Luciano Gruppi (in Contropiano anno 28 n° 1 – marzo 2019 Metodo. Formazione. Organizzazione)
L’influenza della corrente filosofica dell’empiriocriticismo — che aveva avuto i suoi maggiori esponenti nel zurighese Richard Avenarius (1843-1896) e nel viennese Ernst Mach (1838-1916) — cominciò a farsi sentire in Russia agli inizi del ‘900 e penetrò con una certa forza nella socialdemocrazia russa tra il 1906 e il 1909.
La tesi di questa filosofia è che occorre partire dall’ «esperienza pura», prescindendo da ogni premessa e conseguenza metafisica, ed evitando le false, insolubili alternative tra fisico e psichico, tra materia e spirito, tra soggetto e oggetto, tra esperienza esterna ed esperienza interna. Non sono i «corpi» (osserva Mach) che danno luogo alle sensazioni, ma sono i complessi di sensazioni che danno luogo ai corpi. La scienza è guidata dalla utilità, le leggi scientifiche hanno un carattere « economico» (utilitario), in quanto esse sono la conseguenza del fatto che l’uomo forma in modo istintivo le proprie nozioni nei confronti della natura e precede con il pensiero i dati dell’esperienza, guidato da un fine di utilità.
È possibile che le posizioni dell’empiriocriticismo, di questa filosofia che concepisce se stessa solo come critica della esperienza allo stato puro, si presentassero in modo suggestivo per studiosi di filosofia di orientamento marxista, data la loro intenzione antimetafisica e fossero accolte anche per reazione alle deformazioni meccanicistiche e metafisiche del marxismo, che erano andate prendendo piede nella II Internazionale. Ma è un fatto che l’influenza empiriocriticista si sviluppò tra le file della socialdemocrazia russa, e particolarmente in un gruppo di bolscevichi, proprio nel periodo che fu prima di difficoltà e poi di disfatta della rivoluzione democratica del 1905.
Con la sconfitta della rivoluzione (1907), la socialdemocrazia russa è colpita da una crisi profonda, le sue file conoscono, soprattutto nell’ala destra, menscevica, una vera e propria disgregazione. All’interno dei bolscevichi, si delinea la corrente degli otzovisti (da otozvat, richiamare) che richiedono un immediato ritiro dei deputati socialdemocratici dalla Duna di Stato; tra i menscevichi prevale la corrente dei liquidatori, che ritengono impossibile o comunque infruttuosa l’organizzazione illegale del partito e propongono che l’azione socialdemocratica si limiti a quelle attività legali che sono possibili. I primi reagiscono alla sconfitta proponendo una politica di chiusura settaria che nega l’impiego di quelle possibilità legali che ancora restano, sia pure in modo limitato; i secondi negano l’organizzazione politica autonoma del proletariato, la funzione del partito.
Contro le due correnti, Lenin lottò con forza estrema, guidato da una visione dialettica dell’azione rivoluzionaria che, mentre afferma la funzione del partito, la necessità della organizzazione politica autonoma del proletariato, al tempo stesso si sforza di utilizzare tutte le possibilità di lotta e quindi le istituzioni legali. Nella sua polemica contro le due tendenze, Lenin sottolineò che esse avevano quale radice comune la sfiducia nelle possibilità della lotta proletaria.
Il capo della corrente dei bolscevichi otzovisti, Bogdanov, era pure l’esponente piú autorevole e filosoficamente agguerrito della tendenza empiriocriticista. Alla capitolazione politica, sia pure coperta da posizioni estreme, si univa cosi una posizione filosofica che poneva in discussione un caposaldo della concezione marxista: il concetto della oggettività del conoscere, della oggettività di quelle nozioni (struttura, superstruttura, formazione economico-sociale, realtà obiettiva delle classi sociali) su cui si costruisce la concezione dei marxismo. Alla crisi politica si intrecciava lo smarrimento, al livello della teoria, dei concetti fondamentali del marxismo. Era uno smarrimento tanto più manifesto se si consideri che, alle teorie empiriocriticiste, all’agnosticismo che esse portavano con sé, si accompagnava, come logica conseguenza, lo sbocco mistico della corrente, dei «cercatori di dio».
La lotta si presenta perciò su due piani, politico e teorico. È interessante osservare come Lenin si preoccupi di mantenerli distinti e di impedire che ‘la disputa filosofica ‘possa mescolarsi alla discussione politica e rendere più difficile la riconquista dell’unità dei bolscevichi, che deve essere ottenuta battendo la posizione otzovista, e l’unità dei socialdemocratici che deve essere conquistata battendo, oltre che gli otzovisti, soprattutto i liquidatori. Quando la Neue Zeit (la rivista di Kautsky) esprime la preoccupazione che la discussione filosofica possa divenire una nuova ragione di divisione tra i socialdemocratici russi, il giornale dei bolscevichi, Proletari, nel febbraio del 1908, risponde: «Questa disputa filosofica non è… e non deve essere disputa di frazioni; qualsiasi tentativo di presentare questi dissensi come dissensi di frazione è radicalmente sbagliato» In una lettera a Gorki, (21 novembre 1908), Lenin ribadisce: «Ostacolare l’opera svolta ad attuare nel partito operaio la tattica della socialdemocrazia rivoluzionaria per dispute sulla superiorità del materialismo o del machismo sarebbe… un’inammissibile sciocchezza».
Ma se Lenin non ritiene che il partito operaio rivoluzionario debba proporsi il compito di risolvere le controversie filosofiche, egli non ritiene neanche che il partito rivoluzionario, chiamato a guidare una radicale trasformazione della società e quindi anche ad investire il campo delle idee, possa fare a meno di una concezione del mondo, possa essere indifferente al metodo-teoria (il marxismo) che lo guida nell’azione.
Ecco perché Lenin, che si considera «in filosofia, un marxista di base», non ritiene di potersi sottrarre alla battaglia filosofica, che è per lui, in quel momento, battaglia squisitamente politica per la difesa del marxismo e dello stesso partito.
I suoi doveri di dirigente dei bolscevichi lo spingono ad intensi studi filosofici, condotti al fine preciso di attrezzarsi per la polemica contro l’empiriocritcismo.
Il volume Materialismo ed empiriocriticismo (1908) è il risultato di questi studi è di questa bruciante preoccupazione politica. Tutta, l’opera è dominata dalla esigenza di difendere e riaffermare la nozione di oggettività, che sta alla base del materialismo marxista. «L’unica “proprietà” della materia, il cui riconoscimento è alla base del materialismo filosofico, è la proprietà di essere una realtà obiettiva, di esistere fuori della nostra coscienza.» In relazione a questa preoccupazione di difendere l’oggettività, il conoscere viene definito come riflesso (otragenie).
Si può abbastanza facilmente osservare che Lenin schiera, nella sua battaglia contro l’empiriocrticismo tutti gli argomenti del materialismo, mentre si appannano, nella sua esposizione, i tratti che più profondamente distinguono il carattere dialettico del materialismo marxiano, rispetto al materialismo tradizionale. L’attenzione tipica di Lenin alla dialettica, come dialettica, dei processi reali e capacità del pensiero di coglierli in tutta la loro complessità, sembra qui cedere il passo alla preoccupazione in questo momento dominante. Cosi, di Marx, è soprattutto presente l’affermazione del conoscere come riflesso, “o rispecchiamento, che questi rivolge contro l’idealismo, meno, “nella sostanza, la critica che le Tesi su Feùerbach pur sovente richiamate — rivolgono al materialismo tradizionale di separare l’oggetto dal soggetto e di concepire il conoscere come intuizione sensibile e non soprattutto come prassi trasformatrice, attraverso cui il soggetto si obbiettiva.
Ci si può certo chiedere se Lenin, presentando la storia della filosofia come lotta tra materialismo ed idealismo, non schematizzi – indebitamente – uno svolgimento storico che conosce ben altra complessità. Ci si può chiedere se Lenin, parlando di una verità assoluta, a cui il pensiero si approssima attraverso verità relative, non abbia ipostatizzato, platonicamente, il concetto di verità, e non sia ricaduto nella metafisica. Oggi si deve discutere soprattutto se il processo conoscitivo possa essere racchiuso tutto nella nozione di riflesso.
Se tutta una serie di pagine — si vedano quelle dedicate alla «crisi» della fisica e non soltanto quelle — ci colpiscono per il loro vigore speculativo, altre ci fanno sentire che gli studi filosofici, con cui Lenin si era preparato alla lotta teorica, non avevano consentito a quel suo intelletto, pur robustamente filosofico, di superare completamente certi elementi di ingenuità.
Ma, a nostro parere, Materialismo ed empiriocriticismo può essere giustamente apprezzato solo se lo si colloca, nel momento storico e di lotta politica in cui e per cui esso fu concepito. Se si evita cioè di assolutizzarlo — come per troppo tempo è stato fatto e ancora in parte si fa — in «filosofia» di Lenin o addirittura nella filosofia» del marxismo. Lenin stesso ci dà invece il criterio più giusto per la lettura della sua opera, quando osserva: «Marx ed Engels, i quali si erano formati alla scuola di Feuerbach… rivolsero naturalmente la maggiore attenzione al completamento della filosofia del materialismo in atto, cioè non alla gnoseologia materialistica, ma alla concezione materialistica della storia. È per questo che Marx ed Engels nelle loro opere mettono l’accento sul materialismo dialettico più che sul materialismo dialettico, insistono più sul materialismo storico, che non sul materialismo storico». Lo stesso criterio storico di lettura, che Lenin propone per Marx ed Engels, ci può aiutare a comprendere perché egli insista più sul materialismo che sulla dialettica, sulla oggettività che sulla funzione del soggetto.
In ogni caso, la posizione di Lenin verso la filosofia non può essere racchiusa tutta in Materialismo ed empiriocriticismo. Bisogna tener conto dei Quaderni filosofici (1915-16), che contengono gli appunti con cui egli accompagnò la lettura di Hegel e particolarmente della Logica. Di Hegel appunto, che Lenin non aveva ancora attentamente studiato quando scriveva il Materialismo, ma a cui si rivolge nel pieno della guerra mondiale e dei suoi studi sull’imperialismo, quando l’ampiezza e la complessità dei fenomeni economici e politici da dominare a livello mondiale, lo sollecita a riflettere sul metodo, ad affinarne l’impiego, ad rassimilare più profondamente ancora il carattere dialettico della concezione del marxismo.
Quando nei Quaderni filosofici egli osserva: «Plekhanov critica il kantismo (e l’agnosticismo in generale) più dal punto di vista materialistico volgare che da quello materialistico-dialettico» e aggiunge: «i marxisti hanno criticato (all’inizio del secolo XX) i kantiani e gli humiani più alla maniera di Feuerbach (e di Biichner) che non alla maniera di Hegel» vi è qui un elemento di autocritica, a cui non si sottrae Materialismo ed empiriocriticismo. L’atteggiamento verso l’idealismo si fa, nei Quaderni, differente. «L’idealismo filosofico è soltanto assurdità dal punto di vista del materialismo rozzo, elementare, metafisico.» E cosi appunto veniva prevalentemente considerato in Materialismo. «Viceversa, dal punto di vista del materialismo diaIettico l’idealismo filosofico è lo sviluppo.., unilaterale, esagerato… di uno dei tratti, lati, limiti, della conoscenza in un assoluto, avulso dalla materia, dalla natura, divinizzato» (si tratta del carattere creativo del conoscere)
Ma ancor più la posizione di Lenin nei confronti della filosofia non va vista solo nei testi strettamente filosofici, bensì va colta negli scritti politici, nella «filosofia» che in essi è implicita. Se si considera il Che fare? (1901-2), si vedrà come in esso prenda rilievo il momento della coscienza, del partito; dell’intervento consapevole del soggetto sul processo oggettivo, l’unità dialettica del soggetto-oggetto. Se si considera Le due tattiche della socialdemocrazia (1905) e il concetto di egemonia del proletariato nella rivoluzione democratica, che Lenin definisce di fronte alla rivoluzione del 1905, si vedrà che la affermazione della egemonia della classe operaia, nella rivoluzione democratico-borghese russa, è resa possibile da una visione non meccanica del rapporto tra struttura e superstruttura, tra la base economico-sociale del processo rivoluzionario e le forze motrici di classe e politiche della rivoluzione medesima, ma dal modo in cui viene sottolineata la funzione del soggetto storico, della coscienza, della iniziativa politica. Cosi nelle Due tattiche egli può scrivere, «Il modo in cui i neoiskristi esprimono le loro idee ci fa ricordare l’apprezzamento che Marx dava (nelle sue celebri Tesi su Feuerbach) del vecchio materialismo estraneo alla dialettica. I filosofi, diceva Marx, hanno solo interpretato il mondo in modi diversi, si tratta però di mutarlo. I neoiskristi possono anch’essi descrivere e spiegare discretamente il processo della lotta che si svolge davanti, ai loro occhi, ma sono assolutamente incapaci di enunciare una parola d’ordine giusta. Marciando con zelo, ma dirigendo male, ignorando la funzione attiva, di dirigente e di guida, che possono e debbono avere nella storia i partiti che hanno capito le condizioni materiali della rivoluzione e si sono messi alla testa delle classi progressive, essi sviliscono la concezione materialistica della storia».
È appunto questa visione della funzione del soggetto nel processo storico che Materialismo ed empirocriticismo non lascia pienamente apparire, — nonostante una serie di affermazioni in contrario, — per il modo in cui esso privilegia il momento del riflesso nel conoscere. Ma proprio le implicazioni «filosofiche» di altri testi, non strettamente di filosofia, ci dicono che la teoria generale di Lenin, la sua «filosofia», va colta nell’insieme del suo pensiero, — e non racchiusa in un solo testo, per quanto ricco di insegnamenti e significativo esso sia, per ciò che rappresenta nella battaglia politica e nella storia del movimento operaio.
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Immagine in evidenza: cervello
Autore: John Hain, 26 Novembre 2014
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