Giacomo Marchetti
Nella quarta settimana di sit-in di fronte al quartier generale dell’esercito nella capitale sudanese Khartoum e altre caserme negli stati del paese, centinaia di migliaia di persone hanno partecipato alla “Marcia dei Milioni per la Libertà e il Cambio” in varie parti del Sudan.
Questa mobilitazione svoltasi il 2 maggio è stata chiamata dall’organizzazione che raggruppa tutti i gruppi dell’opposizione – le Forze “La Dichiarazione della Libertà e del Cambiamento” – in ragione dello stallo (il fine settimana scorsa) delle trattative tra i rappresentanti di questa e dell’autorità militare che sta gestendo la transizione – la TMC, ovvero il Consiglio Militare di Transizione – dopo il “colpo di stato” che ha deposto il presidente Omar Al-Bashir l’11 aprile, nel picco dei sei giorni di iniziative permanenti che avevano di fatto paralizzato il paese
I nomi dei civili di un organismo di transizione civile-militare sarebbero dovuti essere resi pubblici dalla TMC il 25 aprile, ma la decisione è stata rimandata e i colloqui tra l’opposizione e l’esercito sono addivenuti ad un impasse.
Le Forze in un comunicato del 30 aprile hanno fatto sapere che alcun data è stata fissata per una ripresa dei negoziati con il Consiglio Militare.
I motivi di contrasto tra la delegazione trattante dell’opposizione e l’organismo militare di transizione risiedono nella composizione dell’autorità che sarà incaricata di gestire la transizione rispetto alla proporzione di membri provenienti dalle forze armate e quelli della società civile, che i primi vorrebbero a maggioranza “civile” mentre i l’esercito vorrebbe decisamente in mano ai militari.
Mohamed Hamdam, capo-mentro della TMC e di fatto vice-presidente del Sudan, ha ribadito comunque giovedì la volontà dell’esercito non volere “occupare” il potere, di volere assecondare i bisogni popolari e ricordato il ruolo di difesa giocato dall’esercito che ha protetto i manifestanti dalle forze di sicurezza del regime i giorni precedenti alla deposizione di Al Bashir, ed ha esortato ad avere pazienza e fiducia nell’esercito.
Il Presidente del National Umma Party, El Sadig El Mahadi, ha avvertito i leaders della protesta a non “provocare” l’esercito.
In una intervista all’AFP ha dichiarato: “Non dobbiamo provocare il consiglio militare per cercare di privarlo della sua legittimità o del suo ruolo positivo nella rivoluzione. Non dobbiamo sfidarlo in un modo che sia forzato a comportarsi in maniera differente”.
Sempre giovedì, le forze della libertà e del cambiamento hanno reso pubblico una proposta dettagliata di “documento costituzionale” identificando i poteri, la struttura ed il profilo di un consiglio governativo ad interim civile e militare che guidi la transizione e chiuda definitivamente con lo stato guidato dal partito unico.
Omar El Degeir, segretario del Sudanese Congress Party e leader delle Forze della Libertà e del Cambiamento ha fatto appello per adottare tutte le misure necessarie per far si che i movimenti armati – presenti in alcune parti del paese – partecipino agli accordi del periodo di transizione e contribuiscono al raggiungimento dei suoi obiettivi, raggiungendo la pace.
El Degeir ha ribadito che le Forze si considerano loro stesse solo un “tramite” delle richieste e dei desideri del popolo mobilitato nei sit-in in tutto il paese e di coloro che stanno rivoluzionando il Sudan.
Mohamed Naji El Salam, portavoce dell’Associazione Professionale Sudanese (SPA) – perno delle mobilitazioni ed espressione di differenti categorie della società civile sudanese – e membro delle Forze, aveva criticato giovedì il TMC per la sua scarsa serietà nel “lasciare il potere ai civili”.
“Mentre il tempo passa” ha dichiarato El Salam “i poteri del consiglio militare si espandono, il che è una grossa minaccia alla rivoluzione”.
Una delle questioni centrali rimane per l’opposizione la neutralizzazione di tutti coloro che hanno avuto un ruolo nel precedente “regime” e la dissoluzione di quei corpi intermedi che ne hanno assicurato l’esistenza a tutti i livelli, visto anche le ripetute ingerenze che esercitano nella vita del Paese nel “dopo-Bashir”.
Questa situazione di scontro tra esercito e opposizione sembrava avere assunto nei giorni scorsi il punto di maggior criticità.
L’esercito aveva di fatto minacciato l’opposizione intimandogli di rimuovere i blocchi alla circolazione ferroviaria e le barricate sugli assi viari, ribadendo la propria volontà di volere gestire la transizione in maniera costruttiva ma allo stesso tempo di voler impedire “il caos”.
Dall’altra parte l’opposizione ha chiamato alla continuazione della mobilitazione fino al soddisfacimento pieno delle richieste formulate del movimento iniziato il 19 dicembre scorso, dicendosi pronta a proclamare azioni di disobbedienza civile di massa e lo sciopero generale nel caso in cui si acuisse lo scontro con l’autorità militare transitoria.
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Come riportato da “Radio Dabanga” nella sua sintesi settimanale della mobilitazione dell’ insurrezione sudanese, giovedì 2 maggio ci sono state mobilitazioni a Kassala – dove i manifestanti hanno denunciato i reiterati tentativi del governatore di cercare un accordo con i leader del partito del presidente deposto: il National Congress Party, nel Mar Rosso – a Suakin i manifestanti hanno protestato di fronte al porto passeggeri per le richieste politiche dell’opposizione e contro i tagli (che durano da venti giorni) all’erogazione di energia, la scarsezza nella fornitura di acque potabile e la “crisi del pane” che è stata uno dei motivi scatenanti della rivolta a dicembre – nello stato di El Gedaref – dove i manifestanti hanno bloccato il ponte transfrontaliero che collega El Galabat alla città etiope di Matemma.
I blocchi che hanno preso di mira i veicoli delle forze armate congiunte del Sudan e dell’Etiopia, sono stati effettuati per impedire la possibile fuga degli ufficiali del “vecchio regime” sospettati di viaggiare su quei mezzi, lasciandoli passare dopo avere controllato l’identità dei viaggiatori.
Negli stati settentrionali del paese le forze che compongono la “Dichiarazione di libertà e di cambiamento” del Nord hanno chiamato ad un sit-in di fronte al quartier generale della capitale.
Inoltre hanno fatto appello per la sospensione di tutte le procedure per la costruzione delle dighe di Kajbar e di Dal, la messa sotto processo dei responsabili di questi progetti fallimentari, l’abolizione dell’espropriazione delle terre decise a livello nazionale e di stato regionale, e il ripristino integrale di tutti diritti delle popolazioni interessate del territorio.
I due progetti della diga sul Nilo sono stati fortemente contestati, e circa 12 anni fa le forze di sicurezza aprirono il fuoco uccidendo quattro persone, e ferendone una ventina, durante le proteste, da allora conosciuti e ricordati dall’opposizione come “I Martiri di Kajbar”.
Da allora la protesta, sostenuta dal Partito Comunista Sudanese – tra le altre forze di opposizione – , ha conosciuto la repressione continua delle forze di sicurezza governativa.
Il governo aveva raggiunto un accordo per la costruzione delle dighe a Kajbar, Dal e Shirek, deliberando un accordo con l’Arabia Saudita nel 2015, che si era presa in carico il finanziamento del progetto.
Questo progetto rientra in un vasto piano di investimenti della monarchia saudita in Sudan, tra cui lo sfruttamento agricolo di milioni di acri nei dintorni di Atbara nel Nord del Paese.
L’ingresso del Sudan nella coalizione guidata dall’Arabia Saudita contro i “ribelli” Huti in Yemen – per cui lo stato africano offre “la carne da cannone” sul campo – aveva in parte cambiato il quadro delle mutevoli relazioni internazionali del regime di Al-Bashir.
Il progetto di diga di Kajbar creerebbe una riserva idrica di 110 km quadrati, e generebbe 360 megawatt di elettricità, sommergendo circa 500 siti archeologici. La diga di Dal avrebbe generato circa la stessa capacità elettrica e avrebbe espulso dalle 5.000 alle 10.000 persone.
La diga di Merowe sul Nilo era stata completata nel 2009, e sebbene il progetto ha raddoppiato la capacità di generare elettricità del Sudan, ha disperso più di 50.000 persone dalla Valle del Nilo alle località del deserto circostanti.
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La protesta iniziata il 19 dicembre nella città di Atbara e poi estesasi al resto del paese, era partita con l’incendio causato dal lancio di Molotov, della sede del partito unico: il National Congress Party.
La città dove gli scontri che sono seguiti, in cui le forze di sicurezza “anonime” hanno attaccato i manifestanti facendo uso di armi da fuoco è un importante hub ferroviario e “culla” del movimento sindacale sudanese sin dai tempi della lotta anti-coloniale contro il dominio inglese. “Il treno della Rivoluzione” giunto da questa città settentrionale del Nile River State per le proteste del 25 aprile scorso nella capitale che dista poco più di 300 km e carico di manifestanti è forse una delle immagini più impressionanti della rivoluzione, anche per l’accoglienza ricevuta.
In questa città di 120.000 abitanti, la maggior parte dei residenti lavora per la ferrovia statale sudanese: Sudanese Railway Corporation. Sia Al Bashir che il suo predecessore, Gaafar Nimeiry, hanno cercato di annichilare il movimento sindacale, legato al Partito Comunista Sudanese, impoverendo sempre più tra l’altro il sistema ferroviario ed allo stesso tempo cancellando dai libri di storia i riferimento al sindacato dei ferrovieri.
È stato da questo epicentro operaio che è nata una nuova generazione di sindacalisti che ha “guidato la rivoluzione sudanese”, dichiara Abdullah al-Awad, sindacalista e leader del Partito Comunista.
Ed è la gioventù della città che ha conosciuto l’impoverimento crescente della città con il collasso della ferrovia, cresciuto con i racconti del periodo di “rinascita” successivi all’indipendenza che è stato il protagonista della rivolta e che ha pagato a caro prezzo il suo indomito coraggio.
La Railway workers Union era il primo ed il più forte sindacato, uno dei vettori principali delle mobilitazioni che hanno fatto cadere il regime militare nel 1964 e nel 1985.
Un’altra componente fondamentale è quella femminile che con Al-Bashir ha conosciuto l’inasprirsi della Sharia – in vigore dal 1983 – , e che il documento reso pubblico per la transizione reso dalle Forze della Libertà e del Cambiamento vuole stravolgere introducendo come criterio il non meno del 40% della partecipazione delle cariche del consiglio di governo transitorio.
Le forze dell’islam politico conservatore, alcune delle quali chiavi di volta del regime precedente, rischiano di essere fortemente marginalizzate dalla vita politica – come dimostra l’estromissione di differenti generali islamici dall’autorità militare di transizione -, ed intanto vengono presi a pietrate da chi ha animato la protesta come è successo all’incontro nella capitale al Sudan Islamist Popular Congress, accolto dai cori “no agli islamisti”.
Ma non è stato un caso isolato di odio popolare: gli imam delle moschee che avevano criticato le proteste sono stati esortati ad andarsene dagli stessi credenti.
Il Sudan negli anni Novanta si era accreditato come uno dei “centri” del mondo islamico, ed il sostegno delle formazioni islamiche era – insieme alle varie forze di sicurezza che fungevano da milizia filo-presidenziale – uno dei pilastri del regime che ha sostenuto fino all’ultimo.
La storia di Hassan al-Turabi, fondatore del PCP, morto nel 2016 è significativa. È stato uno l’autore dell’architettura ideologica del National Islamic Front, è stato un alleato di Al-Bashir nel colpo di stato che l’ha portato al potere e ha di fatto divenire “ideologia di stato” quella del Fronte, mutuata dal National Congress Party.
La rivoluzione sudanese è in marcia, ed è tutto meno che un prodotto di un “movimento spontaneo”, ma l’ultimo tentativo di una opposizione organizzata nel corso degli anni che ha imparato dai propri fallimenti e che si è forgiata anche organizzativamente in un contesto di feroce repressione, sapendo interloquire con i soggetti sociali che di tolta in volta subivano le politiche dell’ex dittatore ed affrontare lo spettro completo dei nodi politici del paese africano.
Questo “battaglione fantasma” come Bashir ha definito l’SPA (Tajamoo al-mihayin al-soudaninyin) nel febbraio del 2019 è stato un oggetto politico non-identificato per i più, risultato di una tattica cospirativa eccellente.
Creato nel 2013, dopo una ferocissima repressione di un movimento di protesta è riuscita a giocare un ruolo dall’agosto del 2018 per il suo coinvolgimento nelle lotte salariali sullo sfondo della crisi economica.
Uno dei rari membri apparsi pubblicamente è Naji Elassam apparso il 31 dicembre in un video, dichiarandosi apertamente dello SPA ed esprimendo la volontà di far cadere il regime, denunciando la repressioni delle manifestazioni e l’importanza del ruolo femminile nelle mobilitazioni, leggendo il primo appello delle Forze per la Libertà e il Cambiamento in cui venivano cristallizzate chiaramente le prime rivendicazioni del movimento: destituzione del presidente, formazione di un governo civile del cambiamento…
Ha lanciato azioni di disobbedienza civile di massa – come il 13 marzo – , delle marce e dei concentramenti che toccavano differenti nodi politici: condizione femminile, detenuti politici, vittime di guerra, disoccupazione, dispersi interni ed esiliati, pane e dignità, giustizia sociale, la vita ai margini delle zone più depresse del paese.
Ha “decentralizzato” la protesta, prima di farla convergere nella Capitale, come nelle marce del 24 gennaio in più città nel paese.
Ha sostenuto in febbraio la mobilitazioni dei portuali di Port Sudan contro la privatizzazione del settore.
Le marce notturne lanciate nella capitale e nelle altre città sono state rinforzate dai comitati di resistenza dei quartieri creati nel dicembre del 2017, che hanno organizzato l’autodifesa anche contro i “comitati popolare di quartiere” terminali del controllo territoriale del regime.
“La marcia dei milioni del 6 aprile” è stata la causa della caduta del regime, ed è stata chiamata in una giornata storica per il paese perché si rifaceva direttamente alla mobilitazione che lo stesso giorno d’aprile aveva defenestrato Jaafar Nimeriry che aveva governato dal colpo di stato del 1969.
Sono i ghostwriter di questa “armata nell’ombra” ad avere dato corpo agli slogan e alle rappresentazioni figurative di questa rivoluzione.
Lo slogan “tasgot bas”, ovvero “che cada”, prima della fine di Bashir è stato sostituito da “lam tasgot baad”, ovvero “non è ancora caduto”, dopo l’instaurazione del TMC.
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Per il continente africano, la mobilitazione in Algeria ed in Sudan, sono grande fonte di speranza a cui ispirarsi, ed uno spauracchio per gli agenti politici regionali e non che hanno contribuito al regime e per cui il Sudan è un tassello fondamentale della propria strategia che sia la guerra in Yemen per Arabia Saudita ed Emirati, per la sua penetrazione in Africa come la Turchia, per ruolo di stabilità svolto dal regime come per l’Egitto, ma anche per USA – a cui l’amministrazione Trump ha tolto le sanzioni nel 2017 – e per l’UE per cui ha svolto la funzione di gendarme dei flussi migratori per conto delle oligarchie continentali.
Quando l’Esercito ha minacciato di rimuovere le barricate nel punto più alto fino ad ora raggiunto del conflitto dopo la caduta del despota un dimostrante – in un messaggio divenuto virale – ha detto: sono una barricata vivente…
E su questa determinazione che il risveglio dei dannnati della terra è ancorata, insieme a quello delle comunità di esiliati sudanesi in tutto il mondo, a cui se l’internazionalismo non è diventato lettera morta dovremmo sapere ascoltare e sostenere.