Gianmarco Pisa
Il contributo offerto dai compagni e dalle compagne della Rete dei Comunisti con il Forum – e la successiva pubblicazione degli Atti – per un “Elogio del comunismo del Novecento”, nelle sue quattro sessioni-approfondimenti tematici (prima della Seconda guerra mondiale: l’assalto al cielo; dopo la Seconda guerra mondiale: le nuove rivoluzioni, le conquiste operaie e i movimenti di liberazione dei Paesi in via di sviluppo; la regressione del movimento comunista e la controffensiva capitalista; la riemersione delle contraddizioni accumulate dalla supremazia del capitalismo), rappresenta, nel suo complesso, una iniziativa preziosa per l’approfondimento e il dialogo tra comunisti (e oltre l’ambito specifico del movimento di classe) nonché un terreno di lavoro condiviso con le soggettività del movimento che intendono sviluppare una riflessione, non apologetica e non liquidatoria, non eclettica e non dogmatica, per attualizzare l’analisi critica, marxista, e ricomporre terreni unitari.
Al di là delle – e senza l’esigenza di definire più o meno arbitrarie – periodizzazioni, un tema che conviene fare emergere e che offre elementi di riflessione e di approfondimento non scontati è offerto dalle grandi rotture che l’esperienza storica, politica e culturale del movimento comunista del Novecento ha attraversato e delle quali è stata, più volte, protagonista indiscussa.
Non va dimenticato, infatti che proprio il movimento comunista e, alla sua base, il marxismo e il leninismo hanno rappresentato, in Oriente, la concretizzazione di società e di sistemi liberi dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, in cui per la prima volta si sono realizzati diritti ed istanze di emancipazione e di liberazione, e, in Occidente, il fattore maggiore nella sconfitta del fascismo storico e nell’avanzamento della democrazia.
Quali possono essere individuate, dunque, tra le grandi rotture del Novecento? La prima anzitutto: l’avanzata del movimento di classe e l’affermazione su scala planetaria del socialismo nel periodo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale alla metà degli anni Settanta.
Ciascuno dei singoli capitoli di questa grande fase storica (altrimenti definita “il trentennio glorioso”, ma non è questa la falsariga sulla quale tale riflessione intende situarsi) meriterebbe altrettanti luoghi e occasioni di confronto e di approfondimento.
Per citare solo, nell’ordine, i “contrassegni storici” di questa fase: la sconfitta del nazismo e del fascismo storico; la liberazione dell’Europa; l’affermazione del socialismo come forza sociale, politica, culturale a livello planetario; il protagonismo del movimento di classe nel processo di avanzamento democratico e di conseguimento di spazi sempre più avanzati di democrazia effettiva; nonché, sul piano internazionale, l’emergere della contrapposizione bipolare (avviata con la definizione della cortina di ferro e con la fondazione della Nato, 1949, da parte delle potenze imperialistiche, cui ha fatto seguito, in risposta, la definizione del Patto di Varsavia – Patto di amicizia, cooperazione e mutua assistenza, 1955); la fondazione delle Nazioni Unite e la creazione del sistema di sicurezza collettiva (con due capisaldi inediti e innovativi, la Carta delle Nazioni Unite, 1945, e la Dichiarazione universale dei diritti umani, 1948); sino al successo dei movimenti di autodeterminazione e del processo storico di decolonizzazione e liberazione nazionale (con la nascita del Movimento dei Non Allineati, 1961, a partire dal “protagonismo delle eccedenze”, la Jugoslavia Socialista di Tito, l’Egitto di Nasser, l’India di Nehru).
Sconfitta del fascismo storico e affermazione dell’universalità dei diritti sono, non a caso, le grandi conquiste che vedono proprio nel movimento di classe il principale protagonista. È appena il caso di ricordare che l’Unione sovietica pagò, nella Seconda guerra mondiale, un tributo di 27 milioni di caduti, di cui 18 milioni civili, e resse, da sola, per due anni, l’urto di 250 divisioni tedesche (circa il 90% dell’esercito tedesco) appoggiate dagli alleati fascisti rumeni, ungheresi e italiani, rappresentando quindi, evidentemente, il fattore determinante nella sconfitta del fascismo e del nazismo, ragione per la quale, citando Ernest Hemingway, ancora oggi, al di là e contro ogni revisionismo, «ogni essere umano che ami la libertà deve più ringraziamenti all’Armata rossa di quanti ne possa pronunciare in tutta la sua vita».
Fu proprio quella sconfitta ad aprire la strada alla codifica, per la prima volta nella storia, di un catalogo di diritti universali, peraltro esteso in termini generali e indivisibili, come diritti civili e politici, diritti economici, sociali e culturali, diritti dei popoli e degli ecosistemi, e oggi ancora diritti digitali e della “infosfera”.
La stessa astensione dei Paesi socialisti (Unione sovietica, Jugoslavia, Cecoslovacchia, Polonia) all’atto di approvazione della Dichiarazione indica una battaglia per diritti non solo da riconoscere “formalmente” ma da realizzare “positivamente”: nella posizione della delegazione sovietica, com’è noto, il catalogo dei diritti avrebbe dovuto promuovere positivamente il rispetto dei diritti e delle libertà universali, al di là di ogni differenza di nazionalità, lingua o religione, e avrebbe dovuto altresì non solo affermare (o dichiarare), ma soprattutto promuovere (e garantire) l’attuazione dei diritti universali, con obblighi positivi da parte dello Stato, come già previsto nel costituzionalismo sovietico. Diritti che, appunto, ieri le forze conservatrici e reazionarie, oggi le forze monopolistiche e tecnocratiche del capitale non smettono di contrastare e aggredire.
La seconda rottura storica è rappresentata dalla successiva parabola del declino e della crisi nella quale matura la sconfitta storica del movimento operaio e socialista in Europa (come è bene ribadire: in Europa) tra la metà degli anni Settanta e la crisi di sistema degli anni Duemila (la crisi strutturale del 2007-2008).
Le premesse sono gettate dalla fine del sistema di Bretton Woods (il sistema di cambi fissi ancorato al valore dell’oro e mediato dal dollaro statunitense, e quindi la fine della convertibilità del dollaro in oro) nel 1971, dall’esordio della Commissione Trilaterale nel 1973 e dal famigerato rapporto su “La crisi della democrazia” nel 1975 in cui l’attacco del capitale al lavoro e alla democrazia diventa frontale ed esplicito: critica del presunto “eccesso di democrazia”; affermazione del primato degli organi esecutivi sugli organi rappresentativi; rovesciamento del rapporto tra potere economico e potere democratico.
Sono gli anni della prima affermazione della destra (anche in forme radicale) su vasta scala nell’intero sistema occidentale (Margaret Thatcher, 1979; Ronald Reagan, 1981; Helmut Kohl, 1982; Yasuhiro Nakasone, 1982; Yitzhak Shamir, 1983). Le basi del liberismo radicale e della violenta aggressione ai diritti del lavoro e alle prerogative sindacali sono così gettate, rilanciando potentemente, anche sul piano della narrazione egemonica e della costruzione di immaginario, l’offensiva padronale, una rinnovata lotta di classe dall’alto.
Tuttavia, a dispetto di chi aveva cantato, di fronte alla fine dell’esperienza storica del socialismo sovietico, le “magnifiche sorti e progressive” del modello liberale e perfino la “fine della storia”, la storia non era (non è) finita e le sorti, lungi dall’essere magnifiche e progressive, si sono rivelate, per l’umanità e, in particolare, per il movimento di classe, segnate da nuove contraddizioni e sfide.
È il tempo segnato dalla terza rottura storica, quella tracciata dalla ripresa di vitalità e protagonismo dei movimenti di trasformazione dalla fine degli anni Duemila a oggi. La messa in discussione del paradigma liberista e la fine della stagione storica della “globalizzazione” (per come la si era conosciuta e descritta negli anni Novanta) conducono al mondo quale lo conosciamo oggi, con la rinnovata centralità della contraddizione e della conflittualità inter-imperialistica, con l’inedita affermazione di socialismi di tipo nuovo (dal “socialismo con caratteristiche cinesi per la nuova era” ai socialismi di ispirazione umanista e bolivariana che attraversano l’America latina, fino alle più recenti esperienze di progresso in Africa, un panorama che nell’insieme va spesso sotto la denominazione di “socialismi del XXI secolo”) e, in definitiva, con l’affermazione della grande contraddizione storica del tempo presente; imperialismo egemonico vs. mondo multipolare.
Peraltro, basterebbero gli esempi sopra rapidamente richiamati, per rendere conto della vitalità delle “vie nazionali” e della capacità del socialismo, sulla base della realtà storica, di esplorare forme e “vie nuove”.
La rinnovata centralità, cui si accennava, dell’imperialismo lo ripropone come categoria strutturale centrale del presente, dove si manifestano, in forma articolata e attuale, i ben noti “cinque contrassegni”: la concentrazione della produzione e del capitale con la formazione di monopoli con una funzione decisiva nella vita economica; la fusione del capitale bancario con il capitale industriale nel “capitale finanziario” e il formarsi, sulla base di questo, di una vera e propria oligarchia finanziaria; la crescente importanza acquisita dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci; l’affermazione di centrali monopolistiche internazionali, che si ripartiscono il mondo per aree e mercati di influenza; infine, la sostanziale ripartizione della Terra tra le potenze capitalistiche e la pulsione alla guerra che, non a caso, si riaffaccia come vera e propria “cifra” del tempo presente.
Quanto alla forma dell’oligarchia finanziaria e all’importanza (economica e, in definitiva, politica) dell’esportazione di capitale sostenuta dal ruolo attivo degli Stati (le potenze imperialistiche), basterà passare in rassegna alcuni elementi. I due principali fondi di investimento al mondo (BlackRock e Vanguard) gestiscono un valore pari a ca. il 15% dell’intero Pil mondiale; i principali dieci fondi detengono tra il 30% e il 40% delle prime 500 società mondiali; dei primi venti fondi di investimento, ben quindici (tra cui tutti i primi cinque) sono basati negli Stati Uniti, appena due in Francia, uno in Gran Bretagna, uno in Germania e uno in Svizzera, il che indica chiaramente dove si concentri il potere del capitalismo mondiale e dove si attestino le principali potenze imperialiste.
Per fare un confronto, i due più grandi fondi sovrani, di proprietà degli Stati, il Fondo petrolifero norvegese e il Fondo statale cinese, superano di poco i 2.000 miliardi di dollari, a fronte del fatto che i primi due gruppi privati superano rispettivamente i 10.000 e gli 8.000 miliardi di dollari.
Un’ultima riflessione può opportunamente esser riservata alla forma del cosiddetto «socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era».
Com’è noto, la struttura del sistema cinese, regolata dalla pianificazione e a prevalente proprietà pubblica e statale, è articolata in quanto comprende l’economia statale, collettiva, privata, individuale, a gestione congiunta, a composizione azionaria. Lo Stato mantiene il controllo su tutti i fattori fondamentali e su tutti i comparti strategici: terra, industria pesante, energia, trasporti, infrastrutture, comunicazioni, finanza e commercio estero, mentre la produzione privata è incoraggiata nella misura in cui stimola e dinamizza lo sviluppo tecnologico, il mercato interno e la modernizzazione.
Le imprese di Stato ricadono nel quadro della direzione economica statale e i loro obiettivi non rispondono a interessi di natura esclusivamente economico-quantitativa, come dimostra il fatto che “il margine di profitto medio delle imprese statali cinesi è di appena il 3,5%”.
Il complesso costituito dalle aziende di proprietà statale o sotto controllo statale costituisce la totalità delle più importanti aziende cinesi; la Commissione statale per la supervisione e l’amministrazione dei beni di proprietà statale del Consiglio di Stato cinese controlla 97 grandi aziende statali, con un patrimonio di oltre 30 mila miliardi di dollari (2023).
Le aziende statali rappresentano oltre un terzo dell’economia cinese e oltre un quarto di tutte le aziende maggiori nel mondo, presenti nella lista Global Fortune 500; delle prime dieci, tre sono cinesi (State Grid, Sinopec, China National Petroleum Corporation). Come ribadito peraltro in più occasioni dal presidente cinese Xi Jinping, «la modernizzazione cinese è la modernizzazione socialista perseguita sotto la direzione del Partito comunista cinese» (settembre 2023).
Riferimenti
“Elogio del comunismo del Novecento”, Le sessioni del Forum, 28 settembre 2024
Gianmarco Pisa, “Il Giorno della Vittoria, il 9 Maggio”, Futura Società, 9 maggio 2025
John Kenton, “Human Rights Declaration Adopted by U.N. Assembly”, The New York Times, 10 dicembre 1948
Steven Argue, “Russia e Cina non sono imperialiste”, The Greanville Post, 6 maggio 2015
Allen J. Morrison, J. Stewart Black, “Il dominio economico della Cina è al punto di flesso?”, Harvard Business Review Italia, marzo 2024
Xi Jinping: La modernizzazione cinese è la modernizzazione socialista guidata dal Pcc, originariamente apparso sul «Qiushi Journal», edizione cinese, n. 11, 2023, ripubblicato in italiano, 16 aprile 2024