di Massimiliano Piccolo
Premessa
Il nodo della ricostruzione di una funzione di massa dei comunisti e di una rappresentanza politica indipendente degli interessi di classe sta sul tavolo della sinistra italiana, non casualmente, da almeno un ventennio. Al primo punto c’è la questione che si sta imponendo ed evidenziando sempre più cioè la questione della Rappresentanza Politica, prima ancora che elettorale, dei settori di classe e, più in generale, delle classi subalterne.
La rappresentanza politica
La nascita del PRC – nonostante tutti i limiti mostrati – a molti sembrava (fino a non molto tempo fa) aver dato una risposta a questa esigenza.
Eppure, quasi da subito, si era rivelata fallimentare l’ipotesi di un partito che volesse (pretenziosamente) rifondare ma senza alcuna analisi critica sulle ragioni oggettive di una sconfitta, sia nei termini di una critica alla svolta eurocomunista sia in quelli del progressivo allontanamento dai luoghi del lavoro. Come anche l’aver considerato sostanzialmente un tabù l’esperienza dei cosiddetti socialismi reali (che per noi sono stati il socialismo possibile allora) e, all’interno, di un’inedita forma di partito, né di quadri né effettivamente di massa, teorizzare invece la funzione politica del segretario mai come sintesi ma di imposizione della maggioranza sulle minoranze. Si dirà pure che quella vicenda si è ormai conclusa; ma il frutto di quella storia è un quadro visibilmente più arretrato.
Altrettanto chiara, per parti significative dell’equivoca sinistra antagonista italiana, è stata la subordinazione alla CGIL ritenuta per molto tempo l’unico strumento intermedio di rapporto con il mondo del lavoro.
Questo stato di cose non ha permesso il radicarsi e l’affermarsi di un punto di vista alternativo e di una diversa ipotesi organizzata.
Il ruolo dei movimenti nell’ultimo decennio è stato importante. Come importante è stata, senz’altro, la presenza del sindacalismo di base (soprattutto il percorso che ha portato alla nascita dell’USB) che sta mutando il proprio ruolo in conseguenza del generale cambiamento del quadro politico e sindacale (non è, infatti, indifferente il protagonismo della FIOM quasi fosse altra cosa rispetto alla CGIL). Ma il ruolo dei movimenti è rimasto per lo più sterile perché il nodo di un’adeguata soggettività politica organizzata e di classe non è stato ancora sciolto.
Dentro l’attuale precipitare della crisi e a circa quattro anni dalle elezioni del 2008, che hanno sancito la crisi dei partiti storici della sinistra, facendo balzare indietro di oltre un secolo il livello della rappresentanza politica dei lavoratori, vi è un diffuso senso di impotenza rispetto alla possibilità di risalire la china, di rispondere alla gestione liberista della crisi impressa dal grande capitale europeo e dal governo Monti.
I movimenti sociali e le forze della sinistra anticapitalista tengono ancora dignitosamente sul terreno della specificità (sindacale, ambientale, internazionalista) della propria iniziativa, ma non riescono ancora a mettere in campo un’ipotesi ricompositiva sul piano politico e delle alleanze. Soprattutto siamo ancora in stand by sul piano di un progetto di rappresentanza politica dei settori popolari del paese che abbia una minima – ma reale – capacità di diventare esperimento e riferimento politico per settori sociali più ampi rispetto a quelli degli attivisti. E’ su questo che come Rete dei Comunisti stiamo lavorando ad esempio nel Comitato No Debito.
E’ innegabile che l’apparato istituzionale costruito in questi anni dalle classi dominanti e dalla perfetta convergenza tripartizan, ha creato tutte le condizioni per sbarrare il campo a un’iniziativa sulla rappresentanza politica che abbia delle ricadute anche sul piano elettorale (vedi la nuova legge “proporzionale” concordata da Bersani, Alfano, Casini).
Infine, la rappresentanza politica di cui parliamo non può che essere del tutto indipendente dal quadro bipolare del centrodestra e del centrosinistra, i quali perseguono politiche del tutto simili limitandosi a scontrarsi sulla “sovrastruttura” istituzionale o poco più. Rappresentanza politica che non abbia, ovviamente, atteggiamenti di principio pregiudizievoli sulla politica-istituzionale ma che sappia sempre valutare gli elementi della tattica all’interno di un quadro strategico: è sempre il tutto, infatti, a determinare la qualità delle parti.
Il nodo della rappresentanza politica indipendente, dunque, si pone oggi in tutta la sua reale dimensione e, per certi versi, drammaticità sociale. La sfida è mostrare che i comunisti, insieme a una sinistra di classe indipendente ed anche dislocata su varie posizioni, riescano ad avviare un processo di ricostruzione di un’adeguata funzione di massa che sappia esprimere indipendenza politica dall’assetto politico-istituzionale oggi al servizio del grande capitale. In tal senso si dovrà mettere in gioco una propria capacità progettuale e organizzata per ridare ai settori sociali subalterni quella rappresentanza di cui sono stati privati in questi ultimi venti anni.
La risposta a questa esigenza diffusa non è per nulla facile o scontata, sia per i nostri limiti soggettivi sia per la complessità della situazione sociale e politica che difficilmente può trovare risposte immediate o politicamente semplici. Occorre prendere atto che la risposta sarà complessa tanto quanto lo è la situazione e che, però, è da questa realtà che occorre partire e che questo processo non può essere avviato se non si va a fondo nell’analisi della situazione oggettiva e nel confronto comune.
E’ evidente che la crisi dei partiti comunisti in Italia ma anche della sinistra in genere lascia un vuoto politico enorme che produce nella migliore delle ipotesi comunque estraneità alla politica e nella peggiore crea le condizioni per la nascita di un effettivo e pericoloso, ben più di Berlusconi, movimento di massa reazionario.
Come interpretare i processi economici in atto, come ricostruire le relazioni sociali, di quali forme organizzate ci si deve dotare, quali alleanze sono possibili per il lavoro dipendente nella crisi attuale, sono le domande da porsi nella ricostruzione di un rapporto di massa. Domande che portano a intrecciare problematiche teoriche e politiche alle quali va risposto concretamente riscoprendo l’utilità della “cassetta degli attrezzi” di Marx.
La cosiddetta crisi del debito sovrano (pubblico), il trasferimento della ricchezza verso le classi dominanti, il peggioramento progressivo delle condizioni del lavoro dipendente e di quelle sociali, sono il terreno su cui va collocata la capacità di ricomposizione e di recupero dei rapporti di forza tra le classi nel nostro paese.
I problemi che si pongono in questo senso (e le risposte da dare) non sono pochi. Su tutti, certamente, si pone quello delle caratteristiche politiche e identitarie dello strumento con cui procedere. Inoltre, si pone certamente la questione della forma organizzata di un tale strumento.
Infine, ma non per ultimo, c’è la questione dell’individuazione di un programma rappresentativo che sappia portare a sintesi l’attuale disgregazione delle classi subalterne su una piattaforma politica e di lotta in grado di avviare la necessaria ricomposizione. In buona sostanza bisogna ritrovare la perduta dimensione di massa nei termini oggi possibili nel contesto dato e rispetto al quale i comunisti devono ritrovare una loro capacità propositiva.
La funzione di massa
È in questa direzione, dunque, che dobbiamo perciò individuare i punti dove, mutato il contesto, un’organizzazione di quadri, come la nostra, deve comunque avere nel paese quella funzione di massa, politica ed organizzativa, necessaria a ricostruire la relazione con ampi settori sociali seppure con modalità diverse da quelle precedenti.
È apparentemente paradossale che mentre viene a maturazione una crisi economica mondiale devastante e, ormai a detta di tutti, sistemica, sia scomparso dall’orizzonte strategico la ricerca di un pensiero altro. Crisi economica prevista e prevedibile perché tutta interna alla logica stessa dello sviluppo del Modo di Produzione Capitalista. Che fare?, quindi, nell’Europa e specificatamente in Italia, tenendo cioè in debita considerazione la collocazione internazionale di questo nuovo polo imperialistico, di fronte all’attuale crisi strutturale e sistemica del modo di produzione capitalista? Né il capitalismo, infatti, implode da solo, né il socialismo cade dal cielo.
Alcuni, anche a sinistra, non scartano l’ipotesi di un nuovo keynesismo, sebbene senza il patto sociale che negli anni ‘50 e ‘60 permise la nascita dello stato sociale. La domanda di fondo è: vi sono le condizioni per la transizione da un modello neoliberista in cui appare maggiormente l’aspetto speculativo-finanziario a uno produttivo-commerciale neokeynesiano ma in mancanza di nuove forme di accumulazione? Nella fase espansiva del modello fordista fu possibile la crescita quantitativa del Capitale anche grazie agli Stati di welfare; condizione oggi, forse, non ripetibile.
Ecco perché, allora, la realtà ci offre con evidenza il tema della soggettività comunista come risposta attuale alla crisi, non tanto come possibilità, quanto come capacità di far sedimentare le forze necessarie al superamento della società del capitale e, dunque, a una vera fuoriuscita dalla crisi. Ma se da questo punto di vista, dunque, le crisi rappresentano anche un’opportunità, il piano inclinato del Capitale non precipita da solo: bisogna trovare la forza e il coraggio intellettuale per tornare a ingaggiare una battaglia per l’egemonia culturale, politica e ideologica. Sappiamo bene che ricostruire una rappresentanza politica indipendente dei comunisti e non solo di una generica sinistra antiliberista non è un obiettivo facile anzi, per molti compagni particolarmente ansiosi di raggiungere pseudo obiettivi immediati, questo potrà apparire velleitario. Ma se c’è ancora la volontà di opporsi a una società che mostra sempre più le proprie disparità sociali, l’assenza di democrazia, la competizione senza limiti e a tutti i livelli come unico parametro ideologico, non ci sono scorciatoie politiche e tattiche da perseguire.
Seppure è evidente la difficoltà dei comunisti a esercitare nuovamente nella società attuale l’egemonia avuta nei decenni passati, sia per responsabilità soggettive sia per condizioni oggettive, la funzione di massa è imprescindibile per individuare e ricostruire gli snodi del rapporto con la più ampia parte della società, oggi molto lontana da quelli che sono stati i parametri politici usati nei precedenti periodi del conflitto di classe. Lavorare per ridare una rappresentanza politica alle classi subalterne distrutta dai processi di riorganizzazione capitalistica, supportare e organizzare il conflitto sociale e sindacale nelle molteplici e disgregate forme che oggi manifesta, ridare un ruolo ai giovani in una società che li vuole senza futuro questi ed altri sono i terreni di ricostruzione delle organizzazioni comuniste propedeutici anche a produrre una visione diversa del mondo e delle possibilità di superamento della profonda crisi attuale.
Su quali questioni dobbiamo e possiamo, quindi, giocare una funzione di massa e non testimoniale dei comunisti nel nostro paese? Ricapitolando:
1. Gli effetti della crisi sul piano dell’impatto sociale nel nostro paese. Capire le caratteristiche e gli effetti sociali concreti di questa crisi, cogliere le tendenze e le contraddizioni che ne emergeranno è la vera carta su cui puntare per capire se c’è ancora spazio nel nostro paese per una rappresentanza dei settori di classe indipendente ed organizzata. A questo si collega anche la decostruzione del blocco sociale di sostegno al vecchio progetto berlusconiano sul quale giocano un ruolo attivo fascisti e Lega. E’ possibile lasciare la campagna contro l’IMU solo alla Lega o la lotta contro Equitalia solo ai fascisti? Su quali elementi e con quali modalità è possibile dare una prospettiva generale a rivendicazioni come queste anche se per noi sarebbe elusivamente di natura tattica?
2. La battaglia a tutto campo sulla democrazia. Non è solo un problema di agibilità politica o di repressione che pure oggi sono elementi che stanno venendo in primo piano. Il carattere autoritario del governo Monti è ormai esplicito. Una piattaforma democratica che respinga la repressione, riaffermi l’irrinunciabilità della divaricazione tra democrazia e governabilità quando la seconda avviene tutta a scapito della prima, la richiesta del referendum sui Trattati Europei che stanno ormai demolendo ogni procedura democratica nel quadro della sovranità dei singoli paesi membri dell’Unione Europea, il ripristino della legge elettorale proporzionale. Su questi temi i comunisti possono impugnare le bandiere che gli stessi settori “democratici” della borghesia stanno lasciando cadere e non – s’intenda – per difesa del principio borghese di democrazia ma per ribadire la centralità della funzione di massa nell’interesse collettivo.
3. La rimessa in discussione radicale dell’Unione Europea. Rompere il tabù della inevitabilità dell’adesione dell’Italia all’Eurozona e della subalternità ai Trattati Europei così come alla Nato. I limiti costituzionali hanno impedito una discussione pubblica su questi temi. L’impossibilità di celebrare dei referendum in materia di trattati internazionali non hanno mai permesso che su questo la società potesse discutere ampiamente e poi decidere.
Una funzione di massa da intendersi, dunque, non come semplice orientamento politico da fornire a chi oggi è immerso nelle contraddizioni (orientamento reso particolarmente complicato dagli “Apparati Ideologici dello Stato” dalla scuola ai mass media), ma come intervento diretto di organizzazione del conflitto di classe a tutti i suoi livelli di espressione.
La funzione di massa dei comunisti attiene così alla loro capacità di esercitare un ruolo avanzato e d’indicazione di una prospettiva di alternativa di sistema dentro la crisi perché il blocco sociale antagonista, oggi al centro di tutte le operazioni di destrutturazione e subordinazione da parte del capitale, passi da classe in sé a classe in sé e per sé.
Un’operazione politica e culturale che sappia distinguere (e comunicare tale distinzione) tra rappresentanza politica della sinistra e rappresentanza politica del blocco sociale. Contrastare sul terreno del programma e della rappresentanza politica, così intesa, le forze reazionarie prima che esse riescano a dar vita a un movimento reazionario e di massa, è un primo aspetto della sfida che i comunisti del XXI Secolo devono affrontare.
La funzione di massa dei comunisti deve dunque agire per ricostruire una rappresentanza politica organizzata e stabilmente presente nei settori sociali, nelle aree metropolitane, nel mondo del lavoro stabile e precarizzato, nelle diverse condizioni territoriali, che ricostruisca, attraverso l’intellettuale collettivo, quelle casematte che hanno permesso al nostro paese un lungo periodo di riscatto sociale e culturale che i comunisti hanno saputo interpretare per decenni.
Sulla questione giovanile
Se il nodo della rappresentanza politica è certamente strategico, ci sono anche altri terreni importanti su cui ragionare e lavorare concretamente, soprattutto come laboratorio reale della funzione di massa. Uno di questi è ad esempio la condizione giovanile nel nostro paese e le sue prospettive reali. Questo è stato sempre un ambito d’intervento per i comunisti a partire dal bisogno di idealità e di prospettiva che i giovani hanno naturalmente rispetto al tempo in cui vivono. A prima vista, infatti, potrebbe apparire naturale partire dalla constatazione di una fase della vita di ciascuno che, da un’angolatura anche interclassista, giustifichi questo passaggio. Eppure, allo stesso modo della gramsciana ‘questione meridionale’ che non voleva essere il riconoscimento di un caso particolare ma, al contrario, l’elevazione di quest’ultima a caso generale, nazionale, la ‘questione giovanile’ vuole ritagliarsi anch’essa un profilo più ampio: più che generazionale, generale. E, quindi, interessare l’azione dei comunisti dall’interno di una prospettiva strategica.
Nel caso del tema che affrontiamo qui essa è anzi, come cercheremo di mostrare, un aspetto specifico della dialettica particolare-generale: la questione giovanile è, infatti, da un certo punto di vista, caso particolare della più generale questione di classe, non essendoci omogeneità sociale per i giovani in sé. Ma, da un altro punto di vista, è la questione di classe a diventare caso particolare della più generale questione giovanile, essendo anch’essa, per definizione, soggetta a formazione da parte di ‘agenzie generali’ (l’ideologia dominante, lo spazio e il tempo storici) che omogeneizzano.
Semplificando: nel primo caso, la rivendicazione di classe incrocia la questione giovanile sotto forma di specifico sfruttamento e messa a valore delle potenzialità della forza-lavoro dei giovani; nel secondo caso, invece, la questione giovanile è oggettivamente terreno di scontro nell’edificazione delle prospettive del paese (e del mondo) richiedendo una forza non meramente legata al terreno di classe, ricorrendo spesso a un’idealità più generale. Per comprendere pienamente questo, veniamo al nostro paese e alla sua storia.
E’ successo, ad esempio, nella lotta di liberazione durante la seconda guerra mondiale: Togliatti, in una riflessione sulla gioventù italiana scritta a Parigi l’8 dicembre 1936 e allegata agli Atti del MI della polizia politica fascista, scriveva già nell’ottica di chi sente il compito storico di rifare l’Italia e, per fare questo, deve interpretare e guidare una gioventù apparentemente indifferente. Togliatti stava, così, già lavorando a quel partito nuovo, di massa, che avrebbe poi sostituito quello nato nel 1921 modellato su di un’avanguardia di quadri rivoluzionari. Le immediate esigenze di lotta imponevano la formazione (a volte la conversione) antifascista delle masse. E cercava, pure, d’insinuarsi tra le contraddizioni, veri effetti boomerang, del fascismo: “nell’anticapitalismo della gioventù si esprime l’incapacità del capitalismo italiano ad approntare una soluzione ai problemi vitali delle giovani generazioni. Questo anticapitalismo non è particolare della solo gioventù operaia, ma caratteristica di tutta la giovinezza italiana, nasce e si sviluppa sul terreno stesso della realtà sociale del nostro paese. La demagogia fascista ha contribuito, malgrado essa, a favorire lo sviluppo della tendenza anticapitalista […].” Quindi, non subordinando l’azione e la prospettiva politica all’analisi di classe ma affiancandola, considera il ‘contenitore’ ideologico del fascismo che aveva anche spinto alcuni a percepire il corporativismo come una forma anticapitalista, un vuoto da riempire con l’egemonia (nel senso gramsciano di “guerra di posizione”) culturale e politica che era l’elemento caratteristico dei comunisti italiani del tempo. Si capisce perché, allora, i servizi segreti fascisti seguissero con particolare attenzione i lavori del primo Congresso unitario della gioventù italiana in Francia, presieduto da Togliatti e che si svolse presso Lione nel 1938. La Resistenza non fu pronta per caso: come aveva ben compreso Togliatti, nell’inquietudine di quella generazione c’era molto da incanalare nell’antifascismo.
Ed è successo, sebbene in modo diverso, nel movimento degli anni ‘70 e nei movimenti giovanili seguiti a questo. Proviamo, però, proprio per questo motivo, a comprendere le conseguenze del cambiamento della base sociale del marxismo inteso come ideologia politica, che non deriva solo da nuovi indirizzi strategici come quello appena descritto, ma anche dalle trasformazioni intervenute nel capitalismo mondiale.
A differenza di quanto era avvenuto durante la I e la II Internazionale, infatti, lo sviluppo del marxismo dopo gli anni Cinquanta ha avuto luogo soprattutto tra giovani intellettuali. Capirne la genesi può aiutare a comprenderne le ricadute e a orientare la nostra azione oggi.
Originariamente le radici sociali del marxismo erano state principalmente in movimenti e partiti di lavoratori manuali. Dall’inizio degli anni ‘50 la situazione iniziò a cambiare sensibilmente. Tralasciamo, per ovvie ragioni, la battaglia ideologica per l’egemonia ingaggiata dal capitalismo attraverso la pubblicità e l’invadenza massmediatica sui desideri degli operai e dei salariati in genere e concentriamoci su di noi.
La crescita dell’occupazione non manuale e l’espansione della scolarità secondaria e superiore hanno giocato un ruolo determinante. È stato un cambiamento profondo di portata generale: i nuovi marxisti parlavano spesso un linguaggio diverso nell’analisi teorica. Giovani intellettuali la cui radicalizzazione politica si ebbe, soprattutto, all’interno della loro esperienza scolastica. Nacquero ovunque organizzazioni e partiti marxisti, i cui militanti avevano una base sociale diversa. La radicalizzazione di giovani intellettuali ma con base sociale diversa è confermata dal suo apparire sulla scena non in funzione dell’insoddisfazione materiale, economica ma, al contrario, alla fine degli anni ’60, cioè al culmine dell’espansione capitalistica.
Fu un effetto della progressiva scolarizzazione nei paesi a capitalismo avanzato che già Marx aveva, opportunamente, considerato nell’ottica della relazione tra istruzione e lavoro, o della scuola e della fabbrica: e cioè che, in Europa, la nascita della scuola pubblica per tutti ha coinciso con la nascita della fabbrica e che, dunque, alla rivoluzione industriale corrisponde anche una rivoluzione formativa, scolastica.
Va subito detto che si tratta di uno sviluppo contraddittorio: se la rivoluzione industriale o le macchine – per meglio dire – postulano oggettivamente la scuola, questa stessa non è, però, voluta dai proprietari delle macchine; dai capitalisti che, infatti, la subiscono recalcitrando. Scorrere le date lo conferma e il ‘lungo ’68 italiano’ è stato possibile perché ha visto incrociarsi il movimento studentesco col movimento dei lavoratori.
L’attuale atomizzazione sociale frutto delle contraddizioni del capitalismo odierno ci pone di fronte a un corpo sociale giovanile privo di quelle caratteristiche su cui poteva lavorare Togliatti; è negato quel contenitore ‘vuoto’ su cui insistevano Togliatti e il PCI, sia per la costruzione di una coscienza antifascista, sia per l’edificazione di un’idea progressiva della democratizzazione del paese.
Quando prima si faceva cenno alla gramsciana guerra di posizione, questa sembra avere un terreno privilegiato d’azione proprio su quello giovanile. La guerra di movimento, infatti, è funzionale alle conquiste non decisive; per avere garantita la vittoria definitiva, bisogna saper mobilitare tutte le risorse dell’egemonia e dello Stato. In questa guerra di posizione, che vede nei giovani l’assedio finale perché teso a eliminare la pesante e temibile materialità delle forze della critica, il pensiero dominante si sta già spendendo da tempo.
E oggi che il tema della precarietà è uno di quei sintomi evidenti della dialettica particolare-generale che riguarda la questione giovanile e di cui parlavamo prima, non è affatto casuale che il governo Monti insista molto – e strumentalmente – sui giovani in contrapposizione contro le “rigidità” del welfare state e del movimento dei lavoratori. Sulle nuove generazioni si gioca, infatti, la riuscita o meno della sua egemonia sulla società.
Bisogna, dunque, saper dare risposte alla questione giovanile, come prima accennato, anche sotto la forma di contraddizione generale: riprendere il tema, anche questo gramsciano, della rivoluzione in occidente serve a conferire verso e direzione ad un agire politico che, altrimenti, rimane intrappolato tra la sterile fascinazione verso cause altre e l’altrettanto arretrato senso della mutua solidarietà come orizzonte ultimo. Dobbiamo, inoltre, tener conto delle molteplici relazioni che, inevitabilmente, all’interno di un ‘movimento’ composito ed eterogeneo come quello giovanile, s’intrecciano con gruppi molto diversi sia per elaborazione che per sintesi politica. Capire e attrezzarsi per saper dialogare (e lanciare una sfida egemonica) con esperienze che, anche per le ragioni sopra descritte, provengono più dai settori di lotta successivi che non da ambiti marcatamente marxisti, è centrale tra i nostri compiti.
L’evanescenza, per non parlare di assenza vera e propria, di una durevole mobilitazione studentesca e universitaria, può considerarsi, inoltre, la cartina di tornasole dell’egemonia che una sinistra subalterna è stata capace d’esercitare, dipingendo il mostro Berlusconi e non l’avversario di classe.
Quest’attuale crisi sistemica del Modo di Produzione Capitalista ci parla, invece, del fallimento del capitalismo e, da questa certezza, bisogna ripartire senza dar spazio, però, a nessuna pratica avventurista legata a un’ipotesi ‘crollista’ di comodo.
Davanti alla nuova rivoluzione rappresentata dai robot, dall’automazione, dalla cibernetica, dall’informatica e dalla telematica, da tutti quei processi che, in ultima analisi, accelerano e moltiplicano le capacità percettive e mentali, c’è sempre più bisogno di uomini totalmente sviluppati, che non si fermino al particolare, tanto della vertenza quanto del singolo miglioramento.
La nostra funzione rispetto alla questione giovanile, come comunisti è, dunque, di farsi carico sia dell’istanza particolaristica che essa comporta, i giovani nella classe come potenziale dello sfruttamento capitalistico da difendere e organizzare nella battaglia, sia di quella generale dei giovani e della loro esigenza di un mondo diverso.
Per queste ragioni, come si diceva inizialmente, la questione giovanile è un aspetto specifico della dialettica particolare-generale.
Nella storia c’è sempre un grave ritardo nei processi sovrastrutturali. La contraddizione di cui stiamo parlando è, spesso ma non sempre, avvertita dai giovani come contraddizione tra aspettative e realtà. Dietro c’è anche molto di più: la scommessa dell’umanità che nel suo intrinseco lottare con la Realtà, anche naturale, deve garantire il massimo di razionalità possibile.
Ai comunisti – e non è la prima volta – spetta questo ruolo.