di Francesco Piccioni
Ad eccezione di alcuni pochi capitoli, ogni periodo importante degli annali rivoluzionari dal 1848 al 1849 porta come titolo: Disfatta della rivoluzione! Chi soccombette in queste disfatte non fu la rivoluzione. Furono i fronzoli tradizionali prerivoluzionari, risultato di rapporti sociali che non si erano ancora acuiti sino a diventare violenti contrasti di classe, persone, illusioni, idee, progetti, di cui il partito rivoluzionario non si era liberato prima della rivoluzione di febbraio e da cui poteva liberarlo non la vittoria di febbraio ma solamente una serie di sconfitte.
In una parola: il progresso rivoluzionario non si fece strada con le sue tragicomiche conquiste immediate, ma, al contrario, facendo sorgere una controrivoluzione serrata, potente, facendo sorgere un avversario, combattendo il quale soltanto il partito dell’insurrezione raggiunse la maturità di un vero partito rivoluzionario.
Karl Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850
Premessa
La lotta di classe è un dato oggettivo. Avviene in ogni atto della vita quotidiana, anche senza che ce accorgiamo. Perché diventi esplicita, invece, occorre che si costituiscano “soggettività organizzate”. Che la borghesia ha, riproduce, coltiva, rafforza. E che il proletariato possiede a tratti, in modo discontinuo, tra assalti al cielo e sconfitte annichilenti.
Nella citazione marxiana questa contrapposizione cosciente viene evidenziata fino all’estremo. Mettendo in chiaro due cose mai separabili all’atto pratico: la Rivoluzione è affare che riguarda classi intere, centinaia di milioni di esseri umani; la Rivoluzione è un progetto politico-sociale, che richiede scienza e coscienza.
Chiamando “partito” l’insieme che persegue il fine della Rivoluzione, insomma, nella tradizione comunista si indica l’ “intellettuale collettivo” che promuove e guida l’azione della classe. “Promuovere” e “guidare” sono due verbi; indicano dunque un’azione, non un ordine del discorso. Il partito della Rivoluzione, dunque, è l’organizzatore diretto della classe. Tramite le necessarie articolazioni, i “corpi intermedi” tra la progettualità strategica e l’immediatezza dei bisogni popolari; ma organizzatore.
Detta così sembra semplice, ma non lo è stato neanche per Marx, Lenin, Mao.
1.
La definizione marxiana è altamente controintuitiva. Un’idea elementare e immediata del conflitto da basso porterebbe infatti a ipotizzare un percorso decisamente “sottotraccia”, un’accumulazione di forze silente, da far uscire poi allo scoperto quando la si ritiene sufficiente a ribaltare i rapporti di forza sociali e cambiare l’ordine delle cose. Insomma, qualcosa da rinviare a quando lo sviluppo delle forze del cambiamento è tale da richiederlo. Non è un’idea del tutto insensata, anzi molto common sense; ma non porta da nessuna parte. Ovviamente Marx non pensava che la sfida al potere costituito andasse portata a prescindere dagli squilibri o equilibri in campo. Ma avverte che nessuno potrà mai neppure arrivare a porsi la questione del potere politico se non se la pone da subito. La contrapposizione con l’avversario, dunque, deve costituire sempre il problema principale per il soggetto che si propone il cambiamento rivoluzionario. Sarà poi la situazione concreta – la fase storica, i rapporti tra le classe, le abitudini secolari di una paese o un’area, la forza soggettiva – a determinare quali strategie, quali tattiche, ecc, vanno scelte. Dialetticamente, per la crescita della consapevolezza di massa e il radicamento delle avanguardie all’interno della classe, qualche «conquista immediata» risulta necessaria. Un percorso fatto solo di sconfitte sarebbe semplicemente paralizzante per ogni conflitto sociale consapevole.
Teniamo presente questa logica controintuitiva nel momento in cui affrontiamo il tema del partito e della sua funzione di massa, perché ricorre necessariamente in ogni passaggio.
La parola “partito”, nell’immaginario del tardo ‘900, si sovrappone all’idea di un corpo solido, di un architrave su cui si regge identità, scienza, capacità egemonica. Una struttura che ha continuità nel tempo, in contrasto con labilità temporale dei movimenti. È un concetto che contiene grandi parti di verità, ma che spesso – privilegiando la staticità rispetto all’operatività – appare più adatto ad un motore immobile, che non a un soggetto agente in vista di scopi determinati, sul breve come sul lungo periodo (tattica e strategia). Come se di un corpo organico si privilegiasse solo la struttura scheletrica, senza tener conto di muscolatura, tendini, articolazioni, fisiologia, ecc. Il molto di vero che c’è in questa idea è stato insomma spesso congelato in una mistica della “continuità immutabile”, che non a caso non ha retto alla prova empirica.
Non sottolineeremo mai abbastanza il fatto che la sconfitta storica del movimento comunista mondiale, la delegittimazione ideologica della trasformazione rivoluzionaria della società, ha accompagnato e seguito – ha assunto l’apparenza di un verità incontrovertibile – la sconfitta di un polo geostrategico che aveva a lungo identificato se stesso con la causa del movimento operaio mondiale, condizionandone nel bene e nel male l’evoluzione storica.
Non è un caso neppure che la forma storica del “partito di massa” – dominante nei paesi avanzati nel dopoguerra – abbia accompagnato la per molti versi necessaria trasformazione del conflitto tra i blocchi in “competizione pacifica”; la quale ha avuto risvolti “nazionali” con l’abbandono del conflitto teso alla rivoluzione sociale in favore di una più tranquilla “competizione elettorale”.
Intendiamoci: il “partito di massa” del comunismo occidentale pre-sessantottesco era anche un “partito di quadri”. E un segretario di sezione aveva certamente, tra i suoi compiti, anche quello di individuare, tra gli iscritti, chi aveva le caratteristiche per fare il militante, essere avviato alla scuola quadri, diventare alla lunga un “quadro”; ovvero un funzionario. Il problema è che tutta questa “formazione professionale” era orientata da una finalità strategica che doveva espungere l’obiettivo della trasformazione radicale dell’esistente a favore di una “progressività” evolutiva della società e delle istituzioni. Il “partito di iscritti” era già di fatto anche una megamacchina elettorale ai tempi in cui i media non erano ancora decisivi. La teoria occhettiana del “partito leggero” – ma non per caso dopo l’89 – nasce dalla scoperta che la tv fa la stessa funzione prima, meglio e con una fatica minore. A quel punto anche il ruolo dei funzionari – l’anello di congiunzione tra base e vertice – non ha letteralmente più significato e viene sostituito da creativi della comunicazione o semplici portaborse per le mansioni di segretariato.
È la linea strategica, insomma, a determinare quale tipo di partito sia più conveniente. Ed è la situazione storica concreta, più in generale, a determinare quali scelte strategiche siano concretamente possibili e quindi anche la “forma-partito”.
Poi, com’è ovvio, qualsiasi organizzazione umana ha una sua struttura, una gerarchia, delle filiere di comando formalizzate o informali, al di là dei nomi che vengono affissi fuori delle stanze (segretario, segreteria, direttivo, comitato centrale, federazione, sezione, cellula, ecc). Ma queste strutturazioni dipendono dal bisogno cui devono rispondere, non sono “valori in sé”.
Sta di fatto che quel tipo di partito non era politicamente strutturato – e tantomeno quindi organizzato – per “cogliere l’occasione”. Ma neppure lo era per interloquire proficuamente con i movimenti, sempre diversi e “dirazzanti” rispetto a qualunque ortodossia. Né in Occidente, né altrove.
Basti pensare al partito comunista cubano di obbedienza kruscioviana, che di fatto rimase a guardare la Rivoluzione. Lo stesso fece il boliviano (in epoca già brezneviana), quando il “Che” prese l’iniziativa. Inutile fare cento esempi: data una linea (per sintesi definibile di ascendenza “cominternista”, dal ‘45 in poi), quasi dappertutto lo sviluppo fu simile. Uniche eccezioni, le presenze attive e con funzioni direttive nei “movimenti di liberazione nazionali”.
Diciamo dunque che il “partito di massa” era sostanzialmente un adattamento alla politica parlamentare, nei paesi occidentali. Mentre là dove l’indipendentismo anticolonialista riusciva a sposarsi con istanze sociali avanzate e con la politica sovietica del tempo assumeva ben altre forme e metodologie di lotta.
Il nodo teorico del partito come “partito di quadri” tornò nei gruppi dopo il ‘68, sempre in bilico tra la “setta chiusa” incentrata sulla sola attività di “propaganda” di se stessa e una nuova formulazione del “partito di massa” in vesti più estremiste (Lotta Continua, ad esempio). Un dualismo di impostazione che si riprodusse persino dentro le formazioni guerrigliere degli anni ‘70, a dimostrazione dell’irrisolvibilità del nodo in condizioni di “sovranità limitata” e “rivoluzione impossibile”.
Il “dopo Muro” ha approfondito il solco, favorendo la degenerazione speculare tra “partito setta” e “partito leggero”, leaderistico e mediatizzato. In entrambi i casi, però, veniva concettualmente reciso quel legame fondamentale che lo “spirito dei tempi” andava allentando per forza propria: quello tra soggettività d’avanguardia e classe sociale.
Quando si cerca una ragione della frammentazione estrema fra formazioni tutte minoritarie, che si definiscono comunque “comuniste”, va individuata nello smarrimento del primo “criterio oggettivo” che può sciogliere le differenze inevitabili – e alla lunga paralizzanti – tra i molti “punti di vista”, innervando quella “visione superiore” capace al tempo stesso di comprendere la differenza e di partorire decisioni operative. È il punto di vista dell’interesse generale della classe in una determinata fase storica, che magari ha un legame solo alla lontana con la rivoluzione socialista (se ricordiamo l’esempio delle lotte anticoloniali…).
L’altro pilastro è la correttezza dell’analisi concreta della realtà concreta, di fatto dipendente dal grado di preparazione scientifica dei soggetti promotori del partito.
Se si sbaglia direzione, ci si perde. E nessuno ha ancora inventato un “navigatore” per la lotta di classe.
Una soggettività composta solo da “desideri”, insomma, non ha nulla a che vedere con la trasformazione della realtà. È un sintomo dell’urgenza sociale del cambiamento, non uno strumento per la trasformazione.
2.
Marx, in Le lotte di classe in Francia, ci dà però un’indicazione teorica ancora più esplicita e determinante, che fa da nucleo profondo della stessa concezione leniniana di “partito”: il “soggetto” della Rivoluzione non si sviluppa, per così dire, “su se stesso”, aumentando progressivamente di consensi e dimensioni grazie a una propaganda efficace, un’agitazione duttile, un proselitismo accorto. Né con le “tragicomiche conquiste immediate” che fanno impazzire di gioia i movimentisti di ogni epoca, Per pochi minuti, prima dell’ovvia, ma imprevista, repressione o ribaltamento dei rapporti di forza.
No. Ciò che rende un partito “Rivoluzionario” è la sua capacità di affrontare il conflitto con l’avversario di classe sul piano politico generale, per come nella fase si esprime, con le forme conflittuali che la fase impone o consente. Ovvero che si misura in ogni istante con il problema strategico della conquista del potere politico, senza schemi preconcetti o “modelli” ideali da realizzare. È insomma un “intellettuale collettivo” esperto innanzitutto nella scienza dei rapporti di forza tra le classi e tra i soggetti in campo, che sa tenere contemporaneamente presente l’obiettivo finale e ogni singola buca sul suo cammino.
Un gruppo che fa studio e propaganda non è un partito comunista, qualunque nome scelga. Il partito della rivoluzione è quello capace di organizzare la classe nella lotta per abbattere il potere del Capitale, ci vogliano giorni o secoli. E naturalmente oggi non c’è. Stiamo parlando delle caratteristiche teoriche, non indicando un esempio concreto.
Il partito per come descritto da Marx e Lenin è dunque un soggetto che si costruisce nel conflitto per gestire il conflitto, che gioca per vincere. E che naturalmente ha l’obbligo di misurare col bilancino di precisione i rapporti di forza tra le classi e tra gli apparati contrapposti, perché ogni errore – sia di sottovalutazione che di sopravvalutazione, delle proprie energie o delle altrui – viene inesorabilmente pagato carissimo. Anche con la distruzione totale della soggettività organizzata. In alcuni casi estremi, dunque, sopravvivere è già una vittoria; in altri, non cogliere il risultato pieno quando è possibile può diventare una sconfitta irrecuperabile. Due esempi? Il partito bolscevico del 1905 nel primo caso, la Spartacus Bund del 1919 nel secondo.
Non è un partito comunista quello che parte all’attacco del Palazzo d’Inverno indipendentemente dalla stagione e dall’ora. Non è un partito comunista quello che non parte mai, che attende che la Storia gli dia ragione consegnandogli “le masse” su un piatto d’argento e che quindi non si struttura alla bisogna.
3.
La “funzione di massa” del partito che Marx teorizza e imposta nell’Internazionale, ma che Lenin realizzerà successivamente, è quindi un corposo insieme di capacità d’analisi, saggezza delle scelte, audacia nell’iniziativa, capacità formativa rispetto al “proletariato in sé”, acume conflittuale che si manifesta nell’organizzazione diretta della classe su vari piani (politico, sindacale, associativo, ecc). La “qualità politica”, in altri termini, non si autocertifica: si misura in risultati, si vede, si tocca.
Nel partito di Marx e Lenin c’è insomma la tradizione giacobina, la dialettica hegeliana (altrimenti detta “filosofia classica tedesca”) e l’arte di von Clausewitz.
Chiunque si sia perso per strada una delle tre matrici teoriche ha fatto una brutta fine.
Ma restiamo al tema di questo seminario. “Funzione di massa” dei quadri – quindi del partito – è una conditio sine qua non, come abbiamo visto. Può sembrare quasi un sogno in una realtà come l’attuale, dove “le masse” guardano da tutt’altra parte e i “quadri” dei diversi partitini, spesso, parlano a se stessi o gli uni con gli altri senza “riconoscersi”. Proprio in queste condizioni il problema del “rapporto con le masse” – tra soggettività strategica e proletariato storicamente determinato – va invece posto, ovvero costruito, senza peli sulla lingua.
La distinzione tra classe in sé (forza-lavoro generica, priva di mezzi di produzione), classe per sé (organizzata in sindacati, associazioni, movimenti di ogni tipo) e classe in sé e per sé (partito politico della trasformazione sociale) è troppo conosciuta per dover esser ricordata. Ma i corollari di questa distinzione sono stati spesso dimenticati nella concreta azione politica dei molti soggetti “comunisti”.
4.
Il primo corollario sembra banale solo in apparenza: il movimento di classe è uno, i partiti (e i sindacati) sono molti. Sempre, in ogni continente e in ogni fase storica.
Cosa significa? La classe ha la possibilità – mai la certezza – di diventare soggetto attivo nel conflitto di classe soltanto se si concepisce, raggruppa, organizza e rappresenta come classe unitaria. A qualsiasi livello si può sperimentare che la divisione è un regalo all’avversario (il padrone, Confindustria, ecc). Ciò è ancora più vero a livello politico generale (Stato, alleanze internazionali, ecc).
La potenza e l’esperienza che si trova di fronte possiedono infatti vantaggi straordinari. Proprietà dei mezzi di produzione e del patrimonio, controllo delle macchine statali e dei relativi addentellati informativi, polizieschi, militari, formativi, ideologici, ecc. I quali trattengono la memoria storica dei conflitti precedenti in apposite istituzioni, mentre la classe e le sue soggettività sembrano ripartire ogni volta da zero.
Commettendo gli stessi errori, riproducendo le medesime ingenuità e persino le illusorie parole d’ordine “immediatiste”. Basta rileggere la seconda parte de Il manifesto del partito comunista per avere un’autentica illuminazione in proposito. O il Che fare?, scritto in continua contrapposizione con le altre tendenze “socialiste”.
Fin dalle origini, dunque, il partito della rivoluzione ha dovuto lottare per unire la classe, radicandosi al suo interno e combattendo le influenze “borghesi” (socialisti, anarchici, cattolici, fascisti, ecc). Che però vivono negli stessi luoghi sociali, non altrove. Dal punto di vista empirico ciò implica – com’è esperienza di tutti i militanti – una grande fatica e molte complicazioni. Ma dal punto di vista teorico non esiste il problema. Il compito del “quadro con funzioni di massa” è esattamente quello appena indicato: unire e organizzare la classe, radicandosi al suo interno e combattendo le influenze “errate”. Naturalmente le forme di questa “lotta ideologica” contro le altre tendenze sono esplicite al livello della teoria e delle linee politiche, ma non si riproducono mai tali e quali a livello della situazione di massa; il proletariato concreto, in genere, non sa che farsene di “avanguardie” che si limitano a litigare fra loro. Apprezza le differenze, in altri termini, solo se queste si traducono in consigli pratici, in soluzione dei problemi concreti che ci sono in un determinato momento.
Anche Marx e Lenin si scontrarono continuamente con altre impostazioni, che davano vita ad altre organizzazioni, sia sindacali che politiche; ma l’indicazione che si fece strada – fino a produrre un autentico “manuale” del quadro politico comunista – rimase quella. Pensiamo al PCI degli anni ‘30, che scelse di “lavorare” all’interno del sindacato fascista, pur di non perdere (o ritrovare) il contatto diretto con la classe sui luoghi di lavoro. A volte – certo – è faticoso e difficile, a volte viene la tentazione di “farsi il proprio movimento operaio”, evitando al massimo di confrontarsi tra la gente con le altre impostazioni, magari molto maggioritarie. È la tentazione che viene bocciata come settarismo sterile, perché porta all’autoemarginazione della soggettività comunista all’interno della classe che dovrebbe organizzare e – non troppo paradossalmente – consegna ad altri la guida del movimento. Gli esempi sono decine nella vita di tutti noi e per carità di causa non ne faccio nemmeno uno.
Questa tentazione è in genere figlia della difficoltà pratica, di una condizione fortemente minoritaria del soggetto comunista. E produce spesso una giustificazione “teorica” molto zoppicante. L’ “autonomia” o l’ “indipendenza” del soggettopartito, infatti, si identifica con una strategia di lungo periodo, con una teoria della trasformazione e un’organizzazione conseguente; sia che ci si presenti alle elezioni sia che si seguano altre strade. Si manifesta con nettezza nei momenti in cui il movimento di classe si trova davanti a svolte chiare. Ma non si traduce in un “altro movimento operaio” (ricordiamo molti testi operaisti su questo tema, che invece puntavano solo a individuarne un “altro”, puro…). Solo nell’Italia delle ammucchiate elettorali del “bipolarismo obbligato” poteva diventare normale sovrapporre o confondere piani che sono radicalmente distinti.
Mi sembra una considerazione piuttosto attuale, visto che le molte soggettività comuniste sono quasi nella condizione del Pci degli anni ‘30: la condizione di minorità sociale c’è tutta, manca solo la messa fuori legge. In una condizione come questa ha senso pensare ad altrettanti sindacati, movimenti per l’acqua, per i diversi “beni comuni”, ecc? Ma voglio dare un esempio positivo, almeno finora: la resistenza della Val Susa. Lì possiamo vedere in opera un movimento di massa unitario che – sulla base degli interessi concreti lì esistenti – ha elaborato e imposto regole condivise di comportamento sia alla popolazione residente che alle molte soggettività solidali (in alcuni casi apertamente “politiche”). Ogni soggettività fa il suo lavoro tentando di radicarsi, di influire, di costruire un consenso più specializzato. Ma il movimento resta unitario. E solo questo gli ha permesso, di fronte ad attacchi politici, militari, mediatici, giudiziari, di essere ancora in piedi e di diventare un punto di riferimento per il movimento più generale. Questa esperienza, dunque, ha valore di indicazione complessiva; esprime uno dei livelli più avanzati della soggettività di massa che si veda oggi in Italia.
Il partito – se esistesse – starebbe lì dentro, ma con una visione di più vasta eco sociale e di più lungo periodo. La trasformazione della società passa infatti anche per la Val di Susa, ma non finisce lì. Quel movimento – se raggiungerà il suo obiettivo: impedire la costruzione della TAV – si scioglierà con gioia. Il partito no. Cercherebbe di generalizzare quell’esperienza di movimento unitario, con regole condivise, a tutto il paese e magari anche a livello continentale.
5.
Il secondo corollario, dunque, è che la “funzione di massa” di un quadro militante consiste certamente nel promuovere coscienza e conflitto sociale, ma senza mai perdere se stesso nei singoli movimenti che nascono spontaneamente o in virtù della sua azione. “Star dentro” il movimento, in altri termini, non è mai – o almeno non deve essere – in contraddizione con il “pensar da fuori”. Certo, è un “doppio lavorio”, un costruire contemporaneamente organizzazione di classe e organizzazione politica, un praticare l’unità a un livello mentre si pratica la lotta politica su un altro. Ma i livelli vivono nello stesso luogo e nello stesso tempo, non in mondi separati e incomunicanti.
La “qualità” di un quadro – so di ripetermi – non è una dote astratta, ma la capacità di astrarre mentre agisce. Facciamo un esempio per alleggerire l’esposizione.
Abbiamo tutti partecipato al movimento per l’acqua pubblica. Il referendum ha raccolto la maggioranza assoluta, fisica, del popolo italiano. Un insieme più caotico e indifferenziato era difficile da immaginare. L’unica cosa chiara – ma anche l’unica importante – era l’obiettivo: cancellare una legge che rendeva possibile la privatizzazione dell’acqua. Un interesse generale della classe che si è imposto per evidenza.
Hanno partecipato proprio tutti. I “benecomunisti”, i grillini, i vetero-comunisti e gli ecologisti all’acqua di rose, gli animalisti e il Pd, perfino parti importanti della Lega e della destra. Ma nessuno vi ha smarrito la propria identità. Ogni soggetto politico-partitico ha cercato di far passare la propria visione del problema, una spiegazione che legava l’acqua a visioni sociali molto diverse; ognuno ha cercato di allargare i propri consensi (elettorali, politici, sindacali, settari, persino religiosi, ecc).
Ognuno ha seminato e raccolto secondo i propri mezzi e capacità; ma nessuno ha cercato di fare il proprio movimento per l’acqua. Per il buon motivo che non avrebbe funzionato affatto. Non può funzionare e non funzionerà mai.
Mi perdonerete il tono didascalico, ma il tema della “funzione di massa” dei quadri di un partito – per un vecchio militante – è un tornare alla grammatica del’’agire politico. La si è data per scontata dopo averla appresa, come si fa con la lingua. Ma nei momenti di crisi – parlo della politica comunista – bisogna rivedere un attimo i fondamentali. E vi si scoprono autentiche “novità” andate smarrite da decenni.
È ovvio fino alla banalità che un organismo complesso come un partito debba ricorrere sia a una strutturazione gerarchica che a una divisione-specializzazione del lavoro. La dialettica ci insegna che ciò è necessario, ma non produrrà soltanto per questo buoni risultati a lungo andare. La gerarchia rafforza i meccanismi burocratici – anch’essi necessari – fino a congelarli in strutture sorde all’altrettanto necessario mutamento imposto dall’avanzare del conflitto e della Storia. La divisione del lavoro genera altrettanti specialismi che non sempre si ricollegano all’unità complessiva dell’agire dell’organismo-partito. Sono fenomeni normali, affrontati ormai anche dai manuali di management, non più “eventi misteriosi” che richiedano l’individuazione di complicate ideologie “deviazioniste” o l’azione di un “nemico esterno” (anche se l’infiltrazione dei soggetti antagonisti è pratica immortale del potere, anche a prescindere dalla loro “pericolosità immediata”). L’ideologia, in altri termini, segue e maschera la realtà; non l’anticipa né la produce.
La capacità vitale di un partito comunista, di fronte a pericoli evolutivi così normali, è garantita sia da una leadership lungimirante (il Mao del “bombardare il quartier generale” ne era molto consapevole), sia da una modalità di costruzione della soggettività organizzata per vie interne al movimento di classe. È l’osmosi continua tra “avanguardie di classe” (i “capipopolo” riconosciuti in ogni luogo di lavoro) e soggettività partitica a garantire – entro i limiti dell’umanamente possibile – da ripiegamenti e necrosi. È una tensione perenne, costitutiva, non eliminabile tra stabilità e cambiamento, tra autoconservazione ed evoluzione.
6.
L’ultimo punto che vorrei toccare riguarda perciò il lato “non di massa” del concetto e della funzione di un partito comunista, ritornando alla citazione marxiana iniziale.
Se la “maturazione” del soggetto rivoluzionario con basi di classe dipende dal confronto con il soggetto controrivoluzionario, allora lo studio dell’evoluzione dell’avversario è componente decisiva della capacità di fare analisi concreta della situazione concreta. Non basta citare appropriatamente le categorie analitiche marxiane; questo lo sa fare qualsiasi gruppetto settario che abbia avuto tempo di istruirsi sui testi. Bisogna usarle per scandagliare il reale nello stesso momento in cui ci si adopera per suscitare o organizzare movimento di classe. Senza addentrarci in analisi di ristrutturazioni davvero complesse – come la costruzione istituzionale dell’Europa attraverso la moneta unica, oppure la centralizzazione di tutte le comunicazioni che viaggiano in rete entro server colossali controllati (anche) dai governi – facciamo un esempio “minore”: cosa cambia, nella struttura e nel modo da agire del capitalismo italiano, il divieto – diventato operativo pochi giorni fa – di sedere contemporaneamente nei CDA di società teoricamente concorrenti? Ripetersi che “tanto sempre di capitalismo si tratta” è come dire che non ci interessa sapere se a darci battaglia sia la cavalleria di terra o dell’aria. Posso assicurare che c’è molta differenza.
La funzione di “intellettuale collettivo”, si vuol dire, si realizza dentro questo conflitto e attraverso la connessione di “terminali attivi”, in grado di elaboraretrasmettere informazione (dal basso verso l’alto) e articolare iniziativa, linea, organizzazione (dall’alto verso il basso).
Questo intellettuale sui generis, insomma, ha bisogno tanto di scienza di alto livello quanto di verifica empirica articolata. Questa connessione è l’organizzazione, non (solo) la “trasmissione di ordini» dall’alto verso il basso a partire da un gruppo di “sapienti”. Questa connessione è potenza in atto, superamento delle debolezze individuali nella costruzione di un sapere scientifico e operativo, trasformatore dei rapporti sociali e dei singoli partecipanti all’impresa.
Dico questo perché mi sembra chiaro che ciò che resta dei vari gruppi che si definiscono comunisti abbia ormai introiettato la sensazione dell’impotenza, fino a darle in alcuni casi una consolante veste teorica. O quanto meno comportamentale. Una certa rassegnazione all’inutilità sociale da cui ci si risveglia per alcuni alla vigilia di una scadenza elettorale, per altri al primo manifestarsi di una qualche mobilitazione sociale. Per poi ritornare al solito tran tran lievemente autistico.
Fa parte di questo clima psicologico, prima che culturale, anche il modo di discutere della crisi globale del modo di produzione capitalistico. Come se fosse un evento di interesse libresco – o una maledizione per l’attività sindacale – invece che la prova storica della validità dell’analisi marxiana e quindi l’occasione per rimetterla alla prova della politica attiva. So benissimo da solo che è più probabile la scomparsa totale della soggettività organizzata definibile come comunista, che non la sua ricostruzione su basi più solide. Ma aggirare la sfida è un giochino da “negriani”, non da comunisti.
È difficile e si può sbagliare, certo. Ma per imparare a nuotare bisogna buttarsi in acqua.