, durante il 1879, diviene sempre più decisa.
Buona parte dei membri viene incarcerata e l’organizzazione territoriale di Kiev viene completamente smantellata. In aprile, di fronte all’attacco zarista, la parte “terroristica” costituisce un comitato esecutivo e un’organizzazione di natura prettamente militare: Svoboda ili smert (“libertà o morte”), mentre a giugno il gruppo si riunisce a Lipeck per chiarire programmaticamente le proprie intenzioni e prepararsi allo scontro con l’ala dei “campagnoli”, Plechanov e Popov.
A Lipeck, nelle decisioni in merito al programma, si legge:
“[…] nessuna attività diretta al bene del popolo è possibile, dato l’arbitrio e la violenza che regnano sovrani. Non esistono libertà di parola né libertà di stampa per poter agire con la persuasione. Perciò ogni uomo che voglia svolgere un’attività sociale avanzata deve innanzitutto mettere fine al regime esistente. Combattere contro di esso è possibile solo con le armi. Perciò combatteremo con i mezzi di Guglielmo Tell finché non avremo raggiunto quei liberi ordinamenti nei quali discutere senza ostacoli, nella stampa e in pubbliche riunioni, tutti i problemi politici e sociali, e risolverli per mezzo di liberi rappresentanti del popolo.”
“[…] Visto che il governo in questa lotta diretta contro di noi ricorre non soltanto alle deportazioni, al carcere e alle uccisioni, ma confisca anche i nostri beni, ci sentiamo in diritto di ripagarlo della stessa moneta, confiscando a favore della rivoluzione i mezzi che gli appartengono […]”.
Subito dopo l’incontro di Lipeck, si tenne il congresso clandestino dell’organizzazione.
Da una parte i “terroristi” di Michaijlov, dall’altra i “campagnoli” di Plechanov, che avevano ormai completamente abbandonato ogni idea relativa ad azioni militari.
Durante i lavori, Plechanov si trova in schiacciante minoranza, tanto da decidere di abbandonare il congresso. Questa decisione sblocca la situazione. I membri meno radicali trovano un compromesso con la parte radicale e maggioritaria, si coopta parte della minoranza all’interno degli organi decisionali, si riconferma il programma e si decide di attentare alla vita dello zar. Ma è un compromesso destinato a durare pochissimo. In settembre, di comune accordo, le fazioni si slegano l’una dall’altra e formano due organizzazioni differenti.
La parte militare e radicale si riunisce sotto il nome di Narodnaja Volja, mentre il gruppo più vicino a Plechanov forma Čërnyj Peredel: rispettivamente, la “Volontà del popolo”, che accentuava il carattere soggettivista della tattica del gruppo, e “Ripartizione nera”, che insisteva invece su un messaggio di agitazione politica verso i contadini per l’acquisizione completa delle terre che erano dovute dal processo di abolizione della servitù della gleba.
Narodnaja Volja rappresenta sicuramente l’organizzazione che ha più seguito da questa scissione. Il gruppo di Michaijlov procede a una strutturazione territoriale, avente come obiettivi i punti del programma dell’agosto ’79, cioè la conferma dell’impianto programmatico della disciolta Zemlja i Volja, di cui non rinnegheranno mai la continuità ideale, e l’uccisione di Alessandro II come azione decisiva di propaganda armata.
I tentativi per assassinare lo zar si succedono per tutto il periodo fine ’79 – 1880, ma senza successo, nonostante l’audacia: come il minamento della tratta ferroviaria che avrebbe portato lo zar dalla Crimea a San Pietroburgo nel novembre ’79, o il tentativo di far saltare in aria la sala da pranzo del Palazzo d’Inverno nel febbraio dell’80, dove lo zar riuscì a scampare all’esplosione che uccise 16 persone solo perché all’ultimo momento non si presentò.
Soprattutto dopo quest’ultimo tentativo, l’autocrazia zarista risponde con un’altra ondata di arresti, che portano alla cattura di Michaijlov — figura centrale per l’organizzazione — nel novembre del 1880. Le strutture passano sotto il comando di A. I. Zhelyabov e S. L. Perovskaja, incaricati di portare a termine le operazioni per l’assassinio di Alessandro II.
Il 27 febbraio 1881 Zhelyabov viene arrestato, ma nonostante questo, l’azione che porterà all’assassinio dello zar verrà portata a termine il 1º marzo 1881.
La mancata sollevazione dei contadini dopo l’uccisione dello zar e la conseguente, ennesima, stretta repressiva dissolvono in poco tempo Narodnaja Volja, che vedrà tentativi di ricostituzione nel periodo 1884–1887, ma che, però, data la situazione differente da un punto di vista politico e sociale, avranno vita sempre più effimera. Fra questi, il tentativo di Lopatin e quello della cosiddetta “Frazione Terrorista della Volontà Popolare”, quest’ultima animata, fra gli altri, da Aleksandr Il’ič Uljanov, fratello maggiore di Lenin.
Mentre Narodnaja Volja perseguiva la sua tattica, in un primo periodo Čërnyj Peredel, la “Ripartizione nera” di Plechanov, iniziava una pubblicazione, che vedeva fra i collaboratori e redattori le firme di Aptekman, Aksel’rod e Zasulič. Ma la pubblicazione del giornale venne bruscamente interrotta nel febbraio del 1880, quando la polizia fa irruzione nei locali di stampa a Pietroburgo, distruggendo copie e macchinari, in seguito alla delazione di uno dei membri secondari del gruppo.
Questo duro colpo, unito all’inizio di un acceso dibattito interno relativo all’importanza crescente della categoria operaia nella vita politica russa, fece prendere la decisione, da parte della “dirigenza” di Čërnyj Peredel, di espatriare in Svizzera. Da questo spostamento e dall’approfondimento degli scritti di Marx, nel 1883 verrà fondato il gruppo “Emancipazione del Lavoro”, uno di quei nuclei dirigenti che porteranno al primo congresso dei socialdemocratici russi a Minsk, nel marzo del 1898.
3. LO SVILUPPO DEL CAPITALISMO NELLA RUSSIA DI FINE OTTOCENTO
Prima di procedere a una spiegazione dell’analisi relativa allo sviluppo del capitalismo in Russia a cavallo fra XIX e XX secolo — argomento che già di per sé richiederebbe una trattazione relativa alla metodologia marxista correttamente impostata nello scandaglio di un contesto che fondamentalmente pone di fronte al tema dello sviluppo di un modo di produzione avanzato nella cornice di uno stato feudale — per la quale rimandiamo il lettore interessato allo studio prodotto da Lenin fra il 1899 e il 1900, sulla scorta delle argomentazioni critiche poste da Plechanov all’impostazione populista (poi social-rivoluzionaria), non possiamo prescindere da una veloce disamina della composizione demografico-sociale russa e dei suoi cambiamenti, avvenuti indicativamente fra il 1858 e il 1900.
Secondo gli ultimi studi demografici effettuati, nel 1858 nell’Impero Russo erano presenti 74 milioni di persone. Nel censimento ufficiale effettuato dalle burocrazie zariste nel 1897, la popolazione era di 128 milioni. Questo incremento demografico in quarant’anni ha ovviamente diverse cause che ne possono spiegare l’origine. Se in parte lo sviluppo del commercio e quello relativo ai primi vagiti del mercato interno hanno sicuramente contribuito — sebbene nelle forme e nelle proporzioni peculiari relative alla situazione dell’Impero Russo ottocentesco — all’incremento del dato demografico, bisogna però specificare che gli errori relativi alla raccolta dei dati nel periodo preso in esame (cioè fra il 1858 e il 1897) hanno sicuramente inciso sulla sottostima del conteggio individuale.
Fino al 1897, infatti, le metodologie e le finalità con cui gli apparati zaristi — da quelli polizieschi prima, agli Zemstvo poi, passando per i Volost e le Dume territoriali e cittadine — raccoglievano i dati si basavano su elenchi che rispondessero al conteggio di coloro che pagavano le tasse, escludendo così una buona parte degli individui. L’Obščina, infatti, pagava comunitariamente il dovuto al fisco: ciò implicava l’esclusione dai registri sia di molte classi alte, esentate dalla contribuzione, sia dell’immensa massa contadina, organizzata nelle Obščine, che ha sempre rappresentato la stragrande maggioranza della popolazione russa.
Nel 1861, ad esempio, è stato calcolato che l’abolizione della servitù della gleba avrebbe riguardato una massa di oltre 40 milioni di contadini. Il tutto, come già visto, su una popolazione di 74 milioni: una proporzione che appare comunque sottostimata, alla luce degli errori di calcolo appena menzionati.
Per fare una comparazione relativa a questa proporzione interna alla popolazione dell’Impero Russo, prendiamo il dato del 1900: i contadini sono 105 milioni, a fronte di una popolazione totale di 131 milioni. Praticamente, l’80% della popolazione era in vario modo impegnato nel lavoro nei campi.
L’agricoltura dell’Impero Russo, nella seconda metà dell’Ottocento, era prevalentemente estensiva e disponeva di poca tecnologia, benché la stratificazione sociale favorita dal capitalismo avesse introdotto — soprattutto nel periodo 1880–1900 — almeno nei possedimenti delle nuove grandi aziende capitalistiche agricole, metodi di lavorazione differenti da quelli tradizionali e in parte una meccanizzazione delle operazioni principali delle colture.
La divisione delle terre, favorita dall’architettura della riforma — come già accennato — rimase in mano, da una parte, alle solite classi possidenti e aristocratiche, dall’altra a nuove aggregazioni sociali che, con lo sviluppo del primissimo capitalismo, alzavano sempre più la testa: ricchi possidenti non nobili (che di lì a poco inizieranno a comprarsi il titolo) o membri dei ceti in fase di incubazione, come la piccola borghesia legata a lavori liberali, spesso legati a consorterie favorite dal paternalismo e dal clientelismo della struttura zarista.
Si creava, cioè, una situazione peculiare nella quale l’Impero Russo, pur essendo — per produzione e per composizione della popolazione — un paese eminentemente feudale, veniva maturando al suo interno, e in maniera sempre più veloce, una differenziazione sociale tipicamente capitalistica.
Come ben spiegato da Lenin, nello studio prima menzionato (Lo sviluppo del capitalismo in Russia):
- La situazione economico-sociale in cui si trovano oggi i contadini russi è l’economia mercantile. Anche nella fascia agricola centrale (che sotto questo riguardo è la più arretrata rispetto alle regioni periferiche sud-orientali o ai governatorati industriali), il contadino è completamente subordinato al mercato, dal quale dipende in quanto consumatore e in quanto produttore, oltre al fatto di esserlo come contribuente.
- Il sistema dei rapporti economico-sociali esistenti in seno alla popolazione contadina (agricoltori e membri dell’obščina) ci rivela l’esistenza di tutte le contraddizioni proprie di ogni economia mercantile e di ogni capitalismo: esiste concorrenza, lotta per l’indipendenza economica, accaparramento della terra (comperata e presa in affitto), concentrazione della produzione nelle mani di una minoranza; il fatto che la maggioranza venga spinta nelle file del proletariato e sfruttata dalla minoranza mediante il capitale commerciale e l’assunzione di salariati agricoli. Non si riscontra in seno alla popolazione contadina un solo fenomeno economico che non rivesta questa forma contraddittoria specificamente propria del regime capitalistico, che non rispecchi cioè la lotta e il contrasto di interessi e non si traduca in un vantaggio per gli uni e in uno svantaggio per gli altri. Così è sia per l’affitto, sia per l’acquisto di terra, sia per le “industrie” nei loro tipi diametralmente opposti; così è anche per il progresso tecnico dell’azienda.
Di fronte a questi dati, appare quindi chiaro come l’abolizione del 1861 abbia rappresentato l’accumulazione originaria della nascente borghesia russa e dell’apparato zarista che tentava di accompagnarne l’ascesa. Questo processo, già di per sé evidente a Lenin nel momento in cui affronta la cosiddetta “disgregazione della popolazione contadina”, è ancora più evidente in relazione allo sviluppo dell’industria siderurgica e tessile, di quel nucleo industriale che, sviluppandosi, darà vita alla classe operaia industriale russa.
Fra il 1887 e il 1892 il ministro delle Finanze Ivan Vyšnegradskij puntò sulla costruzione delle infrastrutture ferroviarie per innalzare la produzione di ferro e acciaio e stimolare la produzione e l’immensa potenzialità mineraria. Si propose di aumentare le esportazioni di grano per garantire almeno in parte il finanziamento necessario. Questa prima azione può essere considerata l’inizio della fase più intensa della prima industrializzazione dell’Impero Russo, dato che effettivamente una piccola industria estrattiva era già presente in precedenza, negli Urali, dai primi decenni del XIX secolo, anche se poi entrò in crisi per l’adozione, da parte dell’industria metallurgica inglese, di nuove tecniche di lavorazione dei metalli.
È però grazie al successore di Vyšnegradskij, cioè Sergej Witte, che lo stato zarista decise di impegnarsi definitivamente nel raggiungimento di un’industria in grado quantomeno di essere accostata a quelle occidentali, indubbiamente più avanzate. L’ampliamento delle linee ferroviarie (ancora insufficienti, chiaramente, rispetto alla grandezza dell’Impero e ancora ovviamente strutturate per soli fini produttivi, ricalcando quindi le strutturazioni infrastrutturali che saranno poi tristemente note in ambito coloniale) dà una spinta alle estrazioni minerarie, che in questa fase si spostano più a sud. È infatti in questo periodo che acquisterà importanza l’area del Donbass e delle sue miniere.
Il fatto poi che, nel 1897, il governo zarista decise di adottare il sistema aureo garantì un buon afflusso di investimenti destinati allo sviluppo industriale: investimenti che erano principalmente britannici e francesi, anche se c’era una considerevole presenza tedesca che, pur essendo assolutamente tollerata, indispettiva parte dell’opinione di corte e dell’élite per questioni di geopolitica e predominanza nell’Europa dell’Est. È da qui che nasce il processo che porterà lo zar a legarsi in particolar modo ai capitali stranieri (francesi e inglesi in testa) fino ad arrivare a una quota di investimenti esteri che, appena prima dello scoppio del primo conflitto mondiale, rappresentavano il 41% del totale degli investimenti industriali e bancari.
Questo processo produsse, come prima accennato, la formazione della classe proletaria russa.
Essa derivava appunto dal processo di accumulazione originaria, che aveva portato i contadini al bracciantato e a prestazioni semigratuite per ripagare il danno subito dai vecchi proprietari durante la riforma.
Le prime figure operaie sono, in parte, stagionali, considerando che il contadinato, e la fortissima spinta all’immigrazione interna data dall’accumulazione originaria, si spostava nei centri urbani dove effettivamente sorsero le prime industrie (ad eccezione di parte delle industrie tessili, che ebbero la peculiarità di spostarsi direttamente vicino al contadinato), per poi tornare ai villaggi nei momenti in cui il lavoro era più gravoso — un processo simile a quanto avvenne in Italia, soprattutto nella parte più agricola della penisola, cioè il Sud, in particolar modo nell’area calabrese.
La presenza operaia, però, benché indubbiamente minoritaria rispetto all’immensa quota di contadini (da cui peraltro derivava direttamente), si consolidò in maniera stabile in tutta la seconda metà dell’Ottocento.
Nel 1890 il numero degli operai era di 1 milione e 400 mila, principalmente impiegati nell’industria tessile, che fu uno dei primi grandi traini dell’industrializzazione russa.
Nel 1900, cioè dieci anni dopo, il numero era salito a 2 milioni 373 mila 400, un incremento del 66,6%.
Un dato che non poteva che incuriosire i vari teorici e dirigenti rivoluzionari, i quali, sulla scorta delle prime dimostrazioni operaie avvenute proprio nel decennio 1890–1900, si sposteranno con sempre maggiore decisione verso il marxismo, abbandonando le teorie populiste e iniziando a fondare circoli operai nei maggiori centri industrializzati presenti all’interno dell’Impero zarista.
Il marxismo arriva nell’impero zarista: le basi del bolscevismo
Durante la stagione populista, il dibattito politico radicale era caratterizzato dalla cultura politica rivoluzionaria occidentale, dalle forme giacobine delle rivoluzioni borghesi alle forme di socialismo utopistico.
Marx, in questi anni, non è sconosciuto alle personalità più importanti della politica rivoluzionaria populista, di qualsiasi tendenza, ma non si può parlare di una conoscenza degna di nota del pensiero marxista almeno fino al 1872, quando German Aleksandrovič Lopatin — che abbiamo già incontrato come rivoluzionario attivo fra la fine degli anni ’60 e la fine degli anni ’80 — pubblica a Pietroburgo la prima traduzione russa de Il Capitale.
Una traduzione che sicuramente fu fra le fonti iniziali a disposizione di Plechanov, che dopo aver concluso, nel 1880, il suo percorso in Čërnyj Peredel, iniziava una critica serrata dei punti fondamentali della teoria populista.
Con Le nostre divergenze e Sul problema dello sviluppo della concezione monistica della storia, rispettivamente del 1884 e del 1895, Plechanov delinea, nell’arco di tempo che va dal 1883 — anno di fondazione di Emancipazione del lavoro — al 1900, una struttura teorica più propriamente materialista, arricchita dalle sue conoscenze in ambito filosofico, sia dell’idealismo tedesco, sia riguardo alle questioni scientifiche e al pensiero greco, ponendo le basi teoriche per lo sviluppo del marxismo in Russia.
Del resto, a partire dall’ultimo decennio del XIX secolo, le condizioni di vita del proletariato industriale russo, che aveva visto un incremento vertiginoso in termini numerici, diventavano insostenibili, tanto da non riuscire a contenere esplosioni di rabbia collettiva, nonostante qualche flebile misura presa dalle autorità zariste.
I primi circoli operai dei centri industriali, i primi che possiamo descrivere come degni di nota — non includendo quindi le forme già incontrate, come nel caso dei gruppi operai delle varie confederazioni del sud orbitanti attorno al centro di Kiev — sorgono in questo periodo, organizzando la lotta per condizioni di lavoro migliori. In questo genere di manifestazioni, si svilupparono i primi gruppi che intendevano portare un messaggio politico al proletariato operaio, gruppi formati da personalità appartenenti a ceti sociali più elevati, ma che conducevano un’agitazione politica nei luoghi di lavoro.
A Pietroburgo, la polemica contro il populismo — ormai divenuto principalmente liberale e riformista dopo la stagione a cavallo fra gli anni ’60 e ’80 del XIX secolo — formò vari circoli con queste caratteristiche, come l’organizzazione socialdemocratica di Brusnev, un gruppo di cui facevano parte anche personalità che poi andranno a formare l’“Unione di Lotta per l’emancipazione della classe operaia” nel 1895.
Questa formazione nacque dall’unione di due compagini: il gruppo di Brusnev, in cui Lenin si ritagliò, già ventenne, un ruolo di leadership, e quello dei militanti di Vilnius di base a Pietroburgo, capeggiati da Julij Osipovič Martov.
L’Unione di Lotta si occupò della pubblicazione illegale di materiale propagandistico e teorico, ma soprattutto organizzò politicamente gli scioperi presso gli stabilimenti Semyannikov — la più antica società energetica russa — nel dicembre del 1894, e del porto di Pietroburgo nel febbraio del 1895. L’Unione, infatti, benché formalmente nata alla fine del 1895, era un coordinamento già in funzione, legato alle varie lotte condotte dal proletariato di Pietroburgo nei luoghi di lavoro e nei vari ambiti produttivi del primissimo capitalismo industriale russo.
In questa stagione di lotte, nel novembre del 1895, avviene la fondazione formale di questo coordinamento, che aveva già preso contatti non solo con altri gruppi simili in città come Mosca, Vilnius, Kiev, Ekaterinoslav, ma anche con i gruppi all’estero, come Emancipazione del lavoro di Plechanov, allora considerato il massimo rappresentante del marxismo russo, sebbene esule in Svizzera con la maggioranza della redazione della vecchia Čërnyj Peredel (Aksel’rod, Zasulič).
Nel 1896, quando buona parte della dirigenza dell’Unione di Lotta, compreso Lenin, era già agli arresti per agitazione nei luoghi di lavoro, il gruppo di Plechanov rappresentò la voce di queste lotte al IV congresso della II Internazionale, mentre a Pietroburgo ciò che rimaneva del coordinamento, guidato da Martov, organizzava l’agitazione politica nell’ondata di scioperi che coinvolse il comparto tessile a metà anno. Gli arresti che colpirono il coordinamento in agosto, seguiti dalla decisione dell’apparato zarista — nel febbraio del 1897 — di confinare in Siberia gli arrestati politici marxisti, non fermarono il processo di unione, che nel marzo del 1897 si pronunciò per l’aggregazione di tutti i gruppi marxisti sotto la sigla di “Unioni di Lotta” e per l’impegno alla convocazione di un congresso che sancisse la nascita del Partito Socialdemocratico.
Così, nel marzo del 1898, a Minsk, i rappresentanti dell’Unione di Lotta per l’emancipazione della classe operaia, del Bund (l’associazione dei lavoratori ebrei di Russia e Polonia), e due rappresentanti del “Giornale del lavoratore di Kiev” tengono il primo congresso del “Partito Socialdemocratico Russo del Lavoro”. Ma, ancora prima della fine dell’anno, tutti e nove i delegati vengono colpiti da un’ondata di arresti indirizzati contro quel movimento che era riuscito, nel giugno dell’anno prima, a ridurre la giornata lavorativa a 11 ore, sull’onda dell’agitazione che aveva coinvolto più di 30.000 operai del comparto tessile, come già ricordato.
Del resto, il manifesto del congresso — scritto da Pëtr Bernardovič Struve — si ricollegava alla sollevazione del ’48, ma con caratteristiche russe: cioè avvenuta cinquant’anni dopo, data l’incapacità della borghesia russa di portare a termine la lotta per la democrazia, compito che ora — per quello che può essere considerato l’unico documento ufficiale del I Congresso — doveva essere svolto dal proletariato industriale. Un documento, questo, che non chiariva i modi in cui questo cambiamento radicale sarebbe dovuto avvenire, dimostrando più che altro le concezioni di Struve, cioè quelle di un intellettuale borghese formatosi nella stagione del populismo liberale e riformatore, e che aveva aderito al marxismo perché intellettualmente convinto dell’inevitabilità del processo descritto da Marx.
Struve sarà infatti il più grande esponente dei cosiddetti “marxisti legali” o “legalisti”, che incontreremo fra poco. Dopo la distruzione della prima rete per un’effettiva trasmissione delle decisioni prese dai delegati, Lenin, dopo essere arrivato a fine pena nel 1900, si reca in Svizzera, dal gruppo di Plechanov, dove verrà presa la decisione di pubblicare due riviste: la prima, dedicata alla sola agitazione politica, chiamata “Iskra”, e la seconda, dal taglio più teorico, denominata “Zarja”. Nel comitato di redazione sono rappresentati il gruppo di Plechanov, con Zasulic e Akselrod, e l’Unione di Lotta, con Lenin, Martov e Potresov.
La decisione di fondare ben due giornali aveva come implicazione l’impegno di attivarsi per preparare un secondo congresso.
Si può vedere sotto questa luce la produzione letteraria apparsa in queste pubblicazioni, dove si iniziarono a delineare le concezioni tattiche e organizzative del partito. Sotto questo punto di vista possiamo individuare tre grandi polemiche che vennero espresse dalle penne principali delle due pubblicazioni.
Partiamo dal confronto con i Narodniki, cioè le concezioni populiste eredi della stagione fra i ’60 e gli ’80 dell’Ottocento. Come prima abbiamo visto, da questo ambito era partito Plechanov per distaccarsi dalla sua vecchia casa politica, già almeno dal biennio 1883-1884 con l’articolo prima menzionato “Le nostre divergenze”. È sulla scorta di questi studi che Lenin continua l’opera di critica alle concezioni politiche populiste, la cui opera più importante in questo periodo è l’imponente studio “Lo sviluppo del capitalismo in Russia”, preparato in esilio in Siberia e portato a termine a cavallo fra il 1899 e il 1900. In questo studio Lenin, dopo aver spiegato attraverso i dati economici a disposizione lo sviluppo di un’economia di mercato che aveva prodotto, con l’innesto dell’industria, una stratificazione nella massa contadina che delineava la nascita di una società capitalista che soppiantava l’obščina, attaccò la teoria populista dei mercati, dimostrando la nascita del mercato interno strettamente collegato a quello esterno, che invece i populisti mettevano in contraddizione. Questo lavoro fu la base per le critiche successive apparse su “Iskra”, che tendevano appunto a dimostrare che la classe modale per eccellenza, proprio come dichiarava Marx, era il proletariato industriale e non il contadinato incentrato nell’organizzazione sociale primordiale dell’obščina.
Le altre due polemiche furono contro i “marxisti legali” e quella contro gli “economisti”. I marxisti legali, che come capofila avevano il già menzionato Struve, erano un gruppo di intellettuali borghesi che avevano appreso e propagandato il marxismo durante la stagione governativa di Witte, quando venivano tollerati dall’autorità, che considerava ancora i Narodniki i principali avversari, e ben accolti da una borghesia a corto di strumenti intellettuali, che vedeva nella descrizione del processo di rivoluzione sociale di Marx una fase in cui la classe borghese rappresentava la spinta al progresso. Il marxismo legale pensava che non poteva esservi alcun cambiamento senza la vittoria delle forze borghesi e l’instaurazione di una società capitalista, un qualcosa riconosciuto anche dai redattori dell’Iskra, fra cui Lenin.
L’accentuare però questo aspetto da parte dei legalisti portò questi su posizioni riformiste che dichiaravano, come direzione dell’azione, un appoggio alla borghesia per l’instaurazione della democrazia borghese come condizione indispensabile per la lotta del proletariato.
Lenin su questo non poteva essere d’accordo: non poteva cioè rinunciare al lavoro di agitazione socialista nel proletariato che definisse una strategia autonoma, e non di incondizionato appoggio al padrone futuro, come desideravano i circoli più vicini a Witte, il ministro delle finanze impegnato nell’instaurazione di un sistema produttivo russo moderno. Ai marxisti legali verrà dedicata una piccola parte iniziale del “Che fare?” (che prende a prestito il titolo del più politico e noto fra i romanzi di Černyševskij), pubblicato nel 1902. In questo studio per una proposta di organizzazione del partito che si sarebbe voluto costituire, il principale avversario però è la corrente “economista”.
Gli economisti, a differenza dei marxisti legali, erano agitatori impegnati nelle lotte di avanguardia del proletariato industriale, avevano cioè un rapporto diretto con la classe operaia.
Questi, sulla scorta delle stagioni di lotta degli anni ’90, avevano sviluppato una visione nella quale l’organizzazione si sarebbe dovuta sviluppare come una sorta di sindacato potenziato, dove le lotte per il miglioramento delle condizioni economiche e di lavoro erano rigorosamente staccate dalle rivendicazioni politiche, delle quali dovevano occuparsi gli intellettuali, ma perseguendo le politiche borghesi, le uniche possibili, secondo questa corrente, nella situazione concreta russa. Come scritto nel documento che poi verrà soprannominato “Il Credo”:
“Per i marxisti russi c’è un’unica via d’uscita: sostenere la lotta economica del proletariato e partecipare all’attività dell’opposizione liberale.” Lenin criticò questa impostazione riferendosi all’intreccio indissolubile fra la lotta politica per la democrazia e la lotta del proletariato per la rivoluzione socialista. Sebbene tutti concordassero sull’inevitabilità della fase borghese, Lenin, mantenendo un’indipendenza nella propaganda e nell’azione del e nel proletariato, affermava che l’incapacità della borghesia russa, come quella tedesca del 1848, di conquistarsi le libertà politiche avrebbe condotto il proletariato a ricoprire il ruolo di avanguardia in questa lotta, rendendo sempre più necessaria una democrazia di operai e contadini, prodromo della dittatura del proletariato. Questa impostazione portò Lenin a criticare l’eccessiva fiducia programmatica degli economisti nella spontaneità, cioè nella concezione che una crescita graduale del movimento, basata su rivendicazioni economiche e di riforma, costituisse il modo per costruire il soggetto che poi, a condizioni capitaliste pienamente realizzate, sarebbe diventato lo strumento per la lotta del proletariato contro la borghesia, a quel punto al comando.
Al contrario Lenin, con l’appoggio dell’opera di Plechanov, intendeva incentivare il concetto di consapevolezza, cioè l’azione che doveva distinguere l’appartenente al partito: non un semplice sindacalista, ma un tribuno del popolo. Il proletariato deve agitarsi non solo per le questioni prettamente sindacali, ma anche e soprattutto per quelle politiche, essendo la lotta di classe sempre lotta politica, un campo quest’ultimo dove il proletariato, insieme al partito, rappresenta una salda ed agguerrita avanguardia. Questa impostazione in ambito tattico esprimeva ed introduceva quella che sarebbe diventata la questione principale, quella relativa alle concezioni organizzative. Queste vennero espresse attraverso due proposizioni.
La prima, che puntava sull’importanza della teoria, si può riassumere con la citazione contenuta nel “Che fare?”: “Non può esservi movimento rivoluzionario senza teoria rivoluzionaria”.
Partendo dallo studio concreto della provenienza sociale dei dirigenti più in vista della politica socialdemocratica, Lenin spiegò come la sola classe proletaria fosse in grado di organizzarsi a livello sindacale, ma che la coscienza politica, tutte quelle teorie che prendevano a piene mani dalla scienza e dalla filosofia, erano arrivate dal ceto intellettuale che, per posizione sociale, stava al di sopra e al di fuori del proletariato. È il periodo in cui Lenin si sforza di far notare come la fossilizzazione della letteratura di classe su questioni prettamente sindacali fosse deleteria per il movimento operaio, e dove l’attenzione per le deviazioni della teoria marxista veniva posta con ancora più forza, poiché si capiva che la spontaneità e l’ampiezza del movimento operaio russo avevano portato indubbiamente il marxismo nell’impero zarista, ma ciò implicava anche la presenza di vari elementi teorici e politici opportunisti, sui quali la saldezza della teoria doveva costantemente vigilare.
Quest’ultimo aspetto introduceva alla seconda proposizione, che vedeva l’affermazione di un partito di professionisti, dei veri e propri rivoluzionari di professione, operando così una netta divisione fra la classe, che era una categoria economica, e il partito, cioè un’entità politica.
Una divisione, questa, che molti fra gli economisti (ad esempio Martynov) non consideravano legittima per un partito operaio, e che generò in questi la convinzione che Lenin (ed in parte progressivamente minore Plechanov) fosse affetto da una deviazione blanquista, un’impostazione che già aveva avuto un ruolo nell’influenza di varie formazioni radicali russe, anche nella stagione populista della seconda Zemlija i Volja.
Lenin rispose a queste critiche ricordando che il lavoro dei rivoluzionari di professione, per come prospettato in queste fasi preparatorie del II congresso, doveva essere indissolubilmente legato alla pratica, al rendersi sempre più in grado di organizzare i presidi e l’agitazione politica in tutte le parti del proletariato (e non solo) dove si esprimevano insofferenze per il potere costituito, tirandosi quindi fuori dal cospirazionismo blanquista, che vedeva nelle azioni terroristiche compiute da un piccolo gruppo di rivoluzionari completamente staccati dalla massa l’azione decisiva per spingere in avanti il movimento nella sua interezza.
Queste due proposizioni formeranno quindi quel nucleo di convinzioni teorico-pratiche che faranno decidere per un partito che tende ad escludere più che ad includere militanti, almeno in questa fase: un partito che si poneva agli antipodi delle concezioni pienamente o più vicine agli economisti, che invece lo consideravano come una casa allargata, un’organizzazione prettamente di massa, in linea con le implicazioni teorico-tattiche che in questa prima fase di preparazione al II congresso si erano scontrate con le prime, e che rappresentano la fase embrionale della divisione fra maggioranza e minoranza, fra bolscevichi e menscevichi.
Il II congresso: la nascita del bolscevismo
Questo lavoro di preparazione del congresso, portato avanti dai redattori dell’Iskra fra il 1900 e i primi mesi del 1903, rese possibile la convocazione effettiva prima a Bruxelles, poi, per paura di retate, a Londra, nel luglio e nell’agosto del 1903, del II Congresso del Partito Social Democratico Russo del Lavoro. Il congresso era composto da 25 organizzazioni socialdemocratiche aventi ciascuna due voti, con l’eccezione del Bund che poteva disporne di tre in virtù dello status di sezione autonoma del partito, status che era riuscito ad ottenere durante i lavori del primo congresso. La discussione può essere schematizzata in due ambiti: quello relativo al programma e quello relativo allo statuto.
Partendo dal programma, in fase di preparazione, il dibattito aveva visto una prima schermaglia fra Plechanov, più incline a comprendere all’interno del partito visioni politiche che comunque affondavano le loro radici nel contesto storico-politico russo, attento a ricordare prudenza nella preparazione della rivoluzione, e Lenin che invece, mosso dalla foga polemica contro le deviazioni, manteneva un atteggiamento inconciliabile contro ogni forma di concessione teorica su queste questioni fondamentali. Il programma si apriva con la considerazione che i rapporti di produzione della situazione concreta russa tendevano ad essere incompatibili con ogni forma di progresso. Le contraddizioni scatenate portavano all’ampliarsi dei focolai di lotta, che, nel quadro di un aumento esponenziale (quantitativo e qualitativo) dell’industria capitalistica inquadrata però in uno stato assolutista, aumentava la possibilità di rovesciare i rapporti di produzione per terminare lo sfruttamento di una classe sull’altra.
La conquista del potere politico, indispensabile per il raggiungimento di un rivolgimento sociale da parte del proletariato, introduceva per la prima volta il concetto della “dittatura del proletariato” in un programma di partito.
Per scrivere un programma alle cui spalle giacevano anni di discussioni inerenti alle fasi descritte da Marx riguardo la rivoluzione, cioè per riconoscere l’importanza delle componenti borghesi avanzate nella prima fase della lotta all’assolutismo, furono redatti tre gruppi di richieste. Le richieste politiche si concentravano sul suffragio universale, la libertà di riunione e di associazione, quella di parola e quella di coscienza, l’istruzione gratuita.
Quelle relative agli operai puntavano sulla riduzione della giornata di lavoro a otto ore, sul divieto del lavoro minorile, sulla limitazione di quello femminile, sulle assicurazioni statali riguardo la vecchiaia e gli infortuni. Il terzo gruppo era costituito dalle richieste dei contadini, quella classe che dalla stratificazione sociale portata dal capitalismo aveva visto nascere una differenziazione fra medio-alta borghesia e bracciantato o piccolissima proprietà privata, che per mediazione di Lenin erano state ammesse nel programma, cioè quel gruppo di richieste relative alle terre ingiustamente sottratte a questi ultimi nell’atto di emancipazione.
Il programma passò quasi all’unanimità.
Ma quando si passò alla discussione sullo statuto, le differenze incominciarono a manifestarsi. Riguardo ai criteri relativi all’ingresso nel partito ci furono due proposte. Da un lato quella di Lenin, più restrittiva: “Membro del partito è colui che ne accetta il programma, e sostiene il partito sia materialmente sia con la sua personale partecipazione all’attività di una delle sue organizzazioni.”Dall’altro quella di Martov, più incline all’ampiezza: “Membro del Partito Operaio Socialdemocratico Russo è colui che ne accetta il programma, e sostiene il partito sia materialmente sia mediante una regolare cooperazione, svolta sotto la guida di una delle sue organizzazioni.”
Come prima accennato, da una parte una concezione che vedeva il partito come un gruppo ben organizzato di rivoluzionari di professione, di tribuni del popolo; dall’altra la concezione di un partito più largo, che accettava di avere al suo interno elementi che avevano con esso un semplice rapporto di collaborazione, tipico del localismo della lotta economista dei circoli operai della prima ondata di lotte. Se Lenin insisteva quindi sulla preparazione, il valore e la disciplina dei quadri, Martov (ed Akselrod), pur non rinunciando a questo aspetto, dichiaravano che incentivando solo questa parte, non dando spazio ai simpatizzanti, il partito non avrebbe avuto senso, ponendo così una differenza teorica fra il partito e l’organizzazione.
Nella votazione vinse la mozione di Martov, appoggiato da Akselrod (e da Trockij), mentre Lenin venne appoggiato senza troppa convinzione da Plechanov. Questa prima differenza fu alla base della divisione, destinata ad acutizzarsi progressivamente, fra iskristi “molli” e “duri”, prodromo della divisione fra menscevichi e bolscevichi.
Dopo questa votazione si decise abbastanza velocemente riguardo all’organo centrale del partito, preposto alla vigilanza e all’elaborazione tattica da parte della redazione dell’Iskra, del comitato centrale con compiti di coordinamento delle realtà locali e del consiglio di partito, formato da cinque membri, due per ogni organo precedente e uno eletto al congresso, a cui si dava una cadenza di due anni.
Ma è dopo questa serie di decisioni che il congresso prende una piega inaspettata, che avrà conseguenze profonde sulla vita delle organizzazioni presenti negli anni a seguire.
La maggioranza che aveva consentito a Martov di vincere all’apertura della discussione sullo statuto era formata da un gruppo di iskristi, dal Bund e da quelle organizzazioni socialdemocratiche che non avevano avuto contatti diretti con l’Iskra, nella quale Lenin, con l’appoggio sempre più dubbioso di Plechanov, manteneva ancora una maggioranza.
Le discussioni finora sviluppate portarono quindi alla definizione dei rapporti fra il partito e le associazioni all’estero.
Sotto questo punto di vista, la prima questione da esaminare era quella dello status speciale che il Bund aveva ottenuto al primo congresso. Con una maggioranza schiacciante si decise per la revoca di questa decisione, esprimendo la volontà di compattare effettivamente il partito.
A fronte della sconfitta alla votazione, i delegati del Bund decisero di abbandonare il congresso, assottigliando così la “maggioranza di Martov”.
Quando poi, conseguentemente, si procedette alla decisione di quella che doveva essere l’unica associazione estera riconosciuta, la contrapposizione fra la Lega della Socialdemocrazia Rivoluzionaria (praticamente un’emanazione dell’Iskra) e l’Unione dei Socialdemocratici Russi all’Estero, i cui delegati erano Akimov (l’unico a votare contro il programma) e Martynov, che vide vittoriosa al voto la prima, portò i delegati dell’Unione ad abbandonare a loro volta i lavori, lasciando Martov in una minoranza de facto.
Arrivati a questo punto, dovendo decidere la composizione degli organi del partito, sulla quale in via preliminare, prima del congresso, gli iskristi erano tutti d’accordo in merito a una composizione a tre riguardo la direzione dell’Iskra e a uno stretto controllo del comitato centrale sui presidi locali, l’opposizione di Martov divenne implacabile e il suo gruppo, cooptato nell’organo principale attraverso l’elezione del loro capo alla redazione del giornale insieme a Lenin e Plechanov, decise di smettere di partecipare alle votazioni dopo la rinuncia dell’incarico da parte di Martov, che criticava Lenin reo di aver “assediato il partito”.
Il comitato centrale eletto risultò quindi composto completamente da iskristi duri, mentre Plechanov veniva eletto presidente del consiglio di partito.
Da questo momento si può propriamente parlare di bolscevismo (cioè la maggioranza vittoriosa al congresso) e menscevismo (la minoranza sconfitta). Abbiamo più volte fatto riferimento, nella cronaca del II congresso, alla progressiva riluttanza che caratterizzava le decisioni di Plechanov di fronte allo svolgersi concitato dei lavori. Questa riluttanza esplose definitivamente nei mesi successivi alla chiusura del congresso, quando Plechanov, messo di fronte al dato di fatto di dover rompere con i vecchi compagni di una vita (nel gruppo di Martov erano presenti Akselrod e la Zasulic), aprì a un ricongiungimento, irriducibilmente osteggiato da Lenin, che si faceva ormai unico garante, fra le personalità più importanti, della linea dura dell’Iskra, la depositaria dei voleri della maggioranza uscente dal II congresso.
Attorno alla fine del 1903 Lenin aveva già rassegnato le dimissioni dall’incarico di redattore dell’Iskra, mentre Plechanov, dopo aver richiamato i suoi vecchi compagni, li riammette in redazione, trasformando l’organo centrale del partito in un organo menscevico.
Con questi presupposti, il 1904 si caratterizzerà per una serie di polemiche nate sulla lunga onda delle vicende congressuali (che coinvolgono anche Luxemburg e Kautsky, ma sulle quali, non potendo dilungarci, rimandiamo agli studi di Edward Hallet Carr, fonte fondamentale per le ricerche occidentali sul bolscevismo), che specificano ancora di più i tratti distintivi delle rispettive concezioni pratico-teoriche che contraddistinguono la differenza fra bolscevismo e menscevismo.
Dalla rivolta del 1905 alla prima guerra mondiale: la nascita dei soviet e le nuove condizioni operative
Lo sviluppo “a passo forzato” del capitalismo in Russia portava con sé una direzione nella politica estera da parte dello stato zarista che puntava a un’acquisizione progressiva delle fonti e dei corridoi che potevano sviluppare ulteriormente il volume degli scambi.
In questa direzione strategica si mosse lo zar quando decise di rivolgere le attenzioni sui territori estremo-orientali, mettendosi in competizione con il Giappone dell’imperatore Meiji, confronto che sfociò fra il febbraio del 1904 e il settembre del 1905 nella guerra russo-giapponese per il controllo della Corea e della Manciuria. L’andamento disastroso della guerra e la conseguente sconfitta influirono su movimenti di protesta spontanea che iniziarono nel gennaio del 1905, quando un’imponente manifestazione di 150 mila persone, capeggiata dal pope Georgij Gapon, cioè il capo dell’Assemblea degli operai russi di fabbrica ed officina (di fatto un circolo legalmente approvato dalle autorità poiché privo di caratteristiche propriamente sindacali), viene prima caricata dai reparti cosacchi durante le fasi del concentramento e poi fucilata dai reparti dell’esercito zarista in due occasioni, presso la porta della Narva e nella piazza antistante al Palazzo d’Inverno a Pietroburgo.
La società russa ne esce sconvolta, e il movimento operaio, che in quella occasione era cresciuto sull’onda degli scioperi fra la fine del 1904 e l’inizio del 1905 legati all’andamento disastroso della guerra estremo-orientale, si univa a un ceto intellettuale disgustato dalla guerra e dalla reazione del regime. Per tutto il 1905 si registrano rivolte contadine e scioperi per motivazioni politiche in continua crescita, tanto da contemplare aumenti numerici assoluti delle dimostrazioni e della grandezza numerica di queste, di dieci volte superiori rispetto ai primi mesi dell’anno.
Di fronte a questa situazione concreta, il gruppo di Lenin era indubbiamente quello più debole da un punto di vista di contatti e possibilità organizzative. Nonostante questo, nell’estate del 1905, i bolscevichi convocarono un Congresso, il III (la cui legittimità è riconosciuta solo da questa componente), dove chiarirono il loro posizionamento di fronte agli avvenimenti in corso in Russia, che vedevano una crescente pressione dei movimenti dal basso che, sorgendo spontaneamente, mettevano in difficoltà uno zar in crisi per via delle vicende belliche.
Questi movimenti spontanei portarono alla nascita dei Soviet, assemblee dei deputati dei lavoratori che, in maniera più o meno organizzata, costituivano gli organi diretti degli scioperanti.
Il succedersi degli eventi aveva colto di sorpresa un po’ tutti e i menscevichi si ritrovarono con maggioranze nei Soviet enormi (come quello di Pietroburgo), mentre i bolscevichi rimasero tutto sommato minoritari in questa prima esperienza assembleare, tanto che lo stesso Lenin fu inizialmente molto cauto nel definire la natura di questi organi, probabilmente perché sentiti come rivali, data la maggioranza menscevica. Fatto sta che l’accelerazione degli avvenimenti, che aveva portato i militanti a una lotta sul campo, all’interno delle dimostrazioni, fece sì che questi si distaccassero sempre di più dalle questioni che dividevano i gruppi dirigenti nello svolgersi della contingenza, un qualcosa che impose una ricomposizione de facto che cristallizzava le vecchie differenze, così come le nuove, sorte rispettivamente per i bolscevichi nel III Congresso e per i menscevichi riunitisi in risposta in un convegno a Ginevra.
Del resto, dopo le imponenti sollevazioni di ottobre, lo stato zarista aveva accusato il colpo e aveva concesso la Costituzione e la convocazione della I Duma, che, dando più libertà ai movimenti di protesta, aveva fatto crescere l’impazienza operativa della base, che chiedeva a una dirigenza mediamente in ritardo un lavoro unitario e sicuro. Il teatro politico russo attraversava infatti, in quel primo quinquennio del XX secolo, un’ondata di formalizzazione delle fazioni e delle correnti scaturite dal dibattito complessivo attorno alle questioni delle libertà politiche, che definiva le varie appartenenze di classe in nuove sigle e partiti, rinfocolati dai fatti del 1905.
In questo periodo infatti assistiamo alla nascita del partito “Democratico-Costituzionale” (ottobre 1905), meglio noto come Partito dei Cadetti, cioè la formazione che esprimeva l’ideologia che caratterizzava il Movimento Liberale Zemstvo, l’unione cioè di quegli interessi di classe che venivano rappresentati in questa assemblea censitaria per l’autogoverno delle città, introdotta per decreto nel 1864, tre anni dopo l’abrogazione della servitù della gleba.
Il fatto che le proteste arrivarono a preoccupare seriamente le strutture zariste rese chiaro alla classe di coloro che possedevano la terra che non sarebbe stato più possibile esercitare i propri interessi al di fuori delle forme partitiche, che avevano caratterizzato il percorso di altri soggetti più radicali come quello dei socialisti rivoluzionari.
Il Partito Socialista Rivoluzionario nacque nell’agosto del 1902 ed era il diretto erede dell’esperienza rivoluzionaria del biennio 1860-1880, il depositario teorico e pratico di Narodnaja Volja. Una filiazione che coerentemente si espresse anche nei suoi aspetti militari, considerando che il PSR sviluppò al suo interno un’organizzazione autonoma ma interna al partito, l’“Organizzazione di combattimento del PSR”, attiva fra il 1902 e il 1911.
Questi veloci e parziali esempi condensano una scena politica che, come detto, mette il proletariato e le sue organizzazioni nella condizione di una direzione unitaria che porta alla ricomposizione di due correnti che però rimarranno ostinatamente distinte. Nell’aprile del 1906 si tiene il “Congresso dell’unità”, che successivamente verrà denominato, non senza riserve mensceviche, il IV Congresso. Le promesse che lo zar era stato costretto a concedere sembravano in quel momento ancora salde, e probabilmente questo giocò ulteriormente nel processo di unificazione in corso, che comunque aveva già portato a una collaborazione pubblicistica con l’esperienza del “Severnyj Golos”.
Nel 1907, a Londra, si svolse il V Congresso, dove l’equilibrio di forze, con le parti mensceviche non presenti al III Congresso e il gruppo di Trockij a farne da garante, risultò comunque accettabile per un’unità che venne poi riconfermata a Parigi, in una conferenza tenutasi nel dicembre del 1908, quando in Russia le promesse dello zar si erano già ampiamente trasformate in repressione, grazie alle azioni di Stolypin.
In questo periodo però, nella produzione letteraria e teorica, non smisero di manifestarsi quelle caratteristiche che contraddistinguevano le due correnti, esprimendo quindi quei concetti che caratterizzavano la forma che si voleva dare al partito. Lenin, nel 1908, interviene in una polemica interna alla maggioranza riguardo certe teorie sull’impostazione metodologica, che avevano visto figure come Bogdanov fra i maggiori promotori, e che, concedendo campo all’idealismo sotto un punto di vista teorico, arrivavano a deviazioni nel campo pratico, come per quanto riguarda la questione relativa al boicottaggio della Terza Duma. Con Materialismo ed empiriocriticismo, Lenin liquida questa deviazione di sinistra, mentre il quadro politico interno al partito si sfuma sotto l’influenza della reazione zarista, in un pulviscolo di posizioni intermedie che garantiranno, suo malgrado, al Partito Socialdemocratico russo un’unità formale che durerà fino al 1912. Come detto, la discussione non cessa, anzi si fa serrata, soprattutto alla luce degli avvenimenti del 1905. Era chiaro infatti, a tutti i rappresentanti più in vista del dibattito, che la borghesia russa non era in grado di portare a termine la rivoluzione borghese: da un lato perché collegata con le borghesie occidentali che finanziavano essa e lo zar nel suo processo di riforma; dall’altro, per paura di ciò che un rivolgimento traumatico della politica in Russia avrebbe prodotto nel contadinato povero e soprattutto nel proletariato industriale, la vera avanguardia della lotta politica per la democrazia. Ma questo presupposto nascondeva le divisioni riguardo alla tattica e alla struttura organizzativa da dare allo strumento della lotta proletaria per la rivoluzione.
Per i menscevichi, il 1905 rappresentava una conferma delle impostazioni uscite dal dibattito compreso fra il 1900 e il 1903. Il proletariato ha bisogno di rafforzarsi costantemente per intraprendere la guerra per il socialismo. Per farlo, nelle condizioni concrete russe, ha bisogno innanzitutto che la borghesia conquisti il potere politico. Dato che questa, da sola, non è in grado di farlo, il proletariato deve appoggiare le politiche borghesi, arrivando così allo sviluppo pieno di una società capitalista, che producendo sempre più proletari aumenta la propria rovina, aiutata da un partito largo seppur organizzato ideologicamente. Fra le dichiarazioni dei menscevichi in questo periodo si può leggere che la funzione del partito è quella di “stimolare la democrazia borghese perché partecipasse attivamente alla vita politica, nello spingerla avanti e nel radicalizzare la società borghese”.
Rifiuto di ogni partecipazione contadina al processo per la rivoluzione socialista, rifiuto di ogni preparazione dell’insurrezione: due punti strettamente legati, seppur non in maniera assoluta, alla politica antisocialista-rivoluzionaria di Plechanov, delineavano la posizione menscevica, posizione in questo momento ampia fra i simpatizzanti e i militanti di base. È doveroso comunque ricordare che, benché i menscevichi non contemplassero nella loro interpretazione tattica del programma l’adozione della via insurrezionale (che a posteriori possiamo interpretare come un primo manifestarsi di ciò che poi costituirà le posizioni più estreme del menscevismo – proprio Plechanov, ad esempio, diventò “difensista”), in un solo caso questa si sarebbe potuta adoperare: se si fosse manifestata, in uno dei principali paesi industriali occidentali, verosimilmente la Germania, la rivoluzione socialista.
Per i bolscevichi la questione era differente. Il 1905 aveva dimostrato che il proletariato, entrato definitivamente nella contesa politica, aveva dato una spinta decisiva ai movimenti di protesta.
Se questi avevano la possibilità di cambiare qualcosa di profondo nella vita politica russa, di certo non lo dovevano alla conduzione della borghesia, che, per interessi materiali e conseguenti paure politico-strutturali, non avrebbe mai portato a termine il processo democratico-borghese. Anzi, nelle modalità operative dei menscevichi, avrebbe accresciuto la propria capacità di coercizione e cooptazione sulla classe proletaria, l’unica che aveva il pieno e completo interesse ad uscire dal sistema di potere zarista.
Questo obiettivo, portato avanti dal proletariato organizzato, vera avanguardia della lotta democratica, sarebbe stato raggiunto a due condizioni. La prima era l’alleanza che il proletariato avrebbe dovuto portare a termine con la parte più povera del mondo contadino, quella parte nata dalla stratificazione sociale che la divisione del lavoro dell’economia di mercato russa della seconda metà dell’Ottocento aveva prodotto. Questa alleanza avrebbe consentito di combattere sia l’assolutismo sia la borghesia, e rompere il blocco sociale da essa successivamente egemonizzato, un nuovo padronato attorno al quale tutto il mondo contadino si sarebbe unito in assenza di una reale alternativa di sistema. La seconda aveva a che fare con il processo rivoluzionario occidentale, che Lenin vedeva inevitabile, soprattutto nella Germania del partito socialdemocratico tedesco, del quale il rivolgimento rivoluzionario russo sarebbe stato un precursore in grado di approfittare ulteriormente della rivoluzione in occidente per poter così compiere la fase socialista del processo. La dittatura democratica radicale di operai e contadini poveri semiproletari avrebbe quindi raggiunto la rivoluzione socialista grazie allo sviluppo della rivoluzione in occidente.
Fra l’impostazione menscevica e quella bolscevica vi era quella di Trockij, uno dei pochi dirigenti ad avere avuto esperienze dirette nei fatti del 1905, vista la sua presidenza, seppur breve, al Soviet di Pietroburgo. Da un punto di vista tattico, Trockij condivideva buona parte dell’impostazione di Lenin, ad eccezione di quella relativa alla dittatura democratica rivoluzionaria di operai e contadini, dove il dirigente pensava che questa fosse impossibile vista la natura degli interessi profondi delle classi coinvolte, implicando che la direzione politica doveva essere governata dal solo proletariato.
Ciò che divideva Trockij dai bolscevichi rimaneva l’annosa questione organizzativa, dove il dirigente ucraino rimaneva vicino a quelle posizioni che avevano caratterizzato il dibattito al II congresso del 1903, cioè quelle relative a un partito largo, che lo avvicinarono originariamente al menscevismo, interessato a una ricomposizione di cui lo stesso Trockij si faceva garante, rigettata però da Lenin nel periodo 1909-1914. L’eco di queste aspre polemiche fra Lenin e Trockij nel periodo che va dal 1903 al 1912 rimarrà nella memoria dei militanti anche dopo la ricomposizione del 1917.
Nel 1912, quando si tenne una conferenza generale del partito a Praga, le forze della socialdemocrazia russa erano in fase di indubbio ripiegamento; necessitavano di un’organizzazione, che fu infatti l’argomento principale di un incontro che si proclamava come “organo centrale del partito”. Questa proclamazione violava però le regole dello statuto, rappresentando così la forzatura con cui i bolscevichi divennero un partito a sé, non più una corrente all’interno di un’organizzazione.
D’altronde, in quello stesso anno, la lotta all’interno del mondo dell’industria si faceva più intensa, con episodi di sangue anche molto gravi, come la repressione in armi degli scioperi dei campi auriferi della Lena, in aprile, mese nel quale si diede avvio a una nuova pubblicazione: la Pravda. All’ennesimo tentativo di riunificazione operato da Trockij, i bolscevichi rispondono in maniera compatta con un rifiuto che acuisce le divisioni fra i bolscevichi da una parte e i capi menscevichi con Trockij dall’altra.
Ma arrivò l’inizio del primo conflitto mondiale nel 1914 a scombussolare ancora le carte, come era accaduto nel 1905, un qualcosa che impose una momentanea ricomposizione fra bolscevichi e menscevichi, uniti loro malgrado nella repressione delle libertà politiche e di stampa che raggiunsero tutte le formazioni a vario titolo opposte a quelle più propriamente padronali. Una fase questa che dura relativamente poco, se messa in relazione alle polemiche che si formano verso la fine del 1914, quando Lenin pubblica i posizionamenti rispetto alla guerra.
Ne “I Compiti della Socialdemocrazia Rivoluzionaria nella Guerra Europea” si producono sette punti che delineano uno studio preliminare del conflitto, riconosciuto come imperialista, il tradimento delle socialdemocrazie occidentali, che appoggiano nella difesa della patria le proprie borghesie imperialiste, il fallimento della Seconda Internazionale, preda delle influenze ideologiche della piccola borghesia, e una “pars construens” dedicata appunto ai compiti del partito sia da un punto di vista tattico che organizzativo. Questa impostazione non poteva che portare a un inasprimento dello scontro, soprattutto con la parte più di destra dei menscevichi, capitanata da Plechanov, che ripetevano de facto le impostazioni occidentali che caratterizzavano la Seconda Internazionale, in virtù del fatto che, secondo il loro modo di intendere la questione, l’atteggiamento difensista era indispensabile per le riforme, a loro volta fondamentali per il consolidamento del capitalismo, precondizione per un partito socialdemocratico forte. Una posizione in aperta contraddizione con quella bolscevica, che veniva espressa in quei mesi di scontro politico in questa maniera:
“Il compito della socialdemocrazia russa è, in particolare e in primo luogo, una lotta spietata e a fondo contro lo sciovinismo grande- russo e monarchico-zarista e contro la difesa, che ne fanno, ricorrendo a sofismi, liberali, o cadetti, una parte dei populisti e gli altri partiti borghesi russi. Dal punto di vista della classe operaia e delle masse lavoratrici di tutti i popoli della Russia, il male minore sarebbe la sconfitta della monarchia zarista e del suo esercito, che opprimono la Polonia, l’Ucraina e una serie di altri popoli della Russia e che rinfocolano l’odio nazionale per rafforzare il giogo dei grandi russi sulle altre nazionalità e per consolidare il governo barbaro e reazionario della monarchia zarista.”
La parte più di sinistra dei menscevichi invece, capitanata da Martov, si univa ai bolscevichi nella condanna alla guerra imperialista, ma con una differenza fondamentale.
Se, come abbiamo visto, per Lenin la guerra imperialista avrebbe dovuto portare a un rivolgimento socialista, soprattutto in Occidente — un qualcosa che andava a soddisfare una delle due condizioni per il processo rivoluzionario russo — per Martov si sarebbe dovuti arrivare a una pace democratico-borghese che rispettasse il principio di autodeterminazione delle nazioni. Un qualcosa di assolutamente conseguente per un rappresentante di una corrente che accentuava il carattere borghese della fase rivoluzionaria.
Queste due posizioni saranno de facto quelle prevalenti nella conferenza di Zimmerwald, tenutasi nel settembre del 1915, che comprendeva una folta serie di delegati dei paesi europei riunitisi per cercare di arrivare a una posizione comune sulla guerra. Nella votazione vinse la mozione di Trockij, che esprimeva la volontà di arrivare a una pace senza annessioni e indennità, ma che non cambiò nulla da un punto di vista organizzativo, essendo queste due impostazioni comunque comprese ma non chiarite nella mozione suindicata.
La conferenza di Zimmerwald era infatti divisa fra una frazione centrista, più legata al menscevismo e al socialismo rivoluzionario internazionalista di Natanson, che si avvicinò alla proposta di mediazione di Trockij, socialdemocratico indipendente, e l’ala sinistra dei bolscevichi, che raccolse le parti più radicali delle socialdemocrazie occidentali presenti e che andò a svilupparsi autonomamente, seppur sempre all’interno della conferenza, come dichiarato alla fine della votazione zimmerwaldiana.
Nel 1916, a Kienthal, si tiene un’altra conferenza che punta a dare una forma concreta alla mobilitazione contro la guerra. Ma nel 1916 la situazione interna russa per i bolscevichi e per i menscevichi era già cambiata, grazie all’ondata di arresti che colpì buona parte della dirigenza all’inizio del 1915, per quanto riguarda i bolscevichi, e al disintegrarsi in un progressismo generico della corrente menscevica nello stesso periodo.
I bolscevichi tentarono una riorganizzazione, almeno nelle parti più industrializzate del paese come nel caso di Pietroburgo, che, se ebbe il merito di tenere in piedi determinate strutture di lotta decimate dalla reazione, peccò a volte nei posizionamenti, data la poca esperienza dei protagonisti di questo tentativo di continuare con l’attività in un momento così importante per la vita politica del paese.
Dall’inizio del 1916, Lenin continua un’opera di chiarimento dei punti fondamentali della teoria rivoluzionaria. In questo periodo vedranno la luce Imperialismo, fase suprema del capitalismo e buona parte della produzione letteraria relativa all’autodeterminazione dei popoli, fondamentale non solo per lo studio della situazione concreta del tempo, ma anche per uno studio della questione da un punto di vista storico.
Rivolgimenti interni, lotta organizzativa e ideologica sempre più serrata misero lo stato maggiore bolscevico nella condizione psicologica di non credere che il processo rivoluzionario, che pur vedeva molte condizioni oggettive in via di soddisfacimento, potesse presentarsi nel breve termine. Si sbagliavano.
L’anno delle rivoluzioni: il 1917 tra il febbraio e l’ottobre
La Prima guerra mondiale portò lo stato zarista a uno sforzo bellico e produttivo ben più grande di quello inizialmente previsto, un qualcosa che sembra essere stato comune a quasi tutte le potenze in gioco, anche al netto dei differenti livelli di sviluppo delle forze produttive raggiunti nei rispettivi contesti. La sconfitta estremo-orientale del 1905, unita alla prima spinta rivoluzionaria, aveva reso necessario per lo zarismo ricalibrare la postura in entrambi i fronti, facendo concessioni ai liberali conservatori sul fronte interno e rafforzando alleanze certe in ambito internazionale. Già nel 1891 venne stipulato un accordo con la Francia, con la prospettiva di legarsi in un cammino che avrebbe garantito lo sviluppo produttivo russo in un quadro di competizione imperialista nel quale poter portare avanti determinati obiettivi sentiti come strategici. Due anni dopo la sconfitta nella guerra russo-giapponese, nel 1907, si arrivò a un accordo per un’intesa sulla politica internazionale con la Gran Bretagna, sempre per consolidare gli obiettivi prima descritti. Fra questi, una più insistente attenzione all’area mediorientale, dove l’Impero Ottomano, presidiando lo stretto dei Dardanelli e le coste meridionali del Mar Nero, unite alle coste del bacino orientale mediterraneo, rappresentava un ostacolo alle mire dello zar, che si trovava quindi nell’annosa situazione di dover rivolgere attenzioni alla penisola balcanica, rivaleggiando con l’Austria-Ungheria e soprattutto col Kaiser tedesco Guglielmo II, una rivalità geopolitica che non fu mai completamente accettata da certe componenti della corte, legate alla Germania anche per via di questioni etniche, oltre che economiche.
Sul lato interno, il 1905 aveva consolidato una dialettica politica più propriamente borghese, sebbene in lotta, provata dalla proliferazione di sigle politiche di varie sensibilità: dai liberal-conservatori Zemstvo al populismo dell’obscina come abbiamo visto nel capitolo precedente, fino a formazioni pienamente lealiste, come le “Centurie Nere” o “Centoneri”, il movimento guidato dall’“Unione del Popolo Russo”, organizzazione nazionalista e lealista monarchica fondata nel 1905 da Alexander Dubrovin, che racchiudeva una buona parte dei latifondisti più conservatori e della piccola borghesia urbana legata alle maglie dei rapporti delle consorterie aristocratiche.
Il movimento operaio aveva fatto lievitare la protesta fino alle dichiarazioni dell’ottobre del 1905, quando lo zar concesse la Costituzione, data che per il liberalismo conservatore costituì un traguardo importante, tanto che uno di questi gruppi politici prese proprio il nome di ottobristi, che sotto la guida di Alexandr Ivanovič Guckov rappresentavano il partito del commercio e dell’industria, il partito dell’ordinamento giuridico e il partito monarchico costituzionale.
Fra il 1905 e il 1917 tutte queste formazioni andarono definendosi attraverso scissioni interne e ricomposizioni con altri elementi nelle varie convocazioni della Duma (quattro in tutto), un fenomeno che fa risaltare la ricchezza già enorme delle esperienze politiche nella Russia del tempo. Non potendo ripercorrere tutte queste vicissitudini per motivi di spazio, ci basti rilevare come lo zar e il suo apparato riuscissero a mantenere l’egemonia in questa giungla di nuovi e vecchi ceti, di classi in ascesa e parti di esse in formazione, solo attraverso un attento accordo con le parti più moderate (e al puntello centonero), dal mondo Zemstvo variamente rappresentato, al mondo contadino passando per la piccola borghesia urbana.
Ma fra il 1915 e il 1917 vediamo un incremento degli scioperi e delle proteste che caratterizzano il dibattito politico, il quale si fa sempre più serrato attorno alle questioni della fine delle ostilità e della definizione delle strutture decisionali, vista la persistente consunzione della forma zarista.
In quel momento, siamo a cavallo fra gennaio e febbraio del 1917, le organizzazioni del proletariato industriale si stavano affaccendando per la celebrazione della Giornata Internazionale della Donna, evento che nel dibattito socialdemocratico aveva radici almeno dal 1907, data del VII congresso della II Internazionale socialista, sul quale non possiamo soffermarci.
I gruppi erano principalmente tre: quello menscevico, guidato dai georgiani Nikolaj Semёnovič Čcheidze e Irak’li Giorgis Dze Ts’ereteli; il Comitato bolscevico; e i cosiddetti Mezrajoncy, cioè il gruppo interrionale dei socialdemocratici internazionalisti, formazione mista di bolscevichi e seguaci di Trockij. La propaganda si focalizzava quindi su scioperi da indire contro la guerra, contro l’autocrazia zarista, per la questione del carovita.
Ma il movimento era già un passo avanti all’agitazione, dato che l’ondata di scioperi e dimostrazioni politiche, partendo dal comparto metalmeccanico (le officine Kirov, meglio conosciute dal nome del funzionario ed industriale zarista che maggiormente si attivò per lo sviluppo degli impianti, Nikolaij Putilov), arriva a quello tessile, che si dichiara immediatamente in sciopero dimostrando solidarietà, la mattina del 23 febbraio, ai lavoratori metalmeccanici.
Novantamila persone sciamano verso il centro di Pietroburgo, fulcro vitale, capitale dell’impero, e vengono affrontate dai pochi reparti della polizia, impreparata a tenere una folla di queste dimensioni. La giornata finisce fra il rumore degli scontri e la conta dei feriti, ma la polizia ancora non spara. Il 24 febbraio i manifestanti sono 200.000; i reparti presenti dell’apparato militare zarista hanno atteggiamenti diversi. La polizia tenta comunque di contrapporsi alla folla, mentre i cosacchi sembrano ignorarla. Scontri, risse, presidi e cortei ad alta tensione, ma ancora non c’è un ordine da parte zarista di aprire il fuoco. Il 25 febbraio i manifestanti sono 240.000, la protesta ha coinvolto anche i lavoratori del trasporto pubblico, mentre ormai, a questa data, tutti gli studenti possono dirsi mobilitati come parte della classe media. I cortei inneggiano alla fine del conflitto e alla caduta dello zar, intonando “La Marsigliese”. La polizia inizia a sparare, ma è troppo tardi: dalla folla si risponde al fuoco.
La giornata continua con i manifestanti che occupano il centro della città, mentre le forze dell’apparato zarista tentano di disperderli, in una situazione che vede reparti contravvenire agli ordini, i cosacchi trasformare sempre di più la passività in simpatia verso i manifestanti, il tutto in un’atmosfera di crescente fibrillazione contro il regime e la situazione catastrofica del paese. Nel tardo pomeriggio Nicola II dà l’ordine di disperdere la folla attraverso l’uso delle armi da fuoco e fa partire un’ondata di arresti che, fra le organizzazioni, colpisce nella maniera più decisa il Comitato bolscevico.
Il 26 gli scontri a fuoco divampano in tutta Pietroburgo, la situazione sul campo è quella del confronto aperto. In questa situazione iniziano le prime defezioni dei reparti di soldati dello zar nella capitale, che porteranno i vertici dell’apparato a un appello all’imperatore per concedere la formazione di un nuovo governo. Il 27 una parte dei manifestanti in sciopero si muove dal quartiere operaio di Vyborg per andare a tenere dei comizi davanti alle caserme dei reggimenti.
La tensione è altissima; in certi casi i reggimenti aprono il fuoco sulla folla, in altri si uniscono alla protesta, solitamente uccidendo quegli ufficiali che rimanevano ostinatamente lealisti.
La protesta è già abbastanza armata e consistente da potersi permettere azioni fondamentali, come il saccheggio dell’arsenale di Pietroburgo, e simboliche, come gli incendi della sede dell’“Ochrana”, la polizia segreta zarista, l’intelligence della repressione.
È in questa data che un gruppo di delegati dei gruppi dei lavoratori del Comitato Centrale delle Industrie Belliche e i deputati socialisti della Duma decidono di convocare il Soviet di Pietroburgo — quello che nel 1905 era sorto spontaneamente per essere poi sciolto, pochi mesi dopo, dagli apparati della repressione — e di farne così l’organo preposto alla direzione decisa dalla protesta. Questo organo si presentava con una composizione variegata, dove a farla da padrone erano il Partito Socialista Rivoluzionario (i soldati presenti nella protesta erano pur sempre contadini) e i menscevichi, con una presenza bolscevica ridotta.
Data la maggioranza, il Soviet non si presentò mai in questo periodo come organo statale, benché rappresentasse un vasto numero di lavoratori e di soldati che aderirono alla protesta (si conta che attorno ai primi di marzo il numero di soldati che aveva abbracciato la causa degli scioperanti fosse di 170.000), e che trasformò, al di là dei desiderata immediati delle componenti maggioritarie, la situazione politica russa fra il febbraio e l’ottobre del 1917 in una diarchia. Nel marzo, la proliferazione dei soviet nei territori della Russia zarista porta alla convocazione della “Prima Conferenza Panrussa dei Soviet”.
Contemporaneamente i deputati liberali della Duma danno vita a un comitato guidato dal deputato ottobrista Michail Rodzjanko e procedono agli arresti dei vertici della polizia zarista e dei ministri dell’Imperatore. Per capire cosa mosse questo gruppo di liberali a un’azione di questa natura, è utile citare il deputato Vasilij Vital’evič Šul’gin, monarchico e presente durante la riunione del comitato: «Si stringevano istintivamente gli uni contro gli altri. Quegli stessi che da anni si combattevano a vicenda avevano sentito di colpo che qualcosa di orribile li minacciava tutti in egual misura. Quel qualcosa era la strada. La strada e la plebaglia.»
La decisione relativa all’atteggiamento che i deputati dovevano tenere attorno ai fatti che si erano velocemente sviluppati nell’ultima settimana, decisione particolarmente combattuta in un comitato che vedeva al suo interno anime molto differenti – dai monarchici costituzionalisti ai trudoviki passando per cadetti e ottobristi – si risolse quando arrivarono le notizie dello spostamento dei cortei del Soviet verso l’ala del Palazzo di Tauride che li ospitava.
Si arrivò così, in fretta e furia, alla proclamazione di un Comitato Provvisorio della Duma.
Il 1° marzo la delegazione dei deputati del Soviet, in fede alla convinzione che la rivoluzione borghese andasse consolidata, cedette la direzione politica al Comitato Provvisorio.
Il 2, quando Nicola II dichiara l’abdicazione, si raggiunse un accordo che prevedeva:
“Amnistia per i reati politici e religiosi; Libertà di parola, di stampa, di associazione, di riunione e di sciopero; uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge senza limitazioni di condizione, di religione e di nazionalità; abolizione della polizia, sostituita dalla milizia popolare; convocazione di un’Assemblea costituente ed elezioni delle amministrazioni locali per voto universale, diretto, eguale e segreto; permanenza nella capitale delle guarnigioni rivoluzionarie; diritti civili garantiti ai militari, compatibilmente con il servizio”.
Il 3 marzo il Governo Provvisorio si spacca di fronte alla figura di Michail Romanov.
Le parti più moderate implorano il fratello dello zar di prendere in mano la situazione come garante del processo in atto, mentre quelle più radicali, che vedono in Kerenskij una figura centrale, sono contrari, demandando la decisione a un’Assemblea Costituente. Michail Romanov però, prima di sera, decide di abdicare. Nel giro di dodici giorni la dinastia Romanov, che regnava dal 1584, viene spazzata via. La Russia non è più il Paese dello Zar.
In questa situazione la posizione menscevica fu senza dubbio maggioritaria, come prima ricordato. La Diarchia fu vista come il manifestarsi della convivenza fra organi borghesi e organi più prettamente popolari, guidati dal corpo proletario industriale, che avrebbe vigilato sul percorso rivoluzionario borghese, ponendosi al fianco dei rappresentanti della borghesia rivoluzionaria, fino a quando non si fosse consolidata una società capitalistica moderna.
Il problema per questo genere di tattiche risiedeva nella questione della guerra, che divise all’interno il gruppo menscevico, dove l’opinione maggioritaria in questo momento era quella di fare pressioni sul governo, generalmente favorevole al proseguimento del conflitto, per porre fine, attraverso un processo di pace secondo i dettami della democrazia borghese, a ogni ostilità. Era una posizione alquanto vaga, ma che caratterizzò la linea menscevica anche in contrapposizione all’altra corrente maggioritaria presente nei Soviet, quella socialista rivoluzionaria, garante delle richieste contadine improntate sulla fine della guerra e sulla redistribuzione delle terre.
I bolscevichi invece, colpiti dalla repressione in maniera più seria, si trovarono con un comitato centrale raffazzonato e senza collegamenti stabili con la componente all’estero.
Si produsse quindi un documento che tentava di tenere assieme i riferimenti sulla guerra sviluppati alla fine del 1914 e le risoluzioni relative alla tattica nella rivoluzione approvate nel congresso del 1905 (il III), producendo la linea ufficiale del comitato bolscevico, pubblicata sull’“Izvestija” del Soviet di Pietroburgo il 26 febbraio. Da questi presupposti ritorna la pubblicazione della Pravda in marzo, con denunce al Governo Provvisorio e la richiesta di convocazione di un’Assemblea Costituente per l’instaurazione di una Repubblica Democratica.
Il compito svolto dal gruppo bolscevico di Pietroburgo, decimato dagli arresti della reazione zarista, capitanato da Molotov – un compito arduo e inaspettato – terminò quando alla direzione tornarono quadri da altri fronti, come per il gruppo di bolscevichi che si installarono nella capitale, fra i quali Stalin, Kamenev, Sljapnikov e il deputato bolscevico alla IV Duma Muranov.
In una situazione nella quale, nel mondo operaio, avevano più influenza le tesi mensceviche, questo gruppo si divise tra chi cedeva alle tesi difensiviste, come accaduto nel caso di Kamenev, e chi invece, pur provando una mediazione che andasse a intercettare quella linea di condivisione politica delimitata dalla linea Zimmerwald–Kienthal coi menscevichi di sinistra, si discostava in maniera risoluta da qualsiasi posizione che intendesse continuare il conflitto (Stalin, che però nel 1926 ritrattò parte di questa posizione nei confronti del menscevismo riguardo le questioni interne, identificandola come errore mentre si confrontava con la fazione trozkista).
Era una posizione difficile nella quale operare, come dimostrato dai tanti errori commessi da questo gruppo, che continuò comunque a militare tra le file del partito anche nelle fasi successive, e che avevano a che fare, in buona misura, con l’opinione che la rivoluzione in corso nella Russia zarista non potesse che essere borghese. Per infrangere questo velo doveva arrivare Lenin con le sue “Tesi di Aprile”.
Quello che successe fra la stazione di Beloostrov e quella di Pietroburgo, nel percorso del treno in arrivo dalla Finlandia che riportò Lenin in patria il 3 aprile 1917, fece capire subito che le opinioni maggioritarie presenti nell’agone politico della Russia del tempo erano contrarie alla visione del rivoluzionario di Simbirsk. Stando ai testimoni, e soprattutto a Sljapnikov (riesumato nell’opera già citata di Carr), le prime uscite ufficiali di Lenin furono per la rivoluzione socialista e non per la rivoluzione borghese. A Pietroburgo, dopo aver parlato ai dirigenti all’interno della stazione, Lenin tenne un discorso a una folla di manifestanti radunatisi attorno a un carro armato, diventato un palco improvvisato, dove esortava l’avanguardia nella lotta per la democrazia, cioè il proletariato industriale, a proseguire il cammino tracciato dalla tattica bolscevica e prendere il potere, terminando la fase borghese e sbarcando nella fase socialista della rivoluzione. Il 4 aprile, nel Palazzo di Tauride, Lenin pronunciò un discorso di fronte a tutte le componenti del Soviet, dove per la prima volta esponeva le sue tesi, che verranno poi pubblicate sulla Pravda il 7: un discorso che vide l’opposizione di tutti i capi fazione, menscevichi in particolar modo, che lo attaccavano asserendo che parlava senza conoscere la situazione russa, o accusandolo di derive anarchico-blanquiste, come nel caso dell’ex bolscevico Goldenberg. La questione del contendere era quindi attorno all’atteggiamento da tenere nei confronti del Governo Provvisorio e della prosecuzione della guerra. Su questo punto la posizione di Lenin era inequivocabile:
“La caratteristica dell’attuale momento storico in Russia è costituita dal passaggio dal primo stadio della rivoluzione, che ha dato il potere alla borghesia a causa dell’insufficiente consapevolezza e organizzazione del proletariato, al suo secondo stadio, che farà passare il potere nelle mani del proletariato e degli strati poveri della classe contadina.
Questo passaggio è caratterizzato, anzitutto, dal massimo di possibilità legali (fra tutti i paesi belligeranti la Russia è oggi il paese più libero del mondo), inoltre, dall’assenza di violenza contro le masse, infine, dall’inconsapevole fiducia delle masse nel governo dei capitalisti,
che sono i peggiori nemici della pace e del socialismo. Questa situazione originale ci impone di saperci adattare alle condizioni particolari del lavoro di partito tra le grandi masse proletarie che si sono appena ridestate alla vita politica.”
Questo lavoro doveva essere indirizzato a “Spiegare alle masse che i soviet dei deputati operai sono l’unica forma possibile di governo rivoluzionario e che, pertanto, fino a che questo governo sarà sottomesso all’influenza della borghesia, il nostro compito potrà consistere soltanto nello spiegare alle masse in modo paziente, sistematico, perseverante, conforme ai loro bisogni pratici, gli errori della loro tattica. Fino a che saremo in minoranza, svolgeremo un’opera di critica e di spiegazione degli errori, sostenendo in pari tempo la necessità del passaggio di tutto il potere statale ai soviet dei deputati operai, perché le masse possano liberarsi dei loro errori sulla base dell’esperienza.”
Per cui: “Niente repubblica parlamentare, – ritornare a essa dopo i soviet dei deputati operai sarebbe un passo indietro”; “Nel programma agrario spostare il centro di gravità sul soviet dei deputati dei salariati agricoli. Confiscare tutte le grandi proprietà fondiarie. Nazionalizzare tutte le terre del paese e metterle a disposizione dei soviet locali di deputati dei salariati agricoli e dei contadini. Costituire i soviet di deputati dei contadini poveri”; “Fusione immediata di tutte le banche del paese in un’unica banca nazionale, posta sotto il controllo dei soviet dei deputati operai”.
Contro le critiche alzatesi durante il suo discorso al palazzo di Tauride Lenin rispose, nelle aggiunte della pubblicazione del 7 aprile:
“Ho attaccato il governo provvisorio perché non ha fissato un termine, né vicino né lontano, per la convocazione dell’Assemblea costituente. Ho dimostrato che, senza i soviet dei deputati degli operai e dei soldati, la convocazione dell’Assemblea costituente non è garantita e il suo successo è impossibile. E si pretende che io sia contrario alla più sollecita convocazione dell’Assemblea costituente!!! Direi che queste affermazioni sono «deliranti», se decenni di lotta politica non mi avessero insegnato a considerare la buona fede degli oppositori come una rara eccezione. Il signor Plekhanov ha scritto nel suo giornale che il mio discorso è «delirante». Benissimo, signor Plekhanov! Ma guardate quanto siete malaccorto, maldestro e poco perspicace nella vostra polemica! Se per due ore ho detto cose deliranti, come mai centinaia di ascoltatori hanno tollerato il mio «delirio»? E poi perché il vostro giornale consacra un’intera colonna a questo «delirio»? Tutto questo zoppica, zoppica molto. Certo, è molto più facile gridare, ingiuriare, strepitare che tentar di esporre, chiarire, ricordare in che modo abbiano ragionato Marx ed Engels, nel 1871, nel 1872 e nel 1875, sull’esperienza della Comune di Parigi e sui caratteri dello Stato di cui il proletariato ha bisogno. L’ex marxista signor Plekhanov, probabilmente, non vuole ricordarsi del marxismo.”
I compiti organizzativi del partito dovevano puntare a:
- a) convocare immediatamente il congresso del partito
- b) modificare il programma del partito, principalmente:
- sull’imperialismo e sulla guerra imperialistica
- sull’atteggiamento verso lo Stato e sulla nostra rivendicazione dello “Stato-Comune”
- emendare il programma minimo, ormai invecchiato
- c) cambiare il nome del partito (da Social-Democratico a Comunista)
- d) Rinnovare l’Internazionale.
Prendere l’iniziativa della creazione di un’Internazionale rivoluzionaria contro i socialsciovinisti e contro il centro.”
Ma queste tesi non bastarono inizialmente a convincere il comitato bolscevico di Pietroburgo che, riunitosi, le bocciò risolutamente verso la sera del 7 aprile. Nei giorni successivi, che dividono questa data dalla seconda conferenza panrussa del partito, Lenin specifica ulteriormente la sua posizione: la natura della diarchia attualmente vigente nella situazione concreta in Russia, le faglie del conflitto di classe, le precondizioni indispensabili per un suo svolgimento a favore del popolo e delle sue avanguardie proletarie – il tutto però senza specificarne eccessivamente le tempistiche, un ragionamento che implicava un rivolgimento rivoluzionario attraverso un moto insurrezionale ma che attendeva un’agitazione politica dei bolscevichi in minoranza e condizioni contingenti in rapido sviluppo per essere attuato complessivamente.
Durante la riunione del comitato bolscevico pietroburghese, la tattica di Lenin di trasformare i soviet in un organo dello Stato-Comune si scontrava con la posizione di Kamenev, che intendeva mantenere i soviet come organo di controllo sul governo provvisorio.
In una settimana le tesi furono prima bocciate e poi promosse sull’onda della campagna pubblicistica di Lenin, che si trovò in grado di avere un’influenza in crescita, anche grazie alle prime defezioni che il governo provvisorio stava alimentando con la posizione che i deputati avevano dovuto elaborare nei riguardi del conflitto mondiale.
Il 18 aprile il governo, grazie alla spinta del cadetto Milijukov, pubblica una nota che dichiara la disponibilità massima a mantenere gli impegni internazionali stipulati con gli alleati. Per il governo provvisorio, la guerra doveva continuare. In un’atmosfera influenzata da questa decisione si aprono i lavori della conferenza panrussa del partito, che non fanno altro che confermare le tesi di Lenin, accettando così la fase socialista in una rivoluzione vista fino a quel momento come solo borghese, dichiarando l’incompatibilità con ogni percorso che intendesse proseguire la guerra e prospettando la riuscita completa della fase socialista della rivoluzione anche grazie alle rivoluzioni socialiste che venivano prefigurate nei paesi occidentali più avanzati. La centralità che le Tesi di Aprile davano ai soviet raccontava di un cambiamento, avvenuto nell’analisi di Lenin, inizialmente molto cauto nel definire la natura di questi organi e la loro capacità effettiva di assolvere a compiti di governo, poi imperniata sull’importanza di queste aggregazioni che avevano spinto la rassegnazione popolare a tramutarsi in rabbia e a rovesciare per sempre lo zarismo.
Carr, nel suo già citato La Rivoluzione Bolscevica, traccia un parallelo con Marx che merita di essere citato per intero:
“La ‘dittatura del proletariato’ di Marx rimase per vent’anni, a partire dal momento della sua enunciazione, una concezione astratta ed incorporea, fino a che finalmente trovò che essa si era incarnata in un’istituzione creata da uomini che non erano, per la maggior parte, suoi discepoli e che egli stesso all’inizio aveva guardato con malcelato sospetto: la Comune di Parigi. Lenin aveva elaborato tutti gli elementi essenziali della sua teoria della rivoluzione prima che si fossero sentiti nominare i Soviet; e il suo atteggiamento nei confronti del primo Soviet di Pietroburgo — un’istituzione sorta al di fuori del partito o, peggio ancora, di intonazione menscevica — fu esitante come quello di Marx lo era stato nei confronti della Comune. E tuttavia i Soviet, saliti in altissima considerazione in seguito alla sfida che avevano lanciato all’autocrazia nel 1905, erano diventati nella primavera del 1917 i depositari predestinati del potere rivoluzionario che Lenin aveva sognato. La prima delle sue Lettere da lontano, scritta dalla Svizzera nel marzo 1917 e pubblicata prima del suo arrivo a Pietrogrado, salutava nel Soviet di Pietroburgo un governo operaio nuovo, non ufficiale, ancora poco sviluppato e relativamente debole, che esprimeva gli interessi del proletariato e di tutti gli strati più poveri della popolazione delle città e delle campagne”.
Da questo momento inizia un cammino di progressiva influenza bolscevica sui soviet.
D’altronde, la nota di Milijukov del 18 aprile aveva messo in difficoltà l’ala menscevica, che si trovava fra l’incudine rappresentata dalle mire imperialistiche che caratterizzavano il governo provvisorio e il martello della posizione bolscevica appena descritta. Alle dimissioni di Milijukov nel maggio del 1917, viene formato un secondo governo provvisorio, capeggiato dal cadetto Lvov e comprendente una componente più grande di socialisti, ai quali vanno complessivamente sei dicasteri: due ai socialisti rivoluzionari, due ai menscevichi, due ai socialisti indipendenti, mentre i bolscevichi stanno fuori a preparare la rivoluzione. La decisione di ammettere una componente più consistente nel governo, che quindi rappresentasse nelle strutture guidate dalla borghesia la voce dei soviet, provocò un dibattito serrato fra le file mensceviche e quelle dei socialisti rivoluzionari sull’appoggio o meno ai ministri socialisti.
Nel maggio Trockij, tornato dalla prigionia, si può riunire al gruppo dei socialisti indipendenti. Iniziano così una serie di colloqui preparatori per trovare una collaborazione fra bolscevichi e menscevichi di sinistra. Trockij porta avanti la linea di colui che garantisce un’unione operativa fra le fazioni sorte dal II congresso. Lenin risponde che, vista la situazione, è possibile una collaborazione ma sempre all’interno degli organi del partito, senza dover iniziare un processo di formazione nuovo. Per giustificare questa nuova fusione Trockij dichiara la sua incompatibilità con un bolscevismo che secondo il capo dei socialisti indipendenti, si era “debolscevizzato” ed occorreva quindi si internazionalizzasse per guarire. Questa riunione del 10 maggio 1917 non portò a nulla, ma introdusse i partecipanti ad un finale di mese indicativo e a un’estate movimentata.
Alla convocazione del congresso panrusso dei contadini, dominato in lungo e in largo dai socialisti-rivoluzionari, che si espresse per un appoggio al Governo Provvisorio, risponde la conferenza degli operai delle fabbriche di Pietroburgo, che aveva visto per la prima volta il manifestarsi di una maggioranza bolscevica. Era un primo segnale di ciò che accadde a partire da giugno quando fu convocato il I Congresso Panrusso dei Soviet. Un congresso con una maggioranza socialista rivoluzionaria, seguita a ruota da una folta presenza menscevica, e dove i bolscevichi erano il terzo gruppo, quello più importante delle altre organizzazioni rimaste.
Con questi presupposti, non potendo seguire da vicino gli interventi dei partecipanti, fra i quali il più significativo fu quello di Ts’ereteli, che come prima accennato fu fra i due menscevichi a prendersi un dicastero nel governo L’vov, il congresso si espresse convintamente per il sostegno al Governo Provvisorio. Ma la situazione, fuori e dentro il congresso, presagiva che la tattica bolscevica avrebbe avuto più influenza di quella che, in quel momento, rappresentava.
Appena dopo la conclusione dei lavori, i bolscevichi organizzarono una manifestazione che però disdissero per l’opposizione della maggioranza congressuale.
Ma quando è il congresso ad indire una manifestazione in favore dei Soviet, dieci giorni dopo, la maggioranza dei manifestanti urla gli slogan bolscevichi, mentre le voci a favore del governo provvisorio sono una sparuta minoranza. È dalla manifestazione del 3 luglio però che si capisce che la mobilitazione delle masse sta raggiungendo la portata di quelle di febbraio.
Questa manifestazione si teneva mentre il governo, su insistenza degli alleati, sviluppava un’offensiva in Galizia. La manifestazione durò per quattro giorni, mettendo parecchia paura al governo, dove si stava insinuando l’idea che i bolscevichi stessero preparando un’insurrezione, paura che produsse un’ondata di arresti, che colpì in vario modo i dirigenti più in vista. Lenin decise quindi di ripiegare in Finlandia. Con il fallimento dell’offensiva in Galizia e le conseguenti dimissioni di L’vov, Kerenskij diventa primo ministro. Una nuova ondata di arresti colpisce altri dirigenti, mentre si prepara il VI Congresso.
Per capire nella maniera più esaustiva quelli che erano gli argomenti fondamentali del dibattito, dovremmo citare interamente l’opuscolo Sulle Parole d’Ordine scritto da Lenin in latitanza, dove si spiega come mai era doveroso non riferirsi più al passaggio del potere statale ai Soviet, ma, dopo che i partiti che ne erano all’interno, come i socialisti rivoluzionari e i menscevichi, avevano offerto l’appoggio alla borghesia guidata dai cadetti in combutta coi monarchici, il proletariato avrebbe dovuto prendere il potere attraverso un’insurrezione armata.
Il VI Congresso precedette di poco due avvenimenti altrettanto significativi riguardo lo stato dei rapporti di forza concreti in Russia. Dopo una conferenza di Stato convocata da Kerenskij che raccolse un’infinità di strutture, associazioni e circoli, nell’agosto del 1917 ci fu un tentativo di colpo di Stato guidato dal generale Kornilov. Il tentativo in sé non fu niente di che, tanto da finire velocemente nel nulla, ma il solo fatto di averci provato, ed averlo fatto in questa situazione, montò ancor di più gli animi dei settori popolari per le tesi bolsceviche.
In risposta a questo tentativo di putsch, i menscevichi e i socialisti rivoluzionari convocarono un “Consiglio della Repubblica”, quello che passerà alla storia come Pre-parlamento.
La maggioranza che queste componenti mantenevano all’interno del Congresso dei Soviet si stava però sgretolando davanti all’avanzata dei bolscevichi, che in poco tempo conquistarono i Soviet di Pietroburgo.
Siamo ormai a settembre, e mentre Trockij esce di prigione, prendendo subito posto come presidente eletto del Soviet di Pietroburgo, si sviluppa la polemica che dividerà Kamenev e Zinovev da Lenin, Stalin e Trockij, sulla partecipazione alla conferenza democratica, una polemica che rivela una diversità di opinioni esiziale nelle sfumature tattiche da mantenere in queste settimane febbrili.
Queste divisioni, maturate di fronte ad una situazione carica di incertezze ma sentita come decisiva, portarono Lenin ad una critica serratissima alle posizioni di Kamenev, arrivando addirittura a rassegnare le dimissioni dal comitato centrale del partito, per svolgere senza reticenze il compito fondamentale da portare a termine per concludere il processo rivoluzionario.
Questa decisione, seguita da un imbarazzante silenzio del comitato centrale, porterà a quella che è probabilmente una delle riunioni più importanti del bolscevismo rivoluzionario e del processo rivoluzionario russo nella sua secolare storia. La sola presenza di Lenin, arrivato a Pietroburgo travestito per sfuggire alla cattura, porta il comitato centrale ad approvare ampiamente (10 voti contro 2) la preparazione dell’insurrezione armata per rovesciare il governo provvisorio, battere così la borghesia e prendere il potere, portando a termine la Rivoluzione. È il 10 ottobre 1917.
Questa decisione dovette comunque passare per un’altra assise, cioè una riunione allargata ai rappresentanti cittadini del partito, nonché a quelli dei sindacati, dei soldati dell’organizzazione militare dei Soviet e degli operai dei comitati di fabbrica. In questa occasione la spaccatura con Kamenev si dimostrò più consistente, ma il discorso tenuto da Lenin in risposta – discorso che toccava la questione interna, in cui ci si giocava militarmente il destino della nazione contro i reparti disorganizzati della borghesia (come Kornilov aveva dimostrato) ed esterna, come la situazione tedesca che avrebbe avuto una spinta dalla vittoria proletaria in Russia e avrebbe proseguito il percorso rivoluzionario sconvolgendo gli assetti dell’Europa occidentale – portò comunque la riunione ad approvare la linea del capo dei bolscevichi, confermando il percorso di preparazione dell’insurrezione armata.
Nello stesso giorno, il 16 ottobre, viene creato il “Comitato Militare Rivoluzionario”, presieduto da Trockij, l’organo che più materialmente si spese per la preparazione militare dell’insurrezione. Il 18 ottobre, Kamenev, dimissionario dal comitato centrale, pubblica sulla Novaija Zizn un articolo dove rivela la decisione del partito. Scoppia un caso che investirà i giorni immediatamente precedenti all’insurrezione (da tenersi prima della sera del 25 ottobre, data nella quale si sarebbe dovuto riunire il II Congresso Panrusso dei Soviet), che vide Lenin rispondere aspramente, chiedendo l’espulsione dal partito di Kamenev e Zinovev; Trockij negare che il partito avesse preso la decisione di un’insurrezione armata; Zinovev interpretare le parole di Trockij come un appoggio alle tesi di Kamenev; e un tentativo di mediazione di Stalin che produrrà la prima vera e propria polemica con Trockij.
Ma alla fine ognuno riprese il suo posto e la sera del 24 ottobre si tenne una riunione organizzativa che delineava un vero e proprio governo, distribuendo settori ai dirigenti che dovevano condurre le operazioni dalle diverse zone di Pietroburgo: “Trockij propose che alcuni membri del comitato fossero aggregati al Comitato Militare Rivoluzionario del Soviet di Pietroburgo con il compito di sorvegliare le comunicazioni postali, telegrafiche e ferroviarie e di far buona guardia al Governo Provvisorio. A Dzeržinskij furono affidate le ferrovie, a Bubnov le poste e i telegrafi, a Sverdlov il Governo Provvisorio; Miljutin ebbe l’incarico di provvedere agli approvvigionamenti”.
Il 25 ottobre 1917, nelle prime ore del mattino, questi reparti passano all’azione, occupando le posizioni strategiche ed arrestando i membri del Governo Provvisorio. Nel pomeriggio, Lenin, durante una riunione del Soviet di Pietroburgo, annuncia la vittoria della rivoluzione degli operai e dei contadini, mentre più tardi il II Congresso Panrusso dei Soviet proclama che in Russia il potere era passato nelle mani dei Soviet dei Deputati degli Operai, dei Soldati e dei Contadini. La sera del 26 ottobre 1917, nella seconda e ultima riunione del Congresso, furono adottati i decreti sulla pace e sulla terra, e fu approvata la composizione del Consiglio dei Commissari del Popolo, meglio noto come Sovnarkom – il primo governo degli operai e dei contadini della storia.
CREDITS
Immagine in evidenza: Lenin of Fremont
Autore: Ivan Meljac
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