Mauro Casadio in Contropiano Anno 21 n° 2 – dicembre 2012
[Intervento al Forum “Il vicolo cieco del capitale” promosso dalla Rete dei Comunisti. Napoli, 30 giugno 2012.]
Questa parte dell’incontro di oggi, a differenza delle altre due sessioni, non afferma una tesi ma pone una domanda perché siamo dentro uno sviluppo della situazione internazionale molto più rapido delle precedenti fasi che sul fronte dei paesi emergenti, o di quella che possiamo anche definire periferia produttiva, avrà esiti ancora non prevedibili rispetto ai quali certamente la politica e gli Stati avranno una funzione determinante.
Se fino a metà del passato decennio c’era omogeneità nelle tendenze economiche internazionali tra centri imperialisti e quelli che sono stati definiti BRICS, da quando è emersa la crisi da sovrapproduzione di capitali le tendenze alla crescita si sono divaricate ed al blocco della crescita presente al centro ha corrisposto uno sviluppo economico della periferia. Naturalmente questa è una rilevazione relativa agli ultimi anni di crisi ed è suscettibile di cambiamenti anche in quest’ultimi paesi ma, comunque, quella che emerge è una contraddizione che nasce dalle caratteristiche dello sviluppo capitalistico avuto dopo la fine dell’URSS.
E’ per questo che è necessaria una valutazione sul cambiamento della situazione internazionale. In questi ultimi venti anni siamo stati obbligati a ragionare sulla crisi del cosiddetto socialismo reale, a capire i motivi di una sconfitta storica. Questa necessità di capire permane tutta ma oggi avviene in una nuova condizione, infatti l’emergere della crisi nei centri imperialisti e la diversa condizione, ancora potenziale, dei paesi finora legati a quel modello produttivo ripropone in modo meno eclatante che nel passato ma in modo altrettanto chiaro la questione dell’alternativa sociale al capitalismo ed agli imperialismi predominanti.
UNA NOSTRA LETTURA STORICA
Qui si rende necessario ribadire la lettura che abbiamo avuto come Rete dei Comunisti sulla fase storica attuale dove le rotture rivoluzionarie del ‘900 e le forme in cui queste rotture si sono espresse non sono, finora, all’ordine del giorno. La storia del movimento comunista, pur nelle sue molteplici e contraddittorie varianti, ha seguito una tendenza alla crescita che va dalla rivoluzione Bolscevica del 1917 fino alla metà degli anni ‘70. I motivi di questa crescita, storicamente incontestabile, sono molteplici e possono essere analizzati ed approfonditi, ma qui ci interessa mettere in evidenza un altro aspetto relativo alla percezione, in quella determinata fase storica, sia dei comunisti verso se stessi che delle classi dirigenti dei paesi capitalisti.
Cioè si era generalmente affermata in quei decenni l’idea che “l’assalto al cielo” potesse riuscire e che per il fronte anticapitalistico fosse quasi a portata di mano la trasformazione socialista.
Come sappiamo bene così non è stato, e non lo è stato non solo per motivi politici ma fondamentalmente per motivi strutturali relativi sia alla possibilità per il capitalismo di tenere e rilanciare sullo sviluppo, sia ai limiti della concreta esperienza storica in costruzione del movimento operaio e comunista nelle sue espressioni statuali ed anche di movimento e organizzazione.
Poiché questo è oggi un dato di fatto evidente a tutti, se non si vuole rinunciare ad una prospettiva di cambiamento sociale, la lettura alternativa alla liquidazione di tale prospettiva non può essere che quella secondo cui la transizione dal capitalismo a nuove forme sociali ricopre una intera fase storica, dove possono intervenire anche momenti forti di rottura rivoluzionaria ma dentro un processo nel quale le spinte contro il cambiamento non solo non sono affatto eliminate, cioè la lotta di classe da parte della borghesia, ma hanno già dimostrato di poter riprodurre una egemonia che fino agli Settanta appariva in rotta.
Non si tratta qui di reintrodurre un gradualismo socialdemocratico, che tra l’altro oggi avrebbe ben pochi spazi dentro le macroscopiche contraddizioni che esprime il capitalismo, ma di capire che siamo di fronte ad una situazione di estrema complessità, la quale richiede un alto livello teorico dei soggetti in campo che devono essere in grado di interpretare ed affrontare quella complessità sociale prodotta proprio dall’attuale sviluppo del capitalismo.
Se confrontiamo questo dato di fatto ora evidente a tutti con la visione del movimento comunista del secolo passato, la differenza mostra i limiti di quella concezione. Infatti il dare per acquisita la prospettiva e la possibilità irreversibile del socialismo era la convinzione profonda presente in tutte le componenti del movimento comunista ed antimperialista, ed ha significato incappare in un vero e proprio errore teorico.
Per la collocazione e la condizione del proletariato nel capitalismo il dato della soggettività e dell’organizzazione della classe era ed è centrale: concepire lo sviluppo storico in modo meccanicistico e determinato ha impedito di avere una visione complessiva dei rapporti tra le classi e dunque di cogliere lo spessore effettivo delle difficoltà nella trasformazione sociale. Anche se sappiamo che nell’URSS postrivoluzionaria tali questioni erano ben chiare, soprattutto a Lenin, successivamente nessuno è stato esente da questo difetto. Il militarismo della fase finale dell’URSS, il politicismo dei partiti occidentali, la feroce competizione tra le diverse forze comuniste in campo sono state il frutto di una lettura parziale della realtà e di un conseguente inaridimento di quella capacità teorica che ha permesso invece l’affermazione del movimento operaio e rivoluzionario già dalla fine dell’800.
Adottare il punto di vista della transizione storica significa invece sviluppare al massimo gli strumenti della analisi e la capacità di lettura della realtà e significa anche ritrovare la giusta relazione tra la condizione oggettiva e le capacità soggettive che nel contesto odierno assumono un ruolo rilevante data appunto la estrema complessità attuale. Per capacità soggettiva si intende certamente quella teorica, ma si intendono anche le forze sociali e politiche organizzate che sono realmente in campo ed, infine, la questione del partito che per noi va evidentemente ricollocata e riaffrontata in questa nuova condizione.
Questa non è evidentemente una critica al movimento del ‘900, non riteniamo di averne l’autorità. Il nostro problema è un altro e cioè che occorre prendere atto del prodotto del processo storico per poter operare qui ed ora. Questo è particolarmente importante per quelle forze che agiscono in una condizione estremamente difficile come quella che viviamo nel nostro paese cioè per chi agisce politicamente in un paese imperialista.
COME SI ARRIVA ALL’OGGI
Ricordiamo tutto questo perché è necessario avere una chiave di lettura dei processi in atto che tengano conto del contesto ma anche della dinamica storica nella quale si collocano e ne sono uno sviluppo materiale. E’ perciò necessario capire come questa divaricazione tra “centro” e “periferie” si manifesta e matura nel corso degli anni precedenti alla crisi di sistema attuale. Come abbiamo già detto il punto di svolta è stata la crisi dell’URSS e la fine del campo socialista che ha aperto enormi spazi di crescita al modo di produzione capitalista infatti da quel momento si è affermata l’egemonia politica, militare e culturale dell’occidente e si sono aperti enormi spazi di sfruttamento di nuova forza lavoro e nuovi mercati di sbocco delle merci.
In realtà la crisi di sovrapproduzione di capitali aveva fatto la sua comparsa già alla fine degli anni ‘80 con il crollo di Wall Street dell’87 e la stessa corsa alle armi stellari da parte degli USA aveva per presupposto la mancanza di spazi di sviluppo per l’economia capitalista. La fine dell’URSS apre all’improvviso questi spazi ed una parte dei capitali costretti nel solo mercato finanziario trova uno sbocco produttivo per la propria valorizzazione nella nuova condizione internazionale.
Questa è stata l’opportunità e la reazione da parte dei paesi egemoni mentre i paesi che si richiamavano ad un modello sociale diverso non potevano che prendere atto dei modificati rapporti di forza internazionali, venendo meno il riferimento principale della precedente fase storica, ed andare ad una revisione dei principi politici che fino a quel momento avevano caratterizzato le relazioni internazionali ed anche i rapporti di forza tra le classi.
Questo ha portato ad una modifica delle concezioni economiche che seppure mantenendo gli strumenti politici, cominciare dal ruolo centrale del Partito e dello Stato, che avevano guidato quei paesi veniva accettata la funzione della legge del valore nelle economie nazionali fino ad allora definite socialiste. In altre parole il mercato e lo scambio capitalistico rientravano in paesi fino a quel tempo sostanzialmente a lui esterni, questo ha riguardato prima di tutto la Cina, poi i paesi dell’ex terzo mondo piegati alla logica di mercato in quanto vasi di coccio dello scenario internazionale ed infine i paesi dell’Indocina, il Vietnam etc.
Possiamo dire che quelli che erano stati a pieno titolo definiti i paesi socialisti del ‘900 sono stati costretti a fare un passo indietro che non ha avuto solo una carattere tattico ma ha corrisposto anche ad una modifica della concezione della transizione sociale verso forme non più capitaliste o addirittura ad una accettazione della situazione di fatto venuta a determinarsi.
La dialettica internazionale tra le classi però determina sempre delle sorprese, infatti laddove il controllo USA era stato totale, cioè in America Latina, emergono novità politiche rilevanti, grazie anche alla eccezionale capacità strategica dei Cubani, prodotte dal bestiale sfruttamento e repressione di quel continente da parte degli Stati Uniti. Il Venezuela prima, poi la Bolivia, L’Ecuador ed in altro modo il Brasile, l’Argentina ed altri ancora si affrancano dalla tutela precedente ed avviano politiche dove il ruolo dello Stato e le finalità sociali del vivere collettivo sono antagoniste alla concezione liberista fino a quel tempo predominante, addirittura avviano un’area di integrazione economica, cioè l’ALBA, antagonista ai progetti statunitensi per quell’area. Non è stata la rivoluzione socialista che si voleva ma indubbiamente è stato un passo in avanti nella indipendenza economica e politica di questi paesi che, paradossalmente, li ha affiancati ai paesi a “socialismo di mercato” che avevano fatto un passo indietro ed a quelli, come l’Iran, penalizzati dalla ritrovata aggressività dell’imperialismo occidentale.
In sintesi le modifiche post sovietiche avute a livello mondiale hanno messo l’economia al primo posto rendendo secondarie le contraddizioni politiche internazionali, cosa che ha permesso, in modi pure diversificati, di mettere in sinergia gli enormi capitali finanziari fino a quel momento bloccati sostanzialmente nei mercati imperialisti, enormi masse di forza lavoro a basso costo, disponibilità energetiche ottenute con le buone o con le cattive come in IRAQ ed infine mercati di sbocco composti dai paesi più sviluppati e da quote di popolazione delle periferie produttive. Questa è stata la spirale “virtuosa” che ha permesso (va detto: per meno di venti anni) la stabilità sociale e politica dei paesi imperialisti e la crescita produttiva ed economica delle periferie produttive come sopra descritte che si sono evolute da produzioni di merce a basso costo fino a produzioni tecnologicamente più avanzate senza, però, raggiungere i paesi dominanti.
E’ questo sviluppo che ha reso fino alla crisi incontestabile il modo di produzione capitalistico anche nei paesi che si sono definiti socialisti.
Qui si apre una questione teorica di non poco conto che in questa sede non possiamo affrontare, visto che all’ordine del giorno è il punto sulla crisi di sistema, e che riguarda quanto una prospettiva di trasformazione sociale possa utilizzare il Modo di Produzione Capitalista per determinare comunque modifiche Socialiste. E’ certamente una questione fondamentale da affrontare nei nostri prossimi appuntamenti sia sul piano politico che strategico ma che qui possiamo solo accennare.
E’ a questo punto che si è manifestata la crisi economica e finanziaria che modifica la condizione internazionale e conseguentemente separa le prospettive dei paesi imperialisti, che ripropongono le loro ricette liberiste torcendo ancora di più la funzione dello Stato al servizio del capitale finanziario, da quelli della periferia dove lo Stato deve rimanere al servizio della produzione, della crescita e della stabilità sociale necessaria ad una loro sviluppo equilibrato per non tornare ad essere il cortile di casa di un qualche paese imperialista. I sintomi di una tale possibilità già si vedono nella riduzione della crescita di quei paesi causata dalla crisi economica dei mercati di sbocco occidentali. Dunque le scelte da fare non sono più determinate dalle politiche ma sono il prodotto di una situazione di crisi che si capisce non è ancora giunta al suo punto più basso, in altre parole si pone, obiettivamente e non per via rivoluzionaria, la questione della effettiva autonomia dai centri imperialisti.
CONTRADDIZIONI E ALTERNATIVA
La divaricazione tra le diverse aree economiche in un mondo privo di barriere commerciali, il rischio di tornare indietro nelle relazioni internazionali tra paesi, la vicenda libica e quella siriana sono un segnale esplicito in tal senso, le difficoltà sociali che comunque non sono state risolte ed addirittura sono state aggravate a causa della produzione capitalistica vanno collocate dentro una prospettiva sostanzialmente diversa da quella degli ultimi venti anni e che apre una fase di instabilità foriera di contraddizioni causate dal nuovo punto di svolta avuto nel 2008 con l’esplicitazione della crisi attuale.
Le condizioni che si prospettano sono pesantemente negative per chi non saprà tenere testa alla feroce competizione globale in atto che incrudirà ulteriormente a causa delle caratteristiche della crisi.
Questa è infatti una crisi strutturale dove la sovrapproduzione di capitale ha raggiunto livelli ormai non più sostenibili. I processi di finanziarizzazione hanno permesso di superare la crisi degli anni ‘70 e di approfittare degli spazi economici apertisi negli anni ‘90, la classica controtendenza alla caduta tendenziale del saggio di profitto ha fatto però il suo tempo e si è trasformata in un boomerang per i paesi imperialisti. Questa controtendenza non ha solo permesso la tenuta e la crescita economica ma ha anche prodotto l’egemonia del capitale cioè è stata una condizione affinché ampi settori di popolazione mondiale accedesse a livelli di consumo più alti. La fine di questa possibilità conduce direttamente alla ripresa della polarizzazione sociale perché il ristabilimento dei livelli di profitto ora può dipendere solo dal grado di sfruttamento della forza lavoro complessivamente intesa dentro la pressa della competizione globale.
Questa è una crisi di lunga durata. Non siamo di fronte al tracollo del ’29, il punto più basso tra due guerre mondiali, ma di fronte ad una crisi di prospettive che segue una lungo periodo di crescita e dunque anche il consumarsi della crisi avrà i suoi tempi “fisiologici”, non a caso siamo a circa cinque anni dall’inizio conclamato ma ancora punti di rottura politici forti non si intravvedono. Questo non significa che questi non stiano maturando ma certamente chi ha aspirato alla equiparazione con i centri imperialisti dovrà capire come adeguarsi a questo inaspettato sviluppo.
Questa è una crisi che riproduce le contraddizioni tra paesi imperialisti. Se dal secondo dopoguerra gli USA sono stati la forza egemone del campo capitalista oggi si manifesta una palese competizione con l’Unione Europea e dunque la complessità del mondo attuale tenderà a crescere e con questa cresceranno i problemi politici anche dentro il campo imperialista.
Oggi però non stanno agendo solo le contraddizioni specifiche del modo di produzione capitalista ma anche le condizioni oggettive in cui questo evolve tendono a far aumentare le difficoltà di uno sviluppo quantitativo di tal fatta. Innanzitutto la dimensione mondiale raggiunta dalla produzione capitalistica non è mai stata così estesa, cioè l’inserimento della Cina, dell’India, della Russia, dell’America Latina e di molti altri paesi nella produzione di merci e del mercato mondiale ha ridotto gli spazi da poter ancora capitalistatizzare e da mettere a produzione di valore.
Questo non esaurisce certo le possibilità di crescita che sono legate anche agli sviluppi tecnologici i quali però hanno la “controindicazione” di ridurre il saggio di profitto.
Come pure la prospettiva di soppiantare le potenze imperialiste egemoni in questo contesto “ristretto” diventa problematico se non si considera un conflitto generalizzato che però oggi è militarmente e tecnologicamente a vantaggio dei paesi imperialisti.
Un’altra condizione oggettiva problematica è legata alla questione delle risorse energetiche, la dimensione della produzione quantitativa propria del capitalismo deve fare i conti con i limiti tecnologici e materiali della produzione di energia visto che alternative sostanziali agli idrocarburi non sono ancora emerse. Solo la crisi attuale sta contenendo i costi dell’energia che saranno pronti a riprendere la loro corsa se ci sarà una ripresa produttiva di qualche genere.
Infine rimane sul tavolo la questione ambientale che non può essere risolta dalla cosiddetta Green Economy lusso possibile solo per i paesi sviluppati che però sono una parte ridotta della popolazione mondiale messa capitalisticamente in produzione e dunque addetta al consumo senza limiti dei beni naturali.
L’insieme di queste contraddizioni e condizioni problematiche per uno sviluppo basato solo sulla quantità prospetta una crisi di sistema complessiva e pone problemi di fondo sull’attuale modo di produzione. Li pone ai paesi emergenti, li pone alle classi subalterne dei paesi imperialisti ma li pone all’intera umanità. Per quanto riguarda i paesi emergenti la questione è, per le prospettive, netta infatti si tratta di scegliere se rimanere legati al carro che ha permesso la crescita economica di questi anni in un momento in cui non traina più ed, anzi, è in crisi profonda mantenendo la propria subordinazione al modello, ai paesi egemoni ed alle contraddizioni che questi incrementano e generalizzano a livello mondiale. Oppure se staccarsi, nel tempo e nei modi opportuni, creando un’area dove la pianificazione, il ruolo dello Stato, le sue finalità sociali e di classe siano sostanzialmente diversi da quelli imperialisti.
In altre parole creare una prospettiva che attui un’ALBA mondiale capace di uno sviluppo indipendente ed alternativo.
Non è soltanto una velleità questa di un’area indipendente ma è una conseguenza logica di un processo avviato negli anni ‘90, la fine dell’URSS ha segnato la sconfitta di una idea di trasformazione sociale del mondo e di un modello utile a tale trasformazione, la ripresa dell’economia capitalista inoltre ha spinto ulteriormente ad accettare il modo di produzione capitalista ed i singoli paesi a garantirsi, in base alle proprie possibilità, quello spazio di crescita praticabile dalle dimensioni nazionali. La crescita dei BRICS e di altri paesi sono l’espressione concreta di questo adattamento di tipo nazionale ad una egemonia mondiale.
I caratteri della crisi attuali però sono tali da richiedere non una alternativa nella dimensione nazionale ma una alternativa di sistema tanto quanto è sistematica la crisi attuale pena il rimanere intrappolati e coinvolti nelle contraddizioni che oggi l’imperialismo manifesta.
Naturalmente queste prospettive e queste riflessioni non riguardano solo i paesi emergenti ma anche le classi subalterne e le forze politiche sociali dei paesi imperialisti e in particolare, per quanto ci riguarda, quelli dell’Unione Europea. Questo è un argomento che oggi non trattiamo in via teorica ma che stiamo cercando di praticare sul piano del conflitto di classe e politico che sosteniamo nel nostro paese nonostante i nostri limiti e quelli del movimento antagonista più in generale.
CREDITS
Immagine in evidenza: 4° vertice dei BRICS, India 2012
Autore: Agência Brasil; 29 March 2012
Licenza: Creative Commons Atribuição 3.0 Brasil
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