Luciano Gelmi – Militante della Rete dei Comunisti a Milano – dottore di ricerca presso l’Università Lomonosov di Mosca
Vi parlerò del sistema universitario sovietico, così come l’ho conosciuto durante i miei studi presso l’Università Statale di Mosca (Università Lomonosov) nel periodo dal 1975 al 1986. Per ragioni di lavoro sono poi tornato a vivere a Mosca nel 1989, rimanendoci fino all’estate del 1996; poi ho continuato a frequentare l’ex URSS fino al 2020 e, quindi, ho visto cosa è diventata nei 30 anni postsovietici la Russia, e perciò devo fare qualche considerazioni iniziali, altrimenti si potrebbe pensare che racconto storie inventate sul sistema universitario sovietico.
Il compito dell’istruzione popolare superiore, così come definito dai bolscevichi e dal primo Narkom per l’istruzione popolare della giovane Russia sovietica, Anatoliy Vassilyevich Lunacharskiy, era quello di formare l’intellighenzia proletaria-contadina. Il sistema è rimasto a lungo fedele al suo compito, sia per quello che riguarda la sua struttura, la sua qualità, il suo contenuto e per i mezzi che lo stato li conferiva. Per parlare di quanto riguarda invece la sua “tenuta ideologica” nel tempo, dividerei – basandomi su mie considerazioni e percezioni, cioè, fornendo una testimonianza onesta, ma con i limiti propri ad ogni testimonianza personale – il periodo, in cui l’ho conosciuto, nel modo seguente:
Dal 1975 fino alla fine degli anni ’70: gli universitari sovietici credono nel progetto sovietico, problemi della società vengono trattati come fenomeni che si superano strada facendo, e comunque c’è fiducia nel futuro. Una indiscutibile testimonianza ne dà il cinema degli anni ’60 e ’70, così come la televisione della fine degli anni ’70 (cioè nel periodo in cui la guardavo); esiste un grande numero di film di alta qualità artistica, etica, di alto contenuto intellettuale, e non noiosi, in cui vengono trattati da posizioni costruttive (cioè da posizioni del socialismo) i problemi della società, del sistema economico e produttivo, e dove sono spesso operai a lottare per il miglioramento.
Inizio anni 80, fino alla morte di Brezhnev: non solo nell’ambito universitario, ma in generale a Mosca e altrove incomincia a diffondersi un disagio morale, anche nutrito dalle voce che parlano di giri loschi dell’entourage di Brezhnev; lui stesso si rende poco serio a seguito dell’uscita e della divulgazione a tamburo battente del fascicolo di cui sarebbe l’autore, in cui si narra con enfasi sulla sua partecipazione alle battaglie per la “Malaya Zemkya” (“Piccola terra” – denominazione di un territorio vicino a Novorossiysk) durante la Grande Guerra Patriotica. All’università si ridacchia dicendo che la Grande Guerra Patriotica era un piccolo episodio delle grandi battaglie nella Malaya Zemlya. Incomincia ad incrinarsi il rapporto di fiducia.
L’anno 1983 sembra dover essere epocale: l’arrivo di Yuri Andropov alla guida del PCUS ridà fiducia al popolo intero. Il sentimento è condiviso anche in ambito universitario; durante un anno sui giornali sovietici importanti si leggono analisi politiche e economiche che riallacciano alla scienza comunista, cioè, si ritrova il polso scientifico di Marx, Lenin, per citare soltanto questi. Se ne parla per strada, all’università.
Con la morte di Yuri Andropov finisce il tentativo del PCUS di meritarsi la qualifica di “marxista leninista”. Dal 1984 in poi si sente all’università come in tutta la società un lasciare andare, uno scioglimento, un senso di sfiducia e di impotenza. Per dare una testimonianza sull’aria che era venuta su: non mi ricordo con precisione se era nel 1984 o 1985, che uno studente della facoltà di giornalistica, membro del PCUS, mi racconta, un po’ sottovoce, in modo confidenziale, con orgoglio, che la sua sezione del partito aveva un gruppo di studio dedicato all’economia del mercato in Russia. Da notare due cose: la prima è che si parla già chiaramente dell’economia di mercato in una sezione del PCUS della facoltà di giornalismo, che non si può non qualificare di alta importanza ideologica; la seconda è che se ne parla in modo confidenziale, ossia, non esiste una discussione aperta sulla questione (con il senno di poi, è facile intuire che non si trattava di riflessioni su un eventuale economia di mercato socialista, ma bene di un’economia capitalista).
Chiudo queste considerazioni saltando nel 1990: in una conversazione a Mosca, una Signora che faceva parte della nomenklatura, membra del PCUS, parlando della situazione mi diceva : ”Vogliamo lo zar Boris sul trono”.
Ora torno indietro al 1975, per parlare del sistema universitario sovietico.
Nel 1975 l’istruzione universitaria sovietica si presenta ancora come il luogo dove si formano ingegneri e scienziati sovietici, ossia: cittadini con formazione politecnica, capaci di operare in autonomia nel sistema produttivo, con un’etica socialista, basata su una visione materialista della storia e della natura. Nel termine “sistema produttivo” includo tutti i settori dell’attività umana, quella prettamente industriale, agricola, scientifica, artistica.
Il sistema dell’istruzione sovietica si è evidentemente evoluto dal tempo della sua formazione, perfezionandosi e adeguandosi negli anni alle nuove esigenze del livello di sviluppo del sistema produttivo e della scienza, e alle crescenti possibilità e risorse che lo stato sovietico riusciva a garantirli. Già alla fine degli anni ’60, l’URSS ha con la LGU di Leningrado e la MGU di Mosca delle università che figurano tra le migliori al mondo.
L’Università sovietica era anche il luogo in cui l’Unione Sovietica dava un esempio pratico della sua funzione di forza antiimperialista e anticoloniale, solidale dei paesi in via di sviluppo e i loro popoli.
L’università sovietica era aperta a studenti di questi paesi per formare ingegneri e scienziati che avrebbero poi contribuito allo sviluppo dei loro paesi e come – questa era la formula sovietica utilizzata – “internazionalisti e veri patrioti del loro paese”. Arrivavano in URSS senza padronanza della lingua russa ed iniziavano l’iter con un anno accademico di apprendimento della lingua presso una Facoltà propedeutica, come esisteva anche presso la MGU. Gli studenti della Facoltà propedeutica provenivano quasi esclusivamente dai paesi in via di sviluppo. Durante l’anno accademico 1975 – 1976, in cui ci ho studiato anch’io, il numero dei paesi di provenienza era di ben 72. E questo numero è ancora salito negli anni successivi. La stragrande maggioranza proveniva dall’Africa, dal mondo arabo, dall’America latina, dall’Asia. C’era un contingente notevole di studenti vietnamiti, cubani, afgani, della Corea Popolare.
All’arrivo tutti ricevevano gratuitamente indumenti invernali (cappotto, colbacco, intimo caldo, ecc.), passavano le visite mediche (obbligatorie per tutti gli studenti, sovietici e non) presso il Policlinico dell’Università, li veniva attribuito un posto nella casa dello studente. Facoltà propedeutiche di questo tipo esistevano non soltanto presso la MGU, ma anche presso altre università in varie città dell’URSS. A Mosca ce n’erano almeno due (cioè, io so di due): una presso la MGU, l’altra presso l’Università Patrice Lumumba. Quest’università, il cui nome completo è “Università dell’amicizia del popoli Patrice Lumumba” era dedicata quasi completamente all’istruzione per studenti venendo dai paesi in via di sviluppo. Il numero di studenti sovietici che frequentavano quest’università era ridotto; erano lì piuttosto a sostegno degli studenti stranieri. Una parentesi: nel 1992 i nuovi padroni politici della Russia avevano ben pensato di togliere all’università il nome di Patrice Lumumba, ma pochi anni fa, in occasione della visita di una delegazione officiale dei paesi africani a Mosca, hanno dovuto fare marcia indietro. La delegazione è andata a visitare l’Università, che ha formato anche tanti quadri degli attuali gruppi dirigenti africani.
Alla fine dell’anno accademico gli studenti stranieri dovevano passare un esame di verifica delle loro conoscenze di lingua russa e delle materie specifiche, alle quali intendevano dedicare gli studi. Secondo l’esito di questi esami, una commissione didattica decideva l’istituto di attribuzione. Alcuni rimanevano presso la MGU, altri venivano indirizzati in uno dei tanti istituti o università in varie città del paese. Per dare due esempi: non pochi studenti stranieri hanno fatto i loro studi presso l’università di Kiev e di Kharkov.
Passo alla descrizione del funzionamento del sistema universitario vero e proprio.
Chi erano gli studenti? Nella stragrande maggioranza erano ragazze e ragazzi sovietici, ai quali si aggiungevano anche studenti stranieri: quelli provenienti dalle facoltà propedeutiche appena descritte, quelli provenienti dai paesi delle democrazie popolari (DDR, Bulgaria, Polonia, Romania, Cecoslovacchia, Ungheria). L’età media degli studenti sovietici al primo corso era di 17 anni, quindi più bassa rispetto a quella dei “colleghi” occidentali. Qualcuno degli studenti sovietici era anche un po’ più vecchio. Infatti, c’erano posti preferenziali (nel senso che c’era un numero di posti d’iscrizione riservati) per chi aveva già alle spalle il servizio di leva, o chi dopo qualche anno d’esperienza lavorativa aveva deciso di fare degli studi universitari. Questa gente veniva preparata durante un anno presso la “Rabotchiy Fakultet” – facoltà dei lavoratori; lo scopo di questa facoltà era di facilitare il rientro allo studio universitario a chi, per forza di cosa, aveva un po’ perso il passo.
Per tutti le condizioni di studio e di alloggio erano identiche: tutti ricevano un alloggio presso una delle tante case per studenti (eccezione fatta per chi abitava la città nella quale si trovava l’istituto), ricevevano tutti i manuali e libri di studio necessari – che alla fine dell’anno accademico venivano restituiti alla biblioteca della facoltà -, e ricevevano uno stipendio mensile. Il diritto allo studio era un diritto fondamentale per ogni cittadino sovietico, e per renderlo reale, lo Stato forniva l’indipendenza economica necessaria. Lo studio era considerato “il lavoro dello studente”; era la sua attività produttiva indirizzata al futuro della società, e veniva retribuita. Così come c’era il diritto allo stipendio, c’era l’obbligo di giustificarlo. La giustificazione consisteva evidentemente nel risultato, che si misurava con una pagella. L’entità dello stipendio poteva diminuire, se i risultati erano mediocri. Preciserò il significato del termine “mediocri” più avanti.
Un accenno sull’entità dello stipendio. Lo stipendio normale bastava ampiamente per nutrirsi, per acquistare quaderni e materiale simile, per l’abbonamento mensile per i mezzi pubblici, per il cinema e il teatro. Per dare un esempio: il pranzo presso le mense universitarie costava 30 Kopeke. Il prezzo pieno era di 60 Kopeke, ma con i ticket che forniva il sindacato studentesco il prezzo si riduceva alla meta. Calcolando con 30 Kopeke, cioè 0,3 rubli, si arriva a 9 Rubli mensili, ai quali bisogna aggiungere evidentemente la spese per la colazione e la cena, ma, visto che tutte le case dello studente avevano delle cucine d’uso collettivo, non era certamente necessario andare a ristorante. Gli stipendi erano di 45 Rubli, presso qualche facoltà anche maggiori.
In Unione Sovietica ognuno che ne aveva le capacità aveva la possibilità di studiare. Il sistema scolastico di base sovietico motivava, spingeva ragazze e ragazzi allo studio. Non si studiava certamente per “guadagnare soldi”, per “arricchirsi”. A chi voleva farsi un “tesoretto” conveniva andare a lavorare nelle fabbriche. Ciononostante, gli istituti superiori e le università erano pieni di studenti, di ricercatori, di professori. C’era nell’aria una grande voglia di conoscenza, una grande fame di sapere. C’era una specie di fede nella capacità umana di scoprire le leggi dell’universo, nella forza della scienza, nel fatto che la cultura, il progresso scientifico e tecnico avrebbero migliorato le condizioni di vita quotidiana. Questo era il risultato della politica culturale bolscevica, era il senso – misurabile – di cosa i bolscevichi intendevano, quando dicevano che la scienza deve essere popolare. L’avidità di cultura tra gli studenti si esprimeva anche nella forma seguente: visto la grande richiesta per biglietti per spettacoli teatrali, si organizzava dei gruppi d’acquisto biglietto. I gruppi consistevano in squadre che facevano i turni davanti alle casse, che erano al solito delle specie di edicole, davanti alle quali la coda di chi voleva un biglietto si formava verso le 10 di sera, stava lì tutta la notte (d’inverno, come d’estate) per essere “sul pezzo” la mattina seguente, quando iniziava la vendita. Questo, nonostante il fatto che gli istituti universitari avevano, come regola, la loro casa della cultura con auditori per teatro e concerti, dove si esibivano anche i grandi artisti contemporanei sovietici, che avevano l’obbligo di fare ogni anno un certo numero di prestazioni presso fabbriche ed università.
Tornando al sistema universitario: praticamente tutti i settori della scienza, della tecnica, della tecnologia, della creazione artistica avevano istituti e università dedicati, presso i quali si svolgeva grande parte della ricerca e la formazione dei futuri specialisti. Sarebbe difficile nominare un settore scientifico o ingegneristico o artistico, che non fosse stato coperto.
Lo studio presso quasi tutti gli istituti e/o facoltà durava 10 semestri, ossia 5 anni accademici, ad eccezione degli studi di fisica (11 semestri) e di medicina (12 semestri). Per essere accettato, gli sovietici dovevano passare un esame d’ammissione sulle materie principali (per dare un esempio: alla facoltà di fisica queste materie erano fisica e matematica) e un esame di lingua e letteratura russa. Per chi non viveva nella città dove si trovava l’università, per il periodo degli esami era a disposizione, gratuitamente, un posto in una casa dello studente.
Per finalità didattica, presso la rispettiva facoltà, gli studenti di ogni anno accademico erano distribuiti in gruppi. Il numero degli studenti per gruppo variava tra i 15 ai 20 persone. Ogni gruppo eleggeva un suo delegato che lo rappresentava davanti ai responsabili della facoltà. Ogni corso aveva un Responsabile del corso, ogni gruppo un Responsabile del gruppo. Questi Responsabili erano insegnanti, il cui compito consisteva – oltre alla loro normale attività d’insegnamento e di ricercatore – nel seguire l’andamento didattico. Se, ad esempio, uno studente aveva un problema didattico, o semplicemente una difficoltà con una materia, si rivolgeva al Responsabile gruppo o al Responsabile del corso, o ai Responsabili delle Cattedre. Veniva considerato normale che gli insegnanti erano a disposizione degli studenti. Era evidente – questo è una mia considerazione personale – che tramite il sistema d’insegnamento lo Stato faceva quanto possibile per trasmettere sapere agli studenti, perché alla fine del percorso fossero in grado di lavorare in autonomia. Lo scopo non era quello di eliminarne il più possibile, ma portarne avanti il più possibile, tuttavia, e questo è importante, con un inquadramento didattico tale da garantire che lo studente si appropriasse effettivamente le conoscenze richieste.
Gli insegnanti, a loro volta, rispondevano della loro attività didattica davanti alle “autorità della facoltà” (il decano della facoltà, la commissione didattica, nella quale era rappresentata anche la sezione del PCUS).
Quali erano le materie che si insegnava? Un tratto caratteristico di tutto il sistema dell’insegnamento sovietico era che mirava a dare, fin dove possibile, un insegnamento politecnico. Oltre i corsi di base, direttamente legati alla materia di studio o comunque legati a questa, c’erano una serie di corsi obbligatori, identici per tutti gli istituti, ossia: Storia dell’URSS (si chiamava Storia del partito comunista, ma de facto, era quella dell’Unione Sovietica); materialismo storico, dialettica materialista, economia politica del capitalismo, economia politica del socialismo, comunismo scientifico, ateismo scientifico.
Vorrei trattenermi un attimo su come queste materie venivano insegnate, e come gli studenti sovietici li percepivano. Si tratta, evidentemente, delle mie osservazioni e/o impressioni. I corsi di storia e di economia politica venivano dati durante i primi tre anni accademici. Questi corsi avevano un carattere piuttosto dottrinario e gli studenti li seguivano con interesse relativo. Comunque, si discuteva anche su diverse questioni, e non si può negare una partecipazione degli studenti. Gli studenti ascoltavano con particolare interesse le opinioni e gli esposti fatti da studenti stranieri durante le discussioni. Come letteratura d’appoggio venivano consigliati manuali sovietici aggiuntivi, materiali congressuali del Partito, documenti ufficiali sovietici, i classici del marxismo leninismo.
Lo studio dell’economia del capitalismo non suscitava troppo interesse. Per uno studente sovietico i problemi dei lavoratori occidentali non erano molto comprensibili. La parola “disoccupato” per loro non corrispondeva a niente di concreto, di palpabile. Nella seconda metà degli anni 70 la miseria era già diventata una cosa poco comprensibile per i giovani sovietici. Non che navigassero nel superfluo, ma non esisteva il sentimento della paura di poter venire a mancare di cibo, o di casa, o di lavoro. L’assenza dell’angoscia di possibili problemi economici quotidiani aveva portato i sovietici a pensare che questo era una situazione naturale, e specie i giovani tendevano a non capire i problemi che i lavoratori occidentali affrontavano. Rimanevano parole.
Lo studio della filosofia materialista e dell’ateismo scientifico invece erano seguiti dagli studenti con grande interesse. Bisogna anche dire che queste materie venivano studiate al terzo e quarto corso, quando gli studenti sovietici da ragazzi e ragazze di 17 anni erano diventati persone di 20 anni.
Degno di essere nominato è il fatto che il sistema era riuscito a sviluppare nei cittadini sovietici, anche nei giovani, un forte sentimento di solidarietà internazionalista per i popoli in lotta. Gli studenti vietnamiti, cubani, cileni, palestinesi erano trattati con particolare affetto. I cittadini sovietici erano consapevoli e orgogliosi di lavorare anche per aiutare questi popoli.
Quasi tutti gli studenti erano iscritti al Sindacato e al Komsomol, e anche queste organizzazioni partecipavano all’andamento del lavoro didattico. Se uno lavorava male, o si faceva notare per assenze, veniva convocato dalla sua sezione del Komsomol, dove doveva dare spiegazioni. Qui vorrei tornare a quanto ho accennato sopra, dicendo che lo stipendio poteva essere ridotto in caso di risultati di studio mediocri. Questo valeva per il caso in cui uno non si applicava abbastanza. Se il basso rendimento dello studente era dovuto, ad esempio, a malattia o altri problemi personali seri, il collettivo (i compagni del suo gruppo, il delegato del gruppo, la sezione del Komsomol, il Responsabile gruppo) cercavano di aiutarlo. Lo studente delegato del gruppo e il Responsabile del gruppo intervenivano davanti alla commissione didattica che si occupava della questione, e lo studente in questione non veniva penalizzato.
Ogni facoltà aveva la sua biblioteca con manuali, libri e riviste. Le biblioteche erano ben fornite. Per dare un esempio: alla facoltà di fisica avevamo, oltre i manuali sovietici, anche corsi interi di fisica e matematica stranieri (corso di Feynman, di Berkeley), testi fondamentali dei grandi scienziati, diverse riviste contemporanee, inglesi, statunitense, anche il Nuovo Cimento italiano. Questi materiali si trovavano direttamente alla facoltà, ma c’era anche la grande biblioteca generale di tutta l’università. La regola generale era che il ricorso alle biblioteche era uno strumento pienamente e organicamente incorporato nell’attività didattica.
Il ciclo di laurea si concludeva con la presentazione della tesi di laurea, dopo che lo studente aveva passato tutti gli esami previsti dal programma. Non esisteva il sistema del debito, cioè della possibilità di dare uno o più esame anche semestri dopo aver seguito il corso rispettivo. Si passava da un anno accademico al prossimo soltanto dopo aver fatto con successo tutti gli esami previsti dal programma didattico.
Non so, se fa sorridere o meno: durante i tre primi anni si aveva anche 3 ore settimanali (2 volte un’ora e mezza) obbligatorie di attività sportiva. Di norma ogni istituto universitario aveva le sue infrastrutture corrispondente.
Alla fine degli studi lo studente veniva indirizzato ad un posto di lavoro, evidentemente, in linea con quello che aveva studiato. Questo processo si chiamava ufficialmente “la distribuzione”. Lo studente aveva l’obbligo di lavorare durante 3 anni al posto che lo Stato li assegnava, dopodiché era libero da vincoli. Il posto di lavoro era quindi garantito. Esisteva anche l’alternativa della “distribuzione libera”. Se uno studente aveva lui stesso trovato un posto di lavoro – evidentemente consono con quello che aveva studiato -, poteva andare a lavorare lì. In tal caso la fabbrica o l’istituto che era disposto ad accettare il neolaureato come collaboratore, scriveva una domanda di assegnazione alla facoltà, e questa dava il suo consenso. Rimaneva l’obbligo di lavorare 3 anni su quel posto. Il sistema di libera distribuzione era abbastanza praticato. Spesso lo studente si legava tramite la sua attività di ricerca con l’ambiente e la tematica lavorativa del luogo dove la svolgeva, e diventava partecipe del programma lavorativo. Era quindi abbastanza naturale che ci rimanesse per continuare a lavorare sul tema che aveva scelto per la laurea.
C’era anche la possibilità di continuare gli studi dopo la laurea. Questa consisteva in un ciclo di tre anni di ricerca scientifica, alla fine del quale veniva presentato una tesi di ricerca per ottenere il titolo corrispondente al statunitense “PhD.”. Durante questo periodo dal punto di vista sociale si figurava come “studente”, si continuava ad alloggiare nella casa dello studente e a percepire lo stipendio, d’altronde notevolmente maggiorato rispetto a quello di prima. Ca. il 10 % di chi si era laureato rimaneva per questo ciclo.
Le varie università avevano anche il loro policlinico, in pratica, come lo avevano tutte le grandi fabbriche del paese. Evidentemente il sistema sanitario era gratuito, per tutti i cittadini, stranieri inclusi. Presso questo policlinico si “apriva” la propria cartella clinica il primo giorno dell’iscrizione all’istituto (che sia in quanto professore, ricercatore, operaio, studente), e si “chiudeva” la cartella il giorno in cui lo si lasciava. Il policlinico aveva tutti i vari settori medicali. Era inserito nel sistema sanitario sovietico, allo stesso titolo come tutti gli altri policlinici del paese.
Ancora qualche parola sulle case dello studente. Come detto, ogni studente aveva diritto ad un posto. Consisteva in un posto letto in una stanza che si condivideva con altri. Durante i primi 3 corsi era frequente ritrovarsi anche a quattro in una stanza. Poi, dopo il terzo corso si passava ad una stanza per due. Le case avevano cucine, sale per studio. Ragazze e ragazzi avevano stanze separate. Le coppie sposate ricevevano una stanza per loro; se avevano un bambino, viveva con loro. Ragazze sole con bambino avevano diritto a vivere in una stanza, ma spesso la condividevano con una seconda ragazza che aiutava. Queste questioni si gestivano localmente, tra studenti e la persona che era responsabile di quella casa dello studente. C’erano evidentemente posti negli asili per bambini, in modo che la madre potesse seguire le lezioni.
Concludendo direi che il sistema universitario sovietico era una delle grandi conquiste del socialismo. Era all’altezza del suo compito d’origine. Non troverete oggi tra postsovietici e stranieri dieci persone che non ricordino con gratitudine, con affetto, con rispetto quello era stato l’università sovietica e cosa li ha dato. Il sistema universitario sovietico era il risultato, agli occhi di tutti, di ciò che sanno fare i lavoratori, una volta liberati dal giogo capitalista e guidati da un partito degno dell’alto nominativo “comunista”.
CREDITS
Immagine in evidenza: Soviet heritage
Autore: Sergey Kochkarev
Licenza: Marchio di pubblico dominio 1.0 Universal
Immagine originale ridimensionata e ritagliata