Corre, corre, corre la locomotiva, ma col freno a mano tirato
Roberto Montanari – Unione Sindacale di Base
Il forum romano organizzato dalla Rete dei Comunisti sul Comunismo del ‘900 e gli incontri che ne sono seguiti, hanno il pregio di riprendere la discussione politica e teorica orientandola al di fuori delle volgarità antiscientifiche compulsivamente sostenute dal pensiero liberista e riformista variamente declinati.
Sfatata la panzana del “fallimento” del comunismo coincidente con la fine dell’URSS, considerato il fatto che ad oggi un terzo dell’umanità abita stati socialisti o vive in paesi dichiaratamente anticapitalisti ed antimperialisti e che centinaia di milioni di persone in tutte le parti del globo lottano per realizzare il socialismo e il comunismo abbattendo i loro regimi capitalisti, resta più propriamente in campo la categoria della “sconfitta” sebbene occorra definire con precisione quale sia il progetto che è stato veramente sconfitto.
Soprattutto per quanto riguarda le esperienze e le soggettività dell’occidente ove il socialismo non si è realizzato siamo sicuri che nei loro orizzonti vi fosse organica un’idea di società comunista?
Il caso italiano, dove si è cimentato il più forte partito comunista in un regime capitalista (ma la riflessione può essere estesa anche a parecchi altri partiti comunisti non al potere) e dove le forze del movimento operaio organizzato hanno animato la lunga stagione di lotte che va dal dopo guerra alla fine del secolo, è significativo per la pratica di un metodo sicuramente avanzato, ma non antagonista all’esistente.
Non si tratta solo di degenerazione revisionista consapevole, non occorre scomodare le categorie morali del tradimento – per quanto nell’evoluzione delle cose abbiano finito per affermarsi – si tratta proprio di “tare metodologiche” insinuatesi in corpi che erano sani, si tratta di “errori dapprima inconsapevoli”, verrebbe quasi da dire.
Ci aiuta nella comprensione il riferimento ad una fake news di carattere storico, si tratta di una tesi sostenuta da J.M. Keynes in un suo libello del 1919 “Le conseguenze economiche della pace”.
In questo testo egli scrive “Si dice che Lenin abbia dichiarato che il modo migliore per distruggere il sistema capitalista fosse quello di svilire la moneta.”
Il problema è che Lenin, in tutta la sua opera, non ha mai dichiarato questa cosa.
Quando ha parlato di inflazione lo ha fatto nei “termini un po’ moralistici” (chiosa T. Negri nel suo “Il dominio e il sabotaggio”) delle ricadute negative sugli strati popolari esattamente come sostenuto da tutti i socialisti e i rivoluzionari del tempo.
E quindi dove sta l’inghippo? Sta nel rendere debole, incompleto, il ragionamento e l’azione di Lenin, nell’inertizzare le potenza rivoluzionaria dei suoi insegnamenti, nel non riconoscerlo per quello che è.
Quello leninista è un pensiero complesso, stratificato, è davvero un attrezzo utile all’azione.
Limitare le sue riflessioni alla fase destabilizzante della crisi come arma per abbattere il capitale è una fake news che non è dato sapere se Keynes abbia usato in buona o cattiva fede per sostenere il proprio punto di vista.
In Lenin è al contrario presente il dualismo fortemente e dialetticamente abbinato di destabilizzazione e destrutturazione; non si dà una categoria senza il legame con l’altra.
L’agitazione della proposta di conquistare “pane, pace e lavoro” per il popolo russo era immediatamente collegata alla costruzione dei soviet, l’astrazione teorica sullo stato va di pari passo con quella sulla rivoluzione, insomma Lenin non si limita a colpire gli interessi materiali del capitale; per non lasciargli il tempo di riprendersi prende di mira le sue fondamenta, ne distrugge essenza, basi e narrazione, costruisce il progetto antagonista.
Nel nostro ‘900, la nostra sinistra, i “nostri” comunisti hanno agito la destabilizzazione senza costruire una proposta che comprendesse la destrutturazione del capitale; è stato un processo contraddittorio, nel quale si sono manifestate antitesi, ma l’egemonia è stata informata da quell’agire monco.
L’aspirazione al comunismo, sicuramente presente tanto nei gruppi dirigenti quanto nelle comunità militanti, non ha avuto l’oggettiva possibilità di dispiegarsi a pieno con l’esito finale di spianare la strada al revisionismo, al riformismo, sino all’aperta adesione al liberismo.
E’ con questa tara, con questo “peccato originale” che il più forte Partito Comunista dell’occidente si è presentato sul ring italiano della lotta di classe dopo la Resistenza per ricostruire e indirizzare il paese verso sorti magnifiche e progressive.
In questo senso, per quanto attiene alla mancata rivoluzione nel nostro paese, possiamo affiancare al concetto di sconfitta quello dell’incompiutezza (involutasi successivamente in manifesta ostilità al progetto).
Togliatti rientra in Italia da Mosca nel 1944 per guidare l’azione del PCI nella fase finale del regime nazifascista; è interprete ortodosso della linea espressa dalla Terza Internazionale dei Fronti Popolari, dell’unità ampia che comprende le forze socialiste, socialdemocratiche, liberali; è la linea del 7° Congresso, di Dimitrov, di Stalin, è la linea che chiude definitivamente con la teoria del socialfascismo, con l’individuazione delle socialdemocrazie (particolarmente quella tedesca) quali nemici frontali.
La declinazione italiana sancita con la svolta di Salerno, oltre all’unità con i badogliani, produce una serie di trasformazioni politiche ed organizzative che introducono la scelta della democrazia progressiva: un processo di avanzamento al socialismo mediante il rafforzamento della democrazia liberale e il partito nuovo quale strumento di attuazione del progetto.
Intendiamoci, si tratta di un posizionamento tattico giusto e necessario per i tempi, efficace per destabilizzare il vecchio regime, ma agito privandolo della componente destrutturante.
Anche la concezione del partito nuovo che si configura come organizzazione fortemente partecipata dalle masse, capace di costruire quel “paese nel paese” di pasoliniana memoria, portatore di una visione nazionale, di popolo, generale ed universale, contrasta però con la concezione comunista e rivoluzionaria di una rappresentanza teorico-politica parziale, espressione certamente di interessi nazionali e popolari, ma che non può che essere il frutto di un punto di vista particolare/parziale, quello della classe operaia.
Il PCI che porta l’Italia fuori dal ventennio fascista è un partito che deve rispettare il perimetro della divisione in aree di influenza scaturito dagli accordi di Yalta, ma non propone, non ha, un’idea di come far vivere un’ipotesi antagonista nei tempi che verranno; così passano l’amnistia per i fascisti – che lascia i corpi repressivi e separati dello stato strapieni di ex repubblichini (dal 1947 al 1969 saranno 171 gli operai e i contadini assassinati dalla polizia tanto che il PCI chiederà di disarmarla nelle operazioni di ordine pubblico) – e la fine della monarchia avviene mediante referendum e non come atto politico-istituzionale destituente, unilaterale, di frattura, ad opera di un nuovo ordine che ne prefiguri in potenza anche uno di carattere sociale.
Il PCI e le sue organizzazioni di massa producono crisi che però il capitale sa usare nella sua opera di continua ristrutturazione.
Siamo all’inizio di un cammino in cui il fattore destabilizzante, monco della capacità di destrutturare il sistema esistente, finirà con annunciarne la profezia anziché la fine.
In questo senso ad uscirne sconfitta non è tanto la proposta del realizzare il socialismo in Italia (poiché non era realmente in campo), ma una terza via dal sapore riformista pur avanzato e poi nemmeno più quello.
E’ questa la sinistra che egemonizzerà la lunga stagione di rinascita del movimento operaio dal dopoguerra, alla fase fordista.
Il “protettorato” americano conduce il nostro paese ad essere artefice di una ricostruzione post bellica poderosa e gli anni ’60 registrano il cambio di passo verso una modernità che cambia il profilo economico, materiale, urbanistico, culturale, antropologico dell’Italia.
Il “boom economico” che riempie le famiglie di elettrodomestici segna il passaggio da un’economia agricola (che registra tuttavia una significativa meccanizzazione) all’industrializzazione con il corollario dei fenomeni di inurbamento e la migrazione di masse di lavoratori dal sud al nord del paese (e dell’Europa).
La nostra produzione industriale tra l’agosto del 1964 e l’agosto del 1965 aumenta dell’8,5% mentre l’occupazione diminuisce del 5,2% con un conseguente rendimento del lavoro che si incrementa del 14,5%.
E’ il settore dell’auto che trascina la crescita in virtù di una particolare condizione: in Italia il numero di auto in rapporto al numero di abitanti è di 1 ogni 94 contro 1 ogni 20 dell’Inghilterra, 1 ogni 25 della Francia, 1 ogni 27 del Belgio, 1 ogni 28 della Svizzera (dalla relazione di Vittorio Valletta agli azionisti FIAT in occasione della presentazione del bilancio 1952).
La FIAT passa dalla produzione di 500 auto al giorno del 1952 alle 7.000/dì del 1968, il numero complessivo di 430.000 auto del 1959 aumenta a 1.452.297 nel 1968; in quell’anno l’azienda torinese arriva a produrre il 6% dei mezzi di trasporto individuale circolanti nell’intero pianeta.
Si tratta di un fenomeno che genera, con il parossistico aumento di produttività, una intensa pressione su chi è produttore di quei beni.
La cadenza lavorativa è compresa tra i 12 secondi e i due minuti al massimo, i corpi sono destinati a spezzarsi, oppure… a ribellarsi.
Mentre le città del nord si riempiono di fabbriche il sud si svuota, il divario cresce e a certificarlo sono le statistiche ISTAT che segnalano come le ultime 7 province italiane (concentrate nel meridione) producessero nel 1951 il 2,15% del reddito nazionale contro appena l’1,91% del 1967.
Come sempre nella storia del capitalismo crescita e sviluppo rendono i poveri sempre più poveri.
Questa situazione porta a trasformazioni anche nel corpo sociale, così muta la composizione di classe: dal punto di vista della COMPOSIZIONE TECNICA è interessante notare come in FIAT gli operai generici che nel 1947 erano il 37% del totale, passano al 47,6% del 1957 per salire al 65% nel 1970, mentre per quanto riguarda la COMPOSIZIONE POLITICA è da rimarcare la massiccia migrazione di proletari dal sud, portati ad un innato ribellismo dal punto di vista generazionale, forti di quella condizione legata alle comunità migranti che è il mobility power cioè la possibilità, non essendo ad esempio presente la famiglia, di cambiare luogo ed attività lavorativa in base al fatto di sentirsi soddisfatti o meno. Negli anni immediatamente vicini al 1968 in FIAT ogni mese entrano circa 1.000 nuovi assunti ed altrettanti si dimettono.
Questa massa enorme, repentinamente e vorticosamente inserita nelle fabbriche del nord, incrocia le vecchie figure operaie, quegli operai di mestiere, che sono altamente professionalizzati e fedelmente politicizzati.
Fabrizio Colonna è autore di “Sindacati a Torino”, un’inchiesta svolta nel 1969 sulla composizione delle organizzazioni sindacali torinesi, dalla quale emerge che il 60% dei quadri ha più di 41 anni, il 54% ha alle spalle oltre 20 anni di militanza (proviene dalle fila della Resistenza o comunque dalle lotte dell’immediato dopoguerra), il 90% aderisce al sindacato per ragioni “ideologiche” ed infine il 50% non proviene dalla categoria operaia (sono impiegati pubblici o privati, o licenziati politici).
Il sindacato, nell’impero dell’auto, non è per niente radicato, anzi la FIOM, nelle elezioni delle Commissioni Interne del 1955 ha subito un consistente arretramento.
Anche l’organizzazione del PCI nella FIAT del 1969 registra numeri molti bassi: in tutto un migliaio di iscritti suddivisi in 250 a Mirafiori, 200 alle Ferriere, 200 a Mataferro, 150 a Stura, 144 in Zona Nord (dati forniti da Giovanni Longo nell’intervista pubblicata in “Memoria FIOM”).
E’ questo lo scenario economico e politico nel quale nasce il nostro moderno movimento operaio, quello dell’operaio massa, quello che darà vita al lungo ciclo di lotte tradite, a quel vero e proprio assedio degli esclusi.
I prodromi li vediamo in Genova 1960 la grande rivolta antifascista per impedire che il MSI tenesse il proprio congresso nella città medaglia d’oro della Resistenza. In quei giorni si ricompose nella lotta la componente resistenziale dei partigiani, con quella giovanile delle cosiddette magliette a strisce (la moda dei ragazzi di allora). Fu una mobilitazione che portò addirittura alla caduta del governo democristiano retto da Tambroni.
Turbosviluppo e torsione autoritaria sono le cifre del capitale in quel passaggio che però comincia a produrre fratture sociali di tipo nuovo la cui manifestazione avviene nella forma di vere e proprie rivolte. Un’insorgenza, quella genovese, compatibile col PCI nel segno dell’antifascismo e della Costituzione, ma sarà l’ultima volta.
I prodromi più segnatamente operai e sindacali li possiamo individuare in un evento del 1960 (peraltro poco indagato anche dal filone operaista) ed è riconducibile allo sciopero per il contratto degli elettromeccanici a Milano. Se Torino è legata all’industria dell’auto, Milano è l’elettromeccanica con la Siemens in testa. Lo sciopero in questione porta in piazza decine di migliaia di lavoratrici e lavoratori, come da tempo non si vedeva, ed è interno ad una vertenza dura ed articolata. Emergono nuove forme di lotta che preannunciano gli scioperi a gatto selvaggio, ma non solo, agiscono forme conflittuali che costruiscono un immaginario operaio che sa parlare al di fuori della fabbrica.
In quella vertenza è singolare l’invenzione della marcia degli zoccoli. Infatti la caratteristica degli elettromeccanici è che nelle dotazioni di vestiario loro in uso ci fossero gli zoccoli di legno, quindi nel corso dei loro cortei cittadini gli operai marciano in silenzio col solo rumore degli zoccoli; un silenzio assordante, uno strascicare che esprime plasticamente il suono della rivolta operaia.
Ma l’aspetto interessante è che lì protagoniste sono le donne, sono loro ad animare le lotte, sono quelle però inquadrate ai livelli più bassi, le qualifiche di mestiere sono riservate agli uomini.
Le donne elettromeccaniche milanesi rappresentano davvero l’epifania dell’OPERAIO MASSA.
Il 29 giugno del 1962 tocca a Torino lanciare il segnale dell’insorgenza e ciò avviene in occasione di uno sciopero promosso da FIOM e FIM a sostegno della lotta in FIAT. Nella mattinata di quel giorno gira la voce di un accordo separato sottoscritto da UIL e SIDA (un sindacato giallo espressione degli Agnelli), è la scintilla che infiamma la prateria.
I lavoratori, moltissimi i giovani meridionali, si recano a Piazza Statuto ove ha sede la UIL e tentano ripetutamente di assaltarla.
Prenderà corpo una vera e propria guerriglia con l’esito di un migliaio di arresti.
PCI, CGIL e forze della sinistra tradizionale condanneranno quegli eventi dimostrando la loro non familiarità con un fenomeno nascente viziato certo di spontaneità, ma dall’immanente sapore di antagonismo.
Si apre una frattura sociale dai contorni complessi, che mette in discussione il modello FIAT, l’egemonia padronale e al tempo stesso segna una rottura interna alla classe stessa, tra i vecchi operai specializzati e i giovani addetti alle linee di montaggio a bassa professionalità con mansioni sovrapponibili.
E’ un colpo alla tradizionale etica del lavoro, all’immaginarsi tutti interni (e subalterni) al ruolo di cooperazione nell’accumulazione; emergono aspetti di autonomia sicuramente acerbi, ma destrutturanti e purtroppo lasciati a se stessi, non coltivati dentro un progetto rivoluzionario.
Sta di fatto che la potente insorgenza dell’operaio massa prodotto dal neocapitalismo, come verrà definito dagli operaisti, segna la cifra di quella fase nuova che si invererà nell’autunno caldo.
E’ il 1969, “l’autunno” si annuncia già dalla primavera e ad aprire le danze sono i metalmeccanici torinesi.
L’11 aprile viene indetto uno sciopero nazionale di 3 ore per i tragici fatti di Battipaglia e riesce clamorosamente bene in tutto il paese; alla FIAT sono in particolare i giovani meridionali immigrati a rendersi protagonisti della lotta. Nell’assemblea interna avviene un fatto desueto raccontato da Marco Revelli nel suo “Lavorare in Fiat”, un quadro operaio, Francesco Morini, iscritto allo PSIUP e alla FIM-CISL sale su un tavolo in sala mensa ed inneggia al NORD-SUD UNITI NELLA LOTTA. Segmenti di classe distinti e divisi (non dimentichiamo che allora nei quartieri popolari non erano pochi i cartelli appesi davanti alle case con la scritta “Non si fitta ai meridionali”) cominciano ad unirsi.
Il 13 maggio è sciopero alle Ausiliarie, in questo caso a mobilitarsi sono le figure legate all’aristocrazia operaia, lavoratori altamente professionalizzati che temono la perdita del posto di lavoro e di autonomia causata dall’introduzione delle nuove macchine a controllo numerico.
Nei mesi successivi si muovono i carrellisti, poi i gruisti e a seguire tutti gli altri reparti.
E’ in questo contesto che emerge il ruolo protagonista dei giovani, degli immigrati, dell’operaio massa, dei fazzoletti rossi, di quelle avanguardie operaie che si distinguono per il fatto di entrare e circolare nella fabbrica col fazzoletto rosso al collo. Sono gli agit prop sempre pronti a fermare la catena di montaggio per ogni angheria di capi e capetti, per i ritmi inumani, vanno a rimpolpare principalmente la FIOM, ma politicamente si riconoscono nei raggruppamenti più radicali della sinistra. In una intervista che racconta di quegli anni Garavini parla di una FIOM maggioritaria nelle lotte, ma riconoscerà che l’egemonia in esse è dei fazzoletti rossi.
E’ una stagione nella quale il conflitto operaio si riaccende, si radicalizza e muta le forme. Lo sciopero è articolato, a gatto selvaggio, si colpisce cioè il ciclo produttivo nei suoi segmenti, in modo tale che fermando una parte si ferma o si rallenta tutto il processo.
Si bloccano i cancelli, proliferano i cortei interni. Sono questi a costruire il senso comune della classe, sono il simbolo di un potere operaio che dilaga come un fiume dentro i reparti, nei viali, a fianco della catena di montaggio, sono la potenza dei proletari che si riappropria dello spazio, della fabbrica.
Il rinnovo del contratto metalmeccanico del 1969 pone al centro l’obiettivo della riduzione dell’orario di lavoro a 40 ore settimanali, il diritto all’assemblea, il contingentamento del lavoro straordinario e soprattutto aumenti salariali uguali per tutti.
L’entrata dell’egualitarismo nell’agenda politica del sindacato mette in luce la frattura tra il carattere destabilizzante e destrutturante dell’iniziativa operaia. Non a caso una figura di spicco come Trentin esprimerà tutto il suo dissenso nei confronti della spinta egualitaria nel nome del riconoscimento della professione, cioè di quel lungo percorso che porta l’operaio a specializzare le proprie capacità stando dentro alla carriera, considerata come scuola della classe.
La visione pre-fordista della classe, presente anche nella sinistra delle organizzazioni del movimento operaio, produce sì un incontro tra vecchi e nuovi soggetti, bisogni, pratiche, ma non cogliendone il carattere di immanente antagonismo tende ad imbozzolarli, a rinchiuderli nel perimetro dell’economicismo, di un riformismo progressivo e progressista.
Resta il fatto che gli scatti in avanti prodotti dal conflitto di classe determinano la necessità di dare forma adeguata al protagonismo dei lavoratori ed è in quella fase che l’organizzazione nel luogo di lavoro si struttura nei Consigli di Fabbrica e nei delegati di reparto, una forma di contropotere operaio.
La stagione a cui da vita l’autunno caldo mette al centro una visione altra circa il rapporto uomo-macchina, il tempo di lavoro e di vita, i ritmi, la disciplina, le gerarchie, il potere.
Emerge con forza l’elemento della centralità della liberazione rispetto quello della negoziazione, in quelle lotte vive, purtroppo in modo spontaneo mancando una soggettività strutturata, l’immanenza del comunismo come autogoverno dei produttori.
Il conflitto paga ed infatti in FIAT si passa dalle 9,16 auto prodotte per unità lavorativa nel 1968 alle 8,11 del 1973.
E’ sempre Revelli nel suo minuzioso lavoro di raccolta delle interviste operaie in FIAT in quel periodo a rendere conto del clima nuovo prodottosi, del fatto significativo e simbolico che fa raccontare ad esempio a N.S. giovane operaio delle Carrozzerie riguardo i mercatini autogestiti interni: “…a Mirafiori potevi comprare di tutto, dall’accendino, al giubbetto, alla radiolina: c’era una specie di mercato delle pulci circolante” i generi alimentari e le altre merci venivano introdotte in fabbrica e commercializzate tra colleghi in orario di lavoro ed in spregio al controllo dei capetti.
“Andare in FIAT era ormai una cosa quasi umana” arriva a dire N.S.
Queste lotte, questa forza, vengono convogliate dalla sinistra politica e sociale all’ottenimento delle importanti riforme di struttura degli anni ’70: sanità pubblica, edilizia pubblica, urbanistica pianificata, scuola pubblica. Sono risultati importanti che avvengono però all’interno del perimetro capitalistico senza metterlo in discussione, anzi favorendone la riorganizzazione.
Il contratto dei metalmeccanici del 1979 sarà l’ultimo con un profilo conflittuale vero.
La risposta del capitale sarà lenta, ma inesorabile, e l’attacco alle conquiste operaie avviene mediante la riorganizzazione che porta alla fase post fordista; ciò significa automazione delle produzioni o di spezzoni di essa, frantumazione delle linee, aumento della produttività, marginalizzazione del lavoro con migliaia di esuberi in tutto il paese.
In FIAT, che citiamo continuamente in quanto frammento ologrammatico del capitalismo italiano, si passa dai 102.508 dipendenti del 1979 ai 55.398 del 1984, un risultato ottenuto anche con i licenziamenti politici, le marce organizzate dei capetti, la blanda opposizione di sindacati e partiti di sinistra.
Giova ricordare che la FIAT ristruttura e licenzia pur avendo ricevuto dallo stato italiano come finanziamenti o detrazioni fiscali 8.000 miliardi di vecchie lire tra il 1980 e il 1988, 600 dei quali per esodare 40.000 persone (dati S.Garavini – convegno regione Piemonte del 14/03/1988).
Se il capitale passa all’attacco trasformando la crisi procurata dalle lotte operaie in terapia ricostituente, per contro la sinistra non riesce nemmeno a mettere in campo una difesa almeno efficace delle conquiste ottenute.
Il PCI non ciancia più di una via italiana al socialismo, di progresso; il progetto strategico diviene quello dei governi di solidarietà nazionale col pretesto di difendersi dal rischio fascista (in Italia ci sono stati diversi tentativi di golpe falliti, strategia stragista della tensione, mentre nel 1973 in Cile Pinochet assassina l’esperienza socialcomunista guidata dal Presidente Allende).
Nel nome della lotta alle Brigate Rosse e alle altre formazioni combattenti la sinistra nostrana si piega ad una torsione repressiva e conservatrice che mina le stesse basi liberali su cui si è costruito il paese.
Gli anni di piombo, gli anni della legislazione reazionaria e d’emergenza tesa a colpire le lotte portano la firma del PCI, portano la sigla del compromesso storico, di fatto una partecipazione esterna ai governi centristi. Tra il 1975 e 1991 il 93% dei progetti di legge vengono approvati congiuntamente da DC e PCI senza passare per le Camere. E’ un bello schiaffo al principio liberale del potere legislativo del Parlamento e alla Costituzione da parte di un partito che l’ha varata come declinazione del progetto di democrazia progressiva verso il socialismo.
Analogamente il sindacato vira verso un moderatismo suicida e nel 1978 avviene la svolta dell’Eur, la riunione dei consigli generali dei quadri di CGIL, CISL e UIL, che sancisce la politica dei sacrifici, ma per i lavoratori, mica per i padroni.
Il direttore di Repubblica, Eugenio Scalfari, nel gennaio 1978 pubblica la storica intervista al segretario generale della CGIL Luciano Lama che non si vergogna di dichiarare: “… il miglioramento delle condizioni economiche degli operai occupati deve passare in seconda linea […] non si devono obbligare gli imprenditori a tenere gli operai…”.
Con queste parole che diventano la bibbia della sinistra istituzionale italiana si chiude il ciclo virtuoso del movimento operaio italiano lasciando mano libera al capitale per aumentare sfruttamento, impoverire i salari, porre fine al sistema di lavoro assistito andando a colpire anche gli ammortizzatori sociali.
Nel momento storico in cui più di altri sarebbe stato necessario contrapporre il punto di vista di classe alla narrazione capitalista se ne subisce in pieno l’egemonia.
L’efficienza dell’impresa diviene il criterio di valutazione del progresso, lo stare aggressivamente sul mercato è il parametro con cui si verifica l’efficacia delle strategie imprenditoriali, il profitto è condizione di sopravvivenza a cui tutto deve piegarsi.
Per il sindacato che si trasformerà in concertativo tutto ciò diviene legge naturale, criterio universale, è l’apoteosi dell’egemonia del capitale, un’egemonia che si afferma nel pieno dell’interpretazione gramsciana intesa come capacità di assumere l’interesse generale (in questo caso di indurre a farlo pensare) come proprio programma politico.
Il generoso assalto al cielo del movimento operaio dal periodo post bellico sin quasi al termine del ‘900 e il suo ingabbiamento nella temporanea passività attuale, non rappresentano la sconfitta fallimentare di un’idea di transizione ad una società socialista, non sono la fine e il fallimento della missione dei comunisti in Italia, raffigurano al contrario la disastrosa rovina del riformismo e lasciano inalterate le possibilità di vittoria sul capitale.
Lo straordinario intreccio tra la capacità egemonica dei comunisti nella guerra di Liberazione, le condizioni di sviluppo repentino del capitale, la nascita di una classe operaia che ha saputo ricomporre vecchie e nuove figure, la profonda intensità del conflitto sociale e di classe, le congiunture internazionali rappresentate dai percorsi di liberazione dal colonialismo e dall’imperialismo di quegli anni sono la cifra di una rivoluzione possibile, ma mancata per la mancanza di soggettività politica.
Le cose sono solo rinviate.
La Rete dei Comunisti rappresenta in questo senso una delle opzioni perché il rinvio cominci a rimettere in movimento mete e cammini. Non pretende certo di definirsi come il soggetto mancato e che manca, ma il suo lavoro teorico, ideologico e le pratiche di conflitto dei suoi militanti giovani, meno giovani e un po’ attempati sono la precondizione per rimettere in campo l’idea di un socialismo e un comunismo possibili nel nostro paese.
Particolarmente interessante è la presenza e l’iniziativa nel sindacato di classe per la ricomposizione dei soggetti costituenti la categoria operaia al tempo delle catene del valore.
La globalizzazione neoliberista, oggi in crisi ed in fase di riorganizzazione a causa di pandemie, crisi climatiche e guerre, ha prodotto dumping ed esternalizzazioni che vanno rimesse in rete per far giocare alla classe il ruolo che le compete.
Intanto occorre rompere quelle leggi naturali del capitale a cui facevamo riferimento prima ridando un punto di vista di classe capace di divenire senso comune, essere davvero percepito come interesse generale e programma politico.
I primi segnali cominciano a vedersi ad esempio nella ripresa delle lotte operaie e non solo.
Il compito dei comunisti qui ed ora è quello di organizzare il conflitto, superare la passivizzazione in cui è stato fatto sprofondare il movimento dei lavoratori e quanto avviene in alcuni segmenti di esso quali il trasporto pubblico, i porti, la siderurgia, la logistica (oltre a esperienze interessanti nel settore pubblico) stanno a dimostrare che è più che lecito e possibile osare lottare per osare vincere.
Oltretutto questa ripresa di protagonismo operaio riesce ad intercettare momenti di alleanza con il movimento giovanile e studentesco unificando differenti fronti di lotta.
Il lavoro svolto nel settore logistico in questi anni ha contribuito a rompere le incrostazioni della passività rianimando un immaginario legato alla possibilità dell’ottenere risultati alla faccia del “non cambia mai nulla”.
Rompere il mantra delle compatibilità, della difesa del mercato per non rischiare la perdita del posto di lavoro è quanto ha fatto il ciclo di lotte dei facchini in questi ultimi 15 anni.
E’ in questa ripresa della conflittualità che può concretizzarsi il percorso di valorizzazione del proprio ruolo antagonista, della propria coscienza di classe.
In questo senso vengono agite le vertenze che mettono al centro gli aumenti salariali come variabile indipendente, completamente sganciata, dalla richiesta ossessiva di parte padronale dell’aumento della produttività; del controllo operaio sui carichi e i ritmi di lavoro autodefinendo la quantità di fatica da vendere, il rifiuto fermo delle gerarchie aziendali, del dominio autoritario di capi e capetti.
La sperimentazione che come comunisti facciamo nelle lotte sindacali della logistica è quella di portare a sintesi volontà conflittuale, radicalità nelle forme, il tutto nella consapevolezza del proprio ruolo di classe, cioè il passare dalla considerazione di essere semplici salariati a quella di essere invece produttori di ricchezza: una ricchezza che viene estratta da chi è padrone di magazzini, rulliere, furgoni, tir e che dobbiamo invece riprenderci.
Ma lottare non è sufficiente, occorre riprendere il lavoro profondo di studio delle tendenze imprenditoriali in un mondo che cambia costantemente, che ha imparato dai virus la mutagenesi come condizione darwiniana per la sopravvivenza; e noi lo facciamo non per vezzo intellettualistico, lo facciamo per poter combattere meglio i nostri nemici perchè solo chi odia conosce veramente.
Il comunismo nel cuore dell’impero, nel terzo millennio di storia di questo pianeta, mantiene inalterato il suo senso e la sua superiorità, dobbiamo riprendere ciò che non è stato completato, destabilizzare e destrutturare il capitalismo, ci sono tutte le ragioni per insistere e a chi ci dice che abbiamo fallito rispondiamo con le parole di Samuel Beckett: “Non discutere. Fallisci ancora. Fallisci meglio”.
CREDITS
Immagine in evidenza: Manifestazione edili a Tiburtino Terzo – Roma, 1972
Autore: Fillea Roma e Lazio
Licenza: Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.0 Generico
Immagine originale ridimensionata e ritagliata