di Mauro Casadio, Rete dei Comunisti
Nell’impostare ed organizzare questo nostro momento di riflessione ed approfondimento abbiamo registrato una difficoltà nell’individuare interlocutori, che fossero anche su posizioni diverse, che in qualche modo si staccassero dalla dimensione contingente e dalla proprie condizioni politiche specifiche per poter oggettivare una questione, quella del partito dei comunisti, che mai come oggi ha bisogno di un approfondimento teorico e di una contestualizzazione storica.
Non crediamo che sia un caso che su questa tematica, sostanzialmente quella della soggettività comunista, ben poche siano le posizioni più strutturate ed i testi in circolazione. Certamente è più “naturale” scrivere sulla crisi economica, sugli effetti sociali e su quelli istituzionali, ben più complicato è esprimersi ed operare verso la ricostruzione di una soggettività comunista adeguata ai tempi di crisi e di transizione attuali.
Questa difficoltà è però un paradosso dentro la dinamica della crisi sistemica che si sta manifestando e che accompagnerà per i prossimi lustri l’economia globalizzata del XXI secolo. I caratteri della crisi sono infatti segnati dalle dinamiche delle relazioni tra le classi e dalla riconferma ferrea della legge del valore ovvero dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. In ultima analisi della società capitalista che riproduce ed allarga, per cicli storici, le differenze di classe e quella proletarizzazione che qualcuno frettolosamente aveva messo in soffitta.
Se si riconferma l’esistenza delle classi non può venir meno la necessità del superamento della attuale forma storica della produzione e, dunque, del ruolo che deve avere una elaborazione sull’organizzazione dei comunisti oggi. E’ proprio questo il paradosso, infatti mentre si riconfermano gli elementi fondanti della analisi Marxista ed anche Leninista della società del capitale viene rimossa l’elaborazione sulla questione della soggettività o, nel migliore dei casi, si ripetono coattivamente modelli organizzativi e di relazioni politiche e sociali palesemente superati dal livello di sviluppo della società odierna.
In realtà, ed a ben vedere, questa difficoltà non riguarda strettamente solo coloro i quali continuano ad identificarsi nel movimento storico dei comunisti ma anche chi si è chiamato fuori o, in modo ancora più significativo, le stesse forze politiche borghesi che mostrano una profonda crisi di rappresentanza politica dell’insieme sociale intesa nel senso più strategico ed egemonico del termine. E’ un fenomeno che riguarda l’intera Europa ma anche gli altri poli imperialisti che vivono una difficoltà delle forze politiche “tradizionali”, siano esse riformiste che conservatrici, ed una profonda crisi di credibilità spesso, per fortuna non sempre, a vantaggio di movimenti “nuovi” che hanno un carattere populista, localista o comunque manifestano una tendenza reazionaria di massa. L’Italia è stato un buon banco di prova di questa evoluzione con Berlusconi e la Lega nonostante la crisi politica che anche queste forze vivono.
Di più. In realtà quello che sta entrando in crisi non è la politica “tout court” o i partiti ma la stessa democrazia borghese in quanto se il parametro di riferimento generale sono indiscutibilmente e religiosamente i “mercati” impegnati nella velocissima, cioè in tempo reale, competizione globale del cosiddetto Turbocapitalismo è chiaro che le forme farraginose e lente della democrazia formale hanno segnato il loro tempo storico. Il governo Monti non è, perciò, un governo di “emergenza” ma è il prodromo di una forma di gestione della società capitalista dell’oggi dove le contraddizioni aumentano e, soprattutto, sfuggono anche al controllo dei “funzionari del capitale” preposti a garantire la continuità della sua egemonia.
Questa ipotesi di gestione sociale avrà conseguenze istituzionali e politiche, sociali e repressive che ancora non si sono pienamente espresse e anticipano una tendenza continentale poiché in Europa all’ordine del giorno non c’è solo la crisi finanziaria mondiale ma anche il processo di superamento degli stati nazionali in funzione della nascita di un effettivo e statualmente formalizzato Polo Imperialista Europeo.
Come si vede una riflessione strategica sul ruolo dei comunisti si presenta non solo necessaria sul piano teorico ma deve considerare il contesto in cui oggi si agisce e dunque anche la crisi delle forme della politica borghese, dato questo non secondario ed incoraggiante per chi non ha ceduto alle lusinghe istituzionali. Tutto ciò rende urgente questa riflessione anche sul piano più direttamente politico.
Capire le caratteristiche del partito/organizzazione dei comunisti, le relazioni interne e le caratteristiche della formazione dei quadri ma capire anche che tipo di relazione avere con l’evoluzione della società attuale e soprattutto dei suoi settori di classe sono passaggi obbligati. Altrettanto rilevante è capire come potenziare la forza antagonistica che può venire da una crisi di egemonia delle attuali classi dominanti in una società dove esiste un alto livello di acculturazione di massa, ma anche come sedimentare le forme stabili di organizzazione di classe che sono le uniche che permettono di ricostruire valori, coscienza politica e garantire una stabile prospettiva strategica.
Come Rete dei Comunisti in questi anni abbiamo espresso chiaramente il nostro punto di vista, a sinistra minoritario e controcorrente, ma ci sembra che le motivazioni che abbiamo cercato di esprimere in modo organico con il documento ed il convegno del febbraio 2010 non vengano smentite dai fatti, anzi la necessità di dare un carattere militante e qualificato all’organizzazione dei comunisti viene confermato dalla fase di estrema confusione che nasce dall’incremento delle contraddizioni e da una fase di transizione i cui esiti non sono chiari nemmeno a chi oggi detiene il potere a livello mondiale. Dunque un’“organizzazione di quadri con funzione di massa” è la definizione di un ruolo qualitativo da svolgere in una società dove le opzioni rivoluzionarie stanno ancora sotto l’orizzonte sia politico che geografico, visto che ora il cambiamento muove da quei paesi della periferia produttiva che per la gran parte stanno nel Sud del mondo.
Nell’incontro di oggi non vogliamo riprendere i ragionamenti fatti nei documenti già scritti ma vogliamo procedere oltre approfondendo per un verso l’analisi e la comparazione storica con il partito comunista di massa della fine del secolo scorso e dall’altro il rapporto che va cercato con la nuova configurazione dei settori sociali e di classe che si determinano dentro una Unione Europea rappresentante esclusiva delle forze finanziarie. Questi per noi sono “work in progress” perché bene conosciamo i nostri limiti e quelli della realtà in cui agiamo ma procedere in questo modo, con la coscienza di una nostra inevitabile parzialità, ci sembra utile a costruire nel tempo una visione più adeguata del contesto dinamico attuale.
Un metodo da applicare ancora
Il primo dato da prendere in considerazione è che nel dopoguerra con un partito comunista uscito vittorioso dalla guerra di liberazione, anche come conferma dell’ assetto organizzativo e politico avuto nella lotta antifascista, il problema che si pone Togliatti e con lui la quasi totalità del partito comunista è proprio il cambiamento del ruolo e dell’assetto del partito stesso. E’ il “partito nuovo” che deve cambiare se stesso in base alle mutate condizioni complessive. La fine del fascismo e la battaglia politica sui caratteri della democrazia italiana, il ruolo della classe operaia nella lotta antifascista ed il radicamento che il partito aveva la conquistato con la vecchia forma organizzata, la nascita delle democrazie di transizione nell’est Europa e la divisione del mondo in blocchi d’influenza sono le condizioni generali che hanno portato alla trasformazione del PCI clandestino prima e poi combattente armato nella resistenza a cambiare radicalmente i propri caratteri mantenendo però quello di classe che poi ha segnato il conflitto politico nel nostro paese per i successivi decenni.
La sconfitta del Fascismo non ha portato a confermare il modello politico, che pure aveva vinto, ma si è avuta invece una radicale trasformazione del partito che abbandonata la dimensione limitata, prima per scelte settarie e poi per la clandestinità imposta dal fascismo, modificava se stesso per poter accedere alla dimensione del partito di massa. La storia successiva ha indubbiamente confermato che le scelte fatte erano adeguate al nuovo contesto nazionale ed internazionale anche se la discussione di merito sulle opzioni politiche possibili all’epoca non va certo data per scontata. Quello che però a noi oggi interessa capire ed evidenziare è il metodo di analisi della fase complessiva relativa al dopoguerra, la capacità di cogliere le trasformazioni sociali, in primo luogo il ruolo centrale della classe operaia di fabbrica in quell’assetto produttivo, ed, infine, la capacità di dotarsi delle forme di organizzazione adeguate a raccogliere la spinta di quella forma storica del conflitto di classe.
Oggi siamo dentro una modifica altrettanto radicale del contesto storico in cui stiamo agendo in cui alla crisi del movimento di classe, oltre che comunista, corrisponde una profonda crisi dell’assetto capitalistico che fa riemergere le sue contraddizioni strutturali, ancora lucidamente interpretabili dalle categorie del pensiero marxista. Non si può pensare di affrontare una fase di cambiamento come questa senza porsi i problemi relativi alla forma organizzata dei partiti e delle organizzazioni di classe in generale e comuniste. Quello che non si può negare è la capacità che il movimento comunista storicamente ha avuto nello strutturare i suoi partiti in base alle condizioni che si manifestavano nei diversi paesi, ribadendo in questo modo che l’organizzazione rimane sempre uno strumento, da modificare quando necessario e contro ogni feticismo organizzativistico.
Siamo in Italia, in Europa cioè in uno dei cuori della trasformazione avviata dal capitale per far fronte di nuovo alle proprie contraddizioni; trasformazioni che riguardano in primo luogo le condizioni dei popoli e delle classi subalterne di questo continente, eppure su come si deve organizzare il movimento di classe e con esso i comunisti siamo all’afonia totale, si naviga più che nella confusione nella ignavia di chi intende svolgere un ruolo antagonista. Le organizzazioni presenti, inclusi i partiti, vivono una condizione che ormai non è più di massa, ovvero sono caduti quasi tutti i rapporti con le classi subalterne, ma non è neanche di militanti in quanto il concetto di militanza è stato svuotato dall’accettazione della cultura egemone, che al massimo ci concede il “volontariato”, e da una pratica interna alle organizzazioni schiacciata sulla contingenza piuttosto che su quello della qualità, del progetto e della formazione.
Ricostruire perciò un confronto tra le condizioni attuali e quelle della fase precedente relativa al partito di massa, mettere a fuoco le differenze e le differenti necessità politiche alle quali deve fare fronte un’organizzazione comunista è un lavoro utile a definire, per approssimazione, lo strumento organizzativo di cui dotarci oggi.
L’esempio cubano
E’ sempre importante mettere in evidenza che l’organizzazione dei comunisti è un mezzo e non un fine, concezione che è stata ribaltata nella politica nostrana degli ultimi decenni. Ciò significa capire che questo mezzo si trasforma assieme alla realtà complessiva in cui si agisce. Questo è un principio non eludibile in quanto se il fine rimane quello della trasformazione, ovvero della rivoluzione dei rapporti sociali, si è continuamente chiamati a verificare l’effettiva funzione dello strumento ovvero del Partito od organizzazione politica dei comunisti. In questo senso diventa molto interessante misurarsi con quello che sta avvenendo nel Partito Comunista Cubano dove, alle modificate condizioni generali, interne ed internazionali, la Conferenza di organizzazione del PC Cubano, tenutasi a Gennaio di quest’anno, ha cercato di ridefinire il ruolo del Partito in relazione alla distinzione di funzioni con lo Stato e con il Governo del paese.
Affrontare una simile questione prodotta dalla fine del campo socialista, dalla ritrovata centralità della legge del valore nell’economia mondiale, dalla presa d’atto e conferma della permanenza della lotta di classe nelle società in transizione significa appunto riconcepire il ruolo dei comunisti nelle nuove condizioni storiche in quel paese e riadeguare le caratteristiche del partito a questa nuova condizione per un periodo di tempo oggi non definibile. Nel confronto che vogliamo fare crediamo che sia utile oggi approfondire con una relazione specifica questo passaggio in atto nel PC Cubano proprio perché può essere un’ importante lezione teorica e di metodo su come i comunisti debbano modificare lo strumento dell’organizzazione in rapporto alle dinamiche del reale con cui hanno a che fare nel loro contesto concreto di azione.
Oltre la nazione
Un elemento di evidente differenza tra la nascita del partito comunista di massa e la situazione attuale è il “teatro” della lotta di classe. Il PCI fin dal 1944 si pone come forza nazionale ovvero reclama per la classe operaia un ruolo nazionale e di ricomposizione dal tracollo prodotto dal Fascismo. Ricomposizione che riguarda i settori sociali diversi dalla classe operaia, dai contadini fino agli intellettuali, dalle donne ai giovani, tutti segnati dalla vicenda bellica, ricomposizione che riprende la lezione del Gramsci della “questione nazionale” e di quella meridionale. L’ambito materiale dentro il quale svolgere la lotta di classe ed una funzione emancipatrice generale era, a quel tempo, la Nazione. Era anche la presa d’atto della divisione del mondo in sfere di influenza tra USA e URSS e la presa d’atto che la rivoluzione doveva ripiegare su una democrazia progressiva. In realtà questa è stata la condizione obiettiva in cui si è fatto politica fino agli anni ‘90, e quando si è cercato di rompere quell’assetto internazionale la risposta del potere è stata di tipo terroristico e violento.
E’ inevitabile capire come le diverse condizioni storiche possano determinare diversi modi di agire ed organizzarsi dei comunisti. Non partiamo da zero nel senso che in Italia la fine del PCI non ha corrisposto alla diaspora e scomparsa dei comunisti, anzi è cresciuta una esperienza come quella della Rifondazione Comunista che ha continuato sulla strada tracciata dal PCI ma anche delle organizzazioni politiche degli anni ‘70 riproponendo un partito di massa che, per senso comune dei militanti, era l’unica strada da intraprendere visto anche l’entusiasmo con cui è iniziata quella esperienza per la gran parte di quei comunisti che non volevano accettare la liquidazione brutale di una impostante storia.
Certamente la conclusione di quel tipo di esperienza può essere messa nel conto di dirigenti “deviati” quali Cossutta e Bertinotti, ma questa sarebbe poco più di una scusa che riconsegnerebbe la Storia in mano agli individui e non ai processi generali che incedono. Dobbiamo dunque andare più a fondo e indubbiamente balza agli occhi il venir meno della dimensione nazionale che era stata la culla nella quale era cresciuto il movimento di classe e comunista, ed è bene ricordarli ambedue. Un venir meno prodotto dal balzo in avanti delle forze produttive che richiedevano altri involucri statuali per poter produrre profitti in modo più cospicuo. Per noi questo ha significato la costituzione sempre più concreta della Unione Europea, come il presidente del consiglio Monti ci ricorda ad ogni piè sospinto. Forze produttive che però hanno trascinato con se tutti gli aspetti della vita dei popoli coinvolti, dalla comunicazione alla formazione culturale, dagli apparti produttivi alle istituzioni politiche, insomma un salto storico del quale se ne è sottovalutato il rilievo fino al sopraggiungere della crisi finanziaria del 2007.
In negativo è facile indicare le responsabilità, la miopia, di quei gruppi dirigenti in tutt’altre faccende affaccendati, ovviamente quelle elettorali, ma allo stato attuale il problema principale è quello di capire come adeguare, di nuovo, il movimento di classe e comunista a questa nuova dimensione storica che ha superato la precedente dimensione nazionale. Naturalmente questo processo di superamento dei confini nazionali coinvolge tutte le aree economiche e monetarie che in diversi modi si sono predisposte a questo passaggio dimensionale della produzione e della circolazione di capitale. Riconcepire dunque una prospettiva per i comunisti significa accettare in primis la sfida della qualità teorica ed analitica, unici strumenti che possono metterli in condizione di comprendere le dinamiche della realtà e di attrezzarsi adeguatamente.
La fine della democrazia borghese?
Un altro dato di fondo che ha caratterizzato la nascita e l’affermazione del partito di massa è stata la lotta per la democrazia. Attorno a questo nodo del conflitto di classe nel nostro paese ci sono stati momenti costitutivi di quel periodo storico. La battaglia vinta contro la legge truffa nel 1953, il governo Tambroni caduto dopo il tentativo nel ‘60 di rilegittimare i fascisti accettando il loro appoggio all’esecutivo, la ventennale lotta nei posti di lavoro per i diritti sindacali nella quale lo scontro con la FIAT Vallettiana è stato centrale, altri momenti di conflitto politico ancora sono stati fondamentali per allargare gli spazi democratici in un paese in cui la propria classe dirigente portava ancora i caratteri della cultura reazionaria sopravvissuta al fascismo.
Va chiarito però un elemento centrale per quel periodo. La battaglia sulla democrazia, l’allargamento dei suoi spazi non erano finalizzati solo all’affermazione di quei principi generali ma erano vissuti, dal movimento di classe nel nostro paese, come una parte della lotta per la trasformazione sociale in Italia. Era ormai chiaro che non si poteva fare “come in Russia” ma si poteva ipotizzare una transizione democratica e pacifica verso un sistema sociale più equilibrato e non ancora socialista.
D’altra parte in quegli anni i paesi dell’est europeo non avevano immediatamente adottato il modello sovietico, infatti esisteva la proprietà privata, seppure controllata, c’erano altri partiti oltre quelli comunisti, ed era chiaro che in quelle condizioni continuava la lotta di classe, cioè era chiaro che la società era ancora suddivisa in classi.
Esplicativo dell’orientamento del PCI dell’epoca sono gli articoli di Eugenio Reale e di Eugenio Varga pubblicati sui numeri di Rinascita di Maggio e Giugno 1947 dove questa lettura dei paesi dell’est Europa viene spiegata in modo dettagliato.
Era questo lo sfondo storico in cui si sviluppava nel nostro paese, ed in altri in Europa, la battaglia per la democrazia intesa in modo “progressivo”, un contesto in cui si poteva anche ipotizzare una riunificazione dei partiti di classe ovvero del PCI e del PSI.
E’ chiara anche la differenza tra quella democrazia come terreno del conflitto per la trasformazione e quella di cui se ne è parlato dopo. Infatti già dagli anni ‘70 questa concezione progressiva viene meno da parte del PCI il quale a causa del forte scontro politico accetta in pieno la concezione della democrazia formale borghese.
La difesa della Costituzione Italiana diventa perciò di tipo “religioso” come accettazione di tavole inviolabili ed immodificabili; cioè avendo abbandonato ogni ipotesi di transizione fa divenire la democrazia borghese il terreno politico più avanzato non in termini di classe ma in termini di valori generali ma socialmente indistinti.
Non vogliamo qui dare giudizi di merito sulle modifiche politiche attuate ma rilevare come la questione democratica si sia modificata e come il partito di massa abbia adeguato la propria concezione e relazioni alle condizioni storiche specifiche di quei tempi, cioè arrivando ad una sostanziale modifica della propria volontà politica.
Questo passaggio non ha avuto solo effetti sulla linea politica adottata ma ha inciso profondamente sul modo d’essere del partito di massa e delle sue relazioni interne. Venendo meno il “Fine”, ovvero la “rivoluzione” intesa anche nelle sue forme democratiche così come le aveva precedentemente concepite il PCI (sono di quel periodo le dichiarazioni di Berlinguer sull’utilità dell’ “ombrello” della NATO e sulla fine della spinta propulsiva dell’URSS) al primo posto è balzata la politica vista come tattica esclusivamente relativa agli scenari politici del momento.
Tutto ciò ha causato una mutazione della percezione della politica da parte dei quadri del partito rimuovendo l’aspetto strategico e facendoli acconciare sulla sola dimensione pratica o, per meglio dire, pragmatica.
In conseguenza c’è stato un effetto sulla “teoria”, ovvero sulla capacità di interpretare il mondo nelle sue dinamiche fondamentali, ed ha avuto un sottoprodotto dapprima inavvertito ma poi manifesto sui ruoli individuali sempre più prevalenti nei gruppi dirigenti; chi non si ricorda il supponente protagonismo di Occhetto? Questa maturazione perversa si è poi palesata appieno con la rottura degli involucri organizzativi delle organizzazioni della sinistra, non solo del PCI, ed è stata un presupposto della corruzione politica ma anche economica che ha poi portato alla devastazione attuale.
Oggi la situazione è ulteriormente modificata, la democrazia è divenuta, come il lavoro, una variabile dipendente e dunque disponibile alle modifiche necessarie al livello di sviluppo delle attuali società. La crisi, la costruzione del Polo Imperialista Europeo, la trasformazione delle classi dirigenti a classi dominanti porta evidentemente alla riduzione della democrazia borghese fino alla sua scomparsa di fatto a causa delle condizioni generali imposte dal livello sempre più intenso della competizione globale che l’assetto capitalistico impone.
Gli esempi li abbiamo sotto gli occhi in Grecia con il divieto di fare il referendum proposto dal governo Papandreu, poi caduto e sostituito, ma anche con la nascita del governo Monti, con l’inserimento nella costituzione del vincolo di bilancio, quella stessa costituzione che qualcuno ci dice inviolabile, con l’approvazione del Fiscal Compact che determina dall’esterno le politiche fiscali dei singoli paesi europei. Tutto questo senza alcuna consultazione dei popoli coinvolti, anzi con l’aperta opposizione di questi popoli che quando sono stati chiamati a pronunciarsi hanno espresso chiaramente un parere negativo.
Parlare di come i comunisti debbano organizzarsi e di quale funzione debbano avere oggi è evidente che non può prescindere da questa evoluzione politica avuta e di come il contesto democratico del nostro paese stia sempre più degradando; il partito di massa così come è stato “imbalsamato” negli ultimi decenni mostra il superamento di ogni sua funzione positiva in questa fase storica se non altro perché queste espressioni sono state espulse dal loro contesto naturale degli ultimi anni cioè quello istituzionale con la fuoriuscita dalle aule parlamentari.
Dal bipolarismo al multipolarismo
Il cambiamento “ambientale” dell’agire dei comunisti non ha riguardato solo la dimensione nazionale ma coinvolge in pieno anche il dato internazionale che sempre ha determinato nell’ultimo secolo anche le dinamiche più specificamente nazionali. E’ quasi superfluo starle a ricordare in questo dibattito tanto sono evidenti, sostanzialmente si è passati dal bipolarismo prodotto dalla competizione, anch’essa globale, tra URSS ed USA ad un mondo multipolare dove le aree imperialiste si trovano a collaborare/competere tra di loro e con paesi che imperialisti non sono. E’ una situazione storicamente inedita dove lo strapotere dei paesi dominanti non è così completo anche in assenza di una compiuta alternativa sociale al capitalismo.
Questo mutamento richiede una qualità dell’organizzazione ben diversa dalla fase precedente.
Sono infatti venuti meno alcuni parametri fondamentali che hanno formato generazioni di giovani, militanti, semplici iscritti ai partiti. Uno è certamente la questione dell’imperialismo; dal 1945 l’unico imperialismo noto è stato quello degli USA contrariamente a quello avvenuto nelle fasi storiche precedenti dove non esisteva l’imperialismo ma “gli imperialismi”, una differenza non da poco per chi ha percepito nella propria esperienza pratica solo quello USA.
Con la fine dell’URSS e con il ruotare della storia all’indietro, verso l’inizio del ‘900, si è comunque continuato a pensare come prima ad un solo imperialismo ed ignorando il ruolo che sempre più assumeva l’Unione Europea e l’Euro come protagonisti della competizione globale, cosa questa che oggi invece emerge chiaramente dentro la crisi finanziaria mondiale. Questo non è stato solo un errore di carattere teorico ma ha anche fatto emergere l’incapacità di lettura sulle dinamiche della società e dei settori di classe del nostro paese che nel frattempo accumulavano modifiche materiali, culturali e politiche sempre più forti. Se ci fosse stata questa capacità sarebbe stato infatti chiaro che queste modifiche avrebbero portato anche a riflettere, rivedere e riconcepire le relazioni tra la soggettività politica organizzata e la realtà della classe in via di modificazione.
Ma il passaggio ad uno scenario mondiale multipolare ha posto un altro ostacolo alla capacità politica delle forze comuniste, infatti mentre si continuava giustamente a concepire la necessità della trasformazione sociale, della rivoluzione, quello che era stato il modello da seguire, il come concretamente si poteva organizzare una società alternativa, è venuto meno con la fine dell’URSS e ci ha richiesto, anche questo un salto di qualità politica e teorica.
Oggi a circa venti anni di distanza possiamo dire che la Storia si è rimessa in qualche modo in movimento mostrando, prima di tutto, che il capitalismo mantiene tutte le proprie contraddizioni con i tragici effetti sociali, economici e bellici che possiamo osservare, ma soprattutto che la fine del cosiddetto socialismo reale non ha significato la fine di tutte le esperienze rivoluzionarie che sono nate nel corso del secolo scorso. In controtendenza è certamente l’importante esperienza Latino Americana che si è avviata su forme di transizione al socialismo diverse da quelle precedenti, ma con l’apporto teorico potente del Partito Comunista Cubano. Come altre esperienze, seppure molto contraddittorie come quelle della Cina attuale, certamente rappresentano un grande ostacolo all’espansionismo dei paesi imperialisti. Comunque è ancora vivo nel mondo un movimento di resistenza, che si esprime con tutte le diverse forme di lotta, che nella profonda attuale crisi sistemica è anche un presupposto importante per la ripresa in prospettiva di un movimento rivoluzionario e antimperialista.
Sapere che il capitalismo non è la fine della Storia è certamente un elemento importante, ma per noi il problema è capire come una struttura comunista si deve strutturare per interpretare e collocare nella propria azione questa nuova realtà internazionale. Realtà che incide concretamente nella dimensione nazionale ma che non offre più, come prima avveniva, un sicuro modello sociale alternativo. Tutto questo ovviamente è rilevante per le caratteristiche nella formazione dell’ “intellettuale collettivo” in un contesto dove un modello alternativo di società non è immediatamente proponibile ai settori sociali di un paese interno alla Unione Europea.
Attraversando il deserto culturale
Nell’affermare questo non ci riferiamo alla Cultura con la “C” maiuscola che appartiene, naturalmente, agli intellettuali ma a quel bagaglio, a quel sapere collettivo che nasce dalle esperienze storiche concrete dei popoli e delle classi e che è fatto di riferimenti, di valori, di rapporti e comportamenti che producono una conseguente coscienza ed identità di se stessi.
Il passaggio dal partito clandestino del periodo fascista a quello di massa avviene in un drammatico periodo storico segnato dalla guerra e dalla lotta di liberazione dove le mistificazioni ideologiche non avevano più senso, dove la verità emergeva dalla durezza dello scontro e dove ognuno era costretto a prendersi le proprie responsabilità schierandosi dall’ una o dall’altra parte. Una simile scelta implicava inevitabilmente la necessità di capire bene la realtà e le sue evoluzioni e per fare questo esistevano i pensieri forti che “fornivano” riferimenti e valori.
Alla fine della guerra e della lotta di liberazione le classi subalterne del nostro paese uscivano in una condizione politica ribaltata da quella vissuta nel fascismo dove la passività e la sudditanza erano i valori del regime. A questa imponente impresa aveva contribuito il partito clandestino, di quadri, e la lotta di liberazione ma proprio da questo risultato nasceva l’ipotesi del partito di massa anche perché la cultura popolare che si era generata da quel passaggio storico permetteva quella evoluzione a dimensione di massa.
Oggi qual’ è la condizione che vive su questa dimensione una forza comunista? Sappiamo bene lo stato di arretratezza della coscienza non di classe ma perfino di quella civile; venti anni di devastanti campagne ideologiche hanno costruito artatamente valori e riferimenti culturali che solo la crisi attuale sta smontando lentamente. Ma quello che è stato più determinante è stata la scomparsa di ogni riferimento realmente alternativo ed antagonista; per quanto riguarda la sinistra ed i partiti comunisti in Italia va detto che questi hanno promosso una sorta di pentitismo di massa, cioè è stata diffusa la convinzione che tutto quello che era stato fatto nel ’900 era comunque sbagliato. Va aggiunto anche che questa visione delle cose in realtà è penetrata a fondo nel vasto popolo della sinistra che non è stato portato a ragionare sugli errori di merito, tanti e seri, ma su una idea di fallimento che non poteva non spingere a pensare sugli schemi che l’avversario di classe “gentilmente” concedeva.
L’affermazione del partito del leader che ha sostituito l’intellettuale collettivo e le pratiche democratiche nelle organizzazioni, l’accettazione del berlusconismo come male assoluto, l’assunzione politicamente paralizzante della logica del meno peggio, la perdita del valore dell’indipendenza della classe e comunque il profondo senso di impotenza e subordinazione alle dinamiche istituzionali sono le forme in cui si è manifestata l’accettazione dello stato delle cose esistente. E’ questa condizione caratterizzata dalle macerie culturali della classe che l’idea del partito di massa entra in crisi ma è sempre in tale condizione che va riconcepito il ruolo dell’organizzazione comunista e che la ricostruzione di una egemonia sui settori sociali richiede una capacità di orientamento e formazione tutta da ricostruire.
Dunque Organizzazione di quadri…
L’analisi abbozzata nella relazione ci dice che le condizioni concrete e storiche in cui agiscono i comunisti in un paese a carattere imperialista sono radicalmente mutate e la crisi che viviamo soggettivamente nasce in buona parte dalla perdita di analisi storica dei processi generali e di come questi costringono a riadeguare la soggettività organizzata.
In altre parole il partito di massa in questa fase storica è troppo debole per affrontare le difficoltà di un passaggio complesso; in questo senso va ridato ruolo alla qualità dell’analisi, alla capacità dell’organizzazione di interpretare e costruire il conflitto di classe, alla formazione dei quadri ma anche dei settori sociali nei limiti delle possibilità. Come si vede un modo sostanzialmente diverso da come si è vissuto in questi anni e di come ancora si vive la militanza nei partiti dove alla formazione si sostituisce l’attivismo periodico nelle scadenze elettorali e dove alla necessità di costruire sistematicamente il conflitto si preferisce “prendere posizione” sulle lotte che esplodono, e troppo spesso muoiono, nella società.
…con funzione di massa
Ma se la questione posta nel capitolo precedente è fondamentale altrettanto importante è la “funzione di massa” in quanto seppure è evidente la difficoltà dei comunisti di riprodurre nella società attuale l’egemonia avuta nei decenni passati, sia per responsabilità soggettive che per condizioni oggettive, vanno comunque individuati e ricostruiti gli snodi del rapporto con la più ampia parte della società così come è oggi, lontana da quelli che sono stati i parametri politici usati nei precedenti periodi del conflitto di classe.
Lavorare per ridare una rappresentanza politica alle classi subalterne distrutta dai processi di riorganizzazione capitalistica, supportare ed organizzare il conflitto sociale e sindacale nelle molteplici e disgregate forme che oggi manifesta, ridare un ruolo ai giovani in una società che li vuole senza futuro, questi ed altri sono i terreni di ricostruzione che devono affrontare le organizzazioni comuniste; terreni propedeutici anche a produrre una visione diversa del mondo e delle possibilità di superamento della profonda crisi attuale.
“Funzione di massa” intesa non come semplice orientamento politico da fornire a chi oggi è immerso nelle contraddizioni, orientamento reso impossibile dagli “apparati ideologici dello Stato” dalla scuola ai mass media, ma come intervento diretto di organizzazione del conflitto di classe con le forme adeguate a tutti i suoi articolati livelli di espressione. La politica così come l’abbiamo intesa nei decenni passati non esiste più, il conflitto rivendicativo permane ma i rapporti di forza tra le classi sono troppo sfavorevoli ai lavoratori, dunque si riconferma l’importanza della progettualità in funzione e per la costruzione diretta e non formale dell’organizzazione di classe.
Sulla rappresentanza
In questa direzione dobbiamo perciò individuare quali sono i punti dove una organizzazione di quadri deve comunque avere nel nostro paese quella funzione di massa, politica ed organizzativa, necessaria a ricostruire la relazione con ampi settori sociali seppure con modalità diverse da quelle precedenti.
Al primo punto c’è la questione che si sta imponendo ed evidenziando sempre più cioè la questione della Rappresentanza Politica, prima ancora che elettorale, dei settori di classe e, più in generale, delle classi subalterne. E’ evidente che la crisi dei partiti comunisti in Italia ma anche della sinistra in genere lascia un vuoto politico enorme che produce nella migliore delle ipotesi comunque estraneità alla politica e nella peggiore crea le condizioni per la nascita di un effettivo e pericoloso, ben più di Berlusconi, movimento di massa reazionario.
Come interpretare i processi economici in atto, come ricostruire le relazioni sociali, di quali forme organizzate si deve dotare, quali alleanze sono possibili per il lavoro dipendente nella crisi attuale sono le domande da porsi nella ricostruzione di un rapporto di massa che portano ad intrecciare problematiche teoriche e politiche alle quali va risposto concretamente ritrovando, anche, l’utilità degli strumenti interpretativi della “cassetta degli attrezzi” di Marx. La cosiddetta crisi del debito pubblico, il trasferimento della ricchezza verso le classi dominanti, il peggioramento progressivo delle condizioni del lavoro dipendente e di quelle sociali, sono il terreno su cui va collocata la capacità di ricomposizione e di recupero dei rapporti di forza tra le classi nel nostro paese.
I problemi che si pongono in questo senso e le risposte da dare non sono pochi. Esiste certamente quello delle caratteristiche politiche ed identitarie dello strumento politico su cui procedere, inoltre si pone certamente la questione della forma organizzata di un tale strumento di massa.
Infine, ma non per ultimo, c’è la questione della individuazione di un programma rappresentativo che sappia portare a sintesi la attuale disgregazione delle classi subalterne su una piattaforma politica e di lotta in grado di avviare la necessaria ricomposizione. In buona sostanza bisogna ritrovare la perduta dimensione di massa nei termini oggi possibili nel contesto dato e rispetto al quale i comunisti devono ritrovare una loro capacità propositiva.
Sulla questione giovanile
Se il “nodo gordiano” della rappresentanza politica è certamente strategico, ci sono anche altri terreni importanti su cui ragionare e lavorare concretamente. Uno di questi è ad esempio la condizione giovanile nel nostro paese e le sue prospettive reali. Questo è stato sempre un ambito di intervento per i comunisti a partire dal bisogno di idealità e di prospettiva che i giovani hanno naturalmente rispetto al tempo in cui vivono. E’ successo nella lotta di liberazione durante la seconda guerra mondiale, è successo in modo diverso nel movimento degli anni ‘70 e nei movimenti giovanili seguiti a questo. Non è affatto casuale che il governo Monti insista molto – e strumentalmente – sui giovani in contrapposizione alle supposte “rigidità” del welfare state e del movimento dei lavoratori. Sulle nuove generazioni si gioca la riuscita o meno della sua egemonia sulla società.
Questo ambito presenta vari aspetti che occorre tenere ben presenti. Il primo è certamente quello di dare risposte ad una idealità che nasce dalle crescenti ed evidenti ingiustizie che l’attuale società presenta ed amplifica. In questo senso la necessità di ribadire la questione del “fine”, ovvero della rivoluzione sociale, diventa sempre più decisiva. Non possiamo nasconderci che tale aspetto è stato sempre più posto in secondo piano dai partiti comunisti per evidenti motivi di condizione storica (la liquidazione della “rivoluzione in occidente”) ma, così facendo, hanno buttato il bambino con l’acqua sporca. La disponibilità alla lotta dei giovani, infatti, non parte dalle condizioni specifiche ma da una concezione del mondo e della sua trasformazione possibile. Si è rinunciato così ad una battaglia culturale a tutto campo contro la società borghese limitandosi a criticarne forme specifiche, il neoliberismo e non il capitalismo, la pace e non la lotta contro la guerra, la globalizzazione e non l’imperialismo, lasciando così il campo culturale interamente in mano all’avversario di classe e ai suoi apparati ideologici.
C’è però un elemento più strutturale e di prospettiva da tenere presente quando si parla di giovani e soprattutto di quelli che vivono nel “ventre” degli imperi. Nel Modo di Produzione Capitalista la contraddizione centrale è quella tra sviluppo delle forze produttive ed i rapporti sociali di produzione. Oggi nella crisi sistemica in atto tale contraddizione non appare più offuscata e sta agendo a pieno ritmo proprio laddove l’egemonia del capitale sembrava incontestabile. Se nei paesi della periferia produttiva la crescita economica permette di gestire le contraddizioni che il capitalismo produce, nei paesi imperialisti la situazione è ormai diversa. Infatti di fronte ad enormi capacità produttive generate dalla tecnologia e da una forza lavoro qualificata, le relazioni sociali sono condannate a peggiorare a scapito del lavoro sia manuale che intellettuale, cioè di quella parte più consistente dei giovani. In altre parole quella contraddizione strutturale si presenta alla percezione delle giovani generazioni come contraddizione tra le aspettative, cullate e alimentate dalla ideologia egemone, e la miseria della realtà, prodotta dalla brutalità della legge del massimo profitto.
Se per i giovani delle generazioni precedenti l’emancipazione era un obiettivo da porsi e per cui lottare, oggi tale possibilità di emancipazione scompare alla vista delle nuove generazioni attuali, le quali vengono lasciate in balìa di una visione del mondo e di prospettive che nella situazione attuale non possono che peggiorare.
In sintesi si va formando una “pentola a pressione” dove si amplifica la tensione sociale e che può trovare risposte solo in una prospettiva generale di cambiamento, non condizionata dalla materialità del pragmatismo e “vertenzialismo” ormai senza più interlocutori nelle classi dominanti.